Gianluca Chiovelli
La biblioteca Umberto Barbaro, ospitata presso la Casa dei Teatri a Villa Pamphili, Municipio XII, è sotto sfratto; questo accade nonostante un contratto di comodato valido sino al 2028.
Ignoro i contenuti e gli addentellati giuridici della vicenda, ma la sostanza è questa, in un guscio di noce.
La biblioteca Barbaro possiede un patrimonio di circa 25.000 unità (sceneggiature, saggistica, periodici nazionali e internazionali) che trattano quasi esclusivamente di cinema.
La sede originaria era in Via Nazionale, presso il Palazzo delle Esposizioni; la Umberto Barbaro migrò una prima volta nel 2000; rimase quindi in un limbo per 5 anni; nel biennio 2005-2006 trovò, come detto, una propria collocazione all'interno della Casa dei Teatri (occupava tutto il secondo piano).
Da allora subì una morbida escalation di espropri: alcune sale vennero donate ad altre associazioni e realtà dell'ambito teatrale; un grande spazio fu, invece, riservato alla sala per incontri e proiezioni. Una sorta di mobbing alla vaselina.
A tutt'oggi gli indiani della Biblioteca Barbaro vivono, mal sopportati, in una riserva d'un trenta metri quadri.
Da luglio, però, dovranno mettersi in marcia di nuovo.
Il Comune di Roma (o il Municipio) ha individuato, evidentemente, alcune realtà irresistibilmente più importanti della Biblioteca di cui stiamo discorrendo e che meritano, altrettanto irresistibilmente, d'essere parcheggiate nell'invidiato spazio immerso nel verde della storica villa. Si può far aspettare questi novelli Shakespeare? No, ovviamente. Ubi minor maior cessat.
Il trasloco è, perciò, imminente.
Ignoro i contenuti e gli addentellati giuridici della vicenda, ma la sostanza è questa, in un guscio di noce.
La biblioteca Barbaro possiede un patrimonio di circa 25.000 unità (sceneggiature, saggistica, periodici nazionali e internazionali) che trattano quasi esclusivamente di cinema.
La sede originaria era in Via Nazionale, presso il Palazzo delle Esposizioni; la Umberto Barbaro migrò una prima volta nel 2000; rimase quindi in un limbo per 5 anni; nel biennio 2005-2006 trovò, come detto, una propria collocazione all'interno della Casa dei Teatri (occupava tutto il secondo piano).
Da allora subì una morbida escalation di espropri: alcune sale vennero donate ad altre associazioni e realtà dell'ambito teatrale; un grande spazio fu, invece, riservato alla sala per incontri e proiezioni. Una sorta di mobbing alla vaselina.
A tutt'oggi gli indiani della Biblioteca Barbaro vivono, mal sopportati, in una riserva d'un trenta metri quadri.
Da luglio, però, dovranno mettersi in marcia di nuovo.
Il Comune di Roma (o il Municipio) ha individuato, evidentemente, alcune realtà irresistibilmente più importanti della Biblioteca di cui stiamo discorrendo e che meritano, altrettanto irresistibilmente, d'essere parcheggiate nell'invidiato spazio immerso nel verde della storica villa. Si può far aspettare questi novelli Shakespeare? No, ovviamente. Ubi minor maior cessat.
Il trasloco è, perciò, imminente.
[I quindicimila volumi stipati nella terra di nessuno, ovvero presso l'ex Fiera di Roma, area dismessa da anni. Un patrimonio alla mercé dell'incuria, dei ladri, di tutti: da un decennio].
Il patrimonio contenuto nella sede della Casa dei Teatri dovrà, in tutta fretta, essere inscatolato e portato altrove. Tale patrimonio (circa 10.000 unità) non esaurisce l'intero archivio della Biblioteca. Una parte doppiamente consistente (400 casse, 15.000 unità) è parcheggiata, da parecchi anni, presso la sede dismessa e fatiscente della Fiera di Roma, sulla via Cristoforo Colombo.
Dove andranno a finire i nostri profughi? Verranno forse ospitati nella sede del Movimento Operaio e Democratico (a Ostiense); l'ex AAMOD, altra realtà cacciata da Monteverde. O forse no. Queste notizie le conosco de relato, devo quindi applicarvi un dubbio.
