Qualche giorno fa è mancata Jacqueline Risset: poetessa, saggista, traduttrice, tra le figure centrali nella vita cuturale italiana e francese della seconda parte del Novecento. Tra le sue imprese maggiori, la traduzione della Divina Commedia per Flammarion. E proprio con un suo testo sulla traduzione della poesia uscito nel 2011 sulla rivista della Bibiothèque Nationale e poi in italiano, il 3 maggio 2012, sul "Manifesto", la vogliamo ricordare. (E' questo oltre tutto un tema molto caro a Monteverdelegge, il cui Laboratorio di traduzione poetica, curato da Fiorenza Mormile, sta per riprendere i suoi incontri).
Jacqueline Risset
La poesia compensa la dispersione di Babele e l’incompletezza delle lingue. È la sola a detenere, come dicono i semiotici, «l’infinità del codice». L’atto poetico consiste, si sa, nel legare indissolubilmente il suono e il senso – è il mezzo trovato dai poeti per rimediare all’arbitrarietà della lingua. Grazie alla poesia si ritrova il sentimento di abitare davvero la lingua.
Ma per questo stesso motivo, poiché la poesia è poesia, essa in certo modo rende la traduzione strana o piuttosto impossibile. E in effetti cosa ha a che fare qui la traduzione? È in una maniera del tutto costante e consapevole che i poeti annodano ben stretto quello che introducono e tengono insieme nel testo poetico. Messaggio essenziale è ogni volta il legame, l’indissolubile, il microcosmo. Il ritmo, il metro, il gioco delle rime e delle assonanze impediscono la fuga a ognuno degli elementi impegnati nell’impresa.
Eppure esiste un desiderio di tradurre. L’emozione alla lettura di una poesia in una lingua straniera, cioè
dotata dell’evidenza musicale che assumono le parole trattate dal poeta in un altro idioma, suscita in un poeta o in un lettore amante della poesia – proprio come un paesaggio sconosciuto agli occhi di un pittore – un desiderio di prolungare, di esplorare questa emozione, di comprenderla rilanciandola.
L’atto che ne segue, cambiare le parole con quelle di un’altra lingua, comporta sicuramente un desiderio di appropriazione: «mangiare la poesia» – ma non solo. Si tratta anche di un movimento musicale, accompagnato dal desiderio di vedere quello che il testo diventa altrove. Inoltre, immergendolo, questo testo, in un ambiente
che non conosceva, può dare forse alla lingua (quella su cui il lettore-traduttore lavora quotidianamente, materia ricca e familiare) nuove possibilità espressive alle quali la lingua non aveva ancora pensato...
Gioco di distruzione-ricomposizione che smuove due paesaggi e ne inventa un terzo, memore degli altri due?
La difficoltà comincia presto. Tutti i traduttori si sono trovati un giorno o l’altro a confronto con questa esperienza – l’«impossibilità di tradurre» – cioè con l’inadeguatezza del risultato al loro lavoro, con l’incapacità di trasporre in un equivalente vero il testo da cui erano partiti, loro che sognavano di ritrovarlo tale e quale alla fine del viaggio linguistico. Delusione, scoraggiamento, riflessione disincantata su quello che il Medio Evo definiva «la catastrofe di Babele».
Dante stesso aveva formulato molto esplicitamente l’impossibilità di tradurre la poesia o per lo meno la riduzione, la «rottura» inevitabile che la traduzione della poesia comporta. Si legge nel libro I del Convivio «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può da la sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia» Convivio, VII, 14)
L’armonia, nella concezione di Dante, non è qualcosa che si sovrappone alla lingua, alla poesia». Il «legame musaico» che Dante chiama anche a volte «latte delle Muse» – liquido nutriente simbolo di continuità musicale – è l’operazione poetica stessa, quella che la traduzione distrugge. Infatti, se il lavoro poetico consiste essenzialmente, come ha mostrato Ivan Fonagy, in una «rimotivazione», che porta a cancellare, nel suo spazio, «l’arbitrarietà della lingua» – il rapporto non necessario fra significante e significato, che differisce da una lingua all’altra – allora la traduzione è, potremmo dire, impossibile o più precisamente sfigurante.
Ferite e delusioni
Distruzione confermata da un’esperienza particolare, quella dell’autotraduzione. L’autotraduzione dà a chi la effettua la percezione precisa della separazione irrimediabile: separazione che appunto la poesia aboliva – separazione fra suono e senso, fra significante e significato. Cocente delusione: «Ma come, avevo fatto tutti questi sforzi per rendervi indissociabili, ed ecco che voi ve ne andate ognuno per la sua strada. Allora non avevo fatto proprio niente?». Ancora più elementare: «Ma come? Questa parola che per me era la realtà stessa ammette al suo posto una parola concorrente, che non mi appartiene, che non riconosco?».
Lo choc della scoperta dell’altra lingua – della possibilità di un’altra lingua – è sicuramente da situarsi fra le