Forse verranno ospitati. O forse no.
[L'ex Fiera di Roma sulla via Cristoforo Colombo. Una immagine degna di un film post apocalittico di Romero, L'alba dei morti viventi o La città verrà distrutta all'alba].
In ogni caso (ospitati o meno) una parte dell'archivio dovrà essere soppressa; causa spazio.
La Biblioteca non ha i fondi per pagare, purtroppo, l'affitto annuale d'un magazzino.
In ogni caso (questa è una mia deduzione, ma sono sicuro di non sbagliare): se anche i nostri eroi dovessero salvare tutti i libri, tutti, sin all'ultima pagina, questi sarebbero, di fatto, al macero.
Se gli archivi vengono messi in condizione di non essere consultati, infatti, essi non esistono.
Se gli archivi e le biblioteche vengono, di volta in volta, riposizionati in luoghi sempre più esotici e fuori mano, come un soprammobile regalato dalla suocera, essi cessano d'avere qualsiasi utilità e funzione sociale per assurgere a pura testimonianza e deperire, quindi, nell'indifferenza.
[Qui sopra il kipple, come presagito da Philip K. Dick: "Il kipple è fatto di oggetti inutili, inservibili, come la pubblicità che arriva per posta, o le scatole di fiammiferi dopo che hai usato l’ultimo, o gli involucri delle caramelle o l’omeogiornale del giorno prima. Quando non c’è più nessuno a controllarlo, il kipple si riproduce. Per esempio, se quando si va a letto si lascia un po’ di kipple in giro per l’appartamento, quando ci si alza il mattino dopo se ne trova il doppio. Cresce, continua a crescere, non smette mai".]
Cosa accadrà, insomma, al patrimonio della nostra biblioteca sfrattata?
Quale sarà il destino di tali libri, volumi, atti, periodici, spesso unici?
Non ho alcun dubbio a tal riguardo: si suicideranno.
Sembra una battuta, vero? Ma è un fenomeno usuale. L'ha illustrato anche Pasolini. Vi ho scritto anche qualcosa sopra. Se un libro o un essere vivente o un oggetto qualsiasi (un paesaggio, una chiesa, un affresco, un animale, un anziano) non sono amati d'un amore vero, ma solo sopportati (per viltà, convenienza, ipocrisia) essi pongono fine alla propria esistenza, al di là del naturale decadimento.
Un libro, ad esempio: perde baldanza, s'accartoccia su se stesso, si sforma, s'abbatte sugli altri compagni, fratelli nella disfatta; le legature cedono, la carta ingialla; esso abbandona, quindi, ogni difesa, lasciandosi sopraffare da topi, pesciolini d'argento, tarme, fioriture, improvvise muffe. È così. Un libro è il passato, e, quindi, il presente e il futuro. E quando si sbriciola definitivamente l'amore per la memoria, i libri (e le biblioteche e gli archivi), latori d'essa, seguono nel lento annichilimento, consapevoli d'essere di troppo, così come i vecchi Hopi si consegnavano alla morte nei pueblos abbandonati.
[L'ex gloriosa entrata della Fiera di Roma, ma anche il rovescio del capitalismo illimitato che divora se stesso e rilascia le scorie del proprio corpo devastato. La morte di ogni umanesimo].
È la vittoria del menefreghismo, dell'ignavia politica, locale e nazionale, dell'ignoranza crassa, della sciatteria, della stupidità eletta a sistema, certo; siamo consapevoli d'essere governati, anche nei quartieri, da criminali e gaglioffi.
Ma è soprattutto la vittoria dell'eterno presente, un modo di vivere postmoderno imposto dallo spirito dei tempi - tempi in cui non c'è spazio per la tradizione, per i maestri e per l'insegnamento che viene dal passato, più o meno recente.
L'eterno presente ha forgiato un nuovo uomo, quello riprovato da Eraclito: uno sciocco per cui il sole è nuovo ogni giorno; egli non ricorda nulla, né il sole del giorno innanzi, né quelli dei giorni precedenti, nulla; s'appaga del momento, come un cretino senza tempo.
È la vittoria anche d'una particolare concezione del libro.
Il libro come puro contenuto, il libro aereo, digitale.
Ormai si ragiona: perché devo stampare l'Ulisse di Joyce in edizione acconcia, (copertina rigida e di buon materiale, cuciture, carta preziosa e duratura, caratteri aggraziati, nitidi, ben impressi, illustrazioni curate) quando posso editare una brossura qualsiasi o smaterializzarlo in epub, pdf, kindle, guadagnandoci il doppio o il triplo?
Il contenuto è lo stesso!
Una concezione mercantile inoppugnabile.
Peccato che l'Ulisse di Joyce in pdf o in brossura non sia lo stesso libro, ma un decadimento gnostico dell'originale, un mister Hyde di quarta mano.
Il libro come puro contenuto, il libro aereo, digitale.
Ormai si ragiona: perché devo stampare l'Ulisse di Joyce in edizione acconcia, (copertina rigida e di buon materiale, cuciture, carta preziosa e duratura, caratteri aggraziati, nitidi, ben impressi, illustrazioni curate) quando posso editare una brossura qualsiasi o smaterializzarlo in epub, pdf, kindle, guadagnandoci il doppio o il triplo?
Il contenuto è lo stesso!
Una concezione mercantile inoppugnabile.
Peccato che l'Ulisse di Joyce in pdf o in brossura non sia lo stesso libro, ma un decadimento gnostico dell'originale, un mister Hyde di quarta mano.
Il rapporto con una edizione smaterializzata o mediocre non offre lo stesso piacere, lo stesso godimento, e il coinvolgimento emotivo che ci fa capire più profondamente l'opera. I nostri sensi (vista, tatto, olfatto) non son certo mutati solo perché gli editori hanno deciso di massimizzare i margini di profitto.
Una copia smaterializzata o mediocre è brutta. Brutta. Ovvero: non è bella. A volte è ripugnante. Allontana i sensi, la curiosità, la partecipazione dell'anima, l'entusiasmo. Anche se il contenuto è lo stesso.
Una copia smaterializzata o mediocre non fa parte della tradizione; non forma un patrimonio di famiglia; non ha valore intrinseco; non è culturalmente trasmissibile. È un'usa e getta, nel migliore dei casi, o una pura alterazione del silicio nel pc.
Una copia smaterializzata o mediocre è indistinta, fungibile. Tra Joyce e la Mazzantini le differenze si assottigliano inevitabili. Alla fine non si legge più Joyce, poi neanche la Mazzantini.
Una copia smaterializzata o mediocre rifugge dalla cultura, dal bello, dal ricercato; si stabilizza entro territori standardizzati dalla propaganda: è mediocrità sempre più mediocre che riproduce se stessa; è l'innesco d'un circolo vizioso in cui la grossolanità e il gusto triviale richiedono ancora grossolanità e faciloneria.
Il libro, così concepito, si riduce inevitabilmente entro territori consueti e risaputi (sempre gli stessi) che escludono ferocemente larghe porzioni di sapere, quelle più profonde e significanti, alternative, inconsuete; il destino di queste ultime, le sole che suscitino la curiosità e lo zelo per la conoscenza, e una visione eccentrica e originale, è l'oblio; l'oblio e, perciò, la progressiva distruzione.
Le sceneggiature originali, i pressbook, le riviste introvabili, gli atti dei convegni, le carte olografe di Antonioni e Visconti, tutto il materiale della Umberto Barbaro, insomma, rappresenta una di tali regioni della cultura e della memoria avviate alla scomparsa irrimediabile.
Come Hal 9000, il computer di 2001: Odissea nello spazio, veniva lentamente svuotato delle unità di memoria sino a ridursi all'infantilismo catatonico ("Giro giro tondo, io giro intorno al mondo/Le stelle d'argento costan cinquecento ..."), così sarà per noi, appagati dal mediocre a getto continuo, spossessati d'ogni capacità di analisi del reale, di ogni capacità di discernimento del bello, d'ogni carica eversiva.
[Facciamo notare, en passant, che la Nuova Fiera di Roma sta sprofondando, dopo pochi anni, in un terreno paludoso (come la Casa Usher?), è carica di 200 milioni di buffi e si appresta a chiudere a sua volta, salvo miracoli (leggi: saccheggi di casse pubbliche).
Ma il progresso deve andare avanti, perbacco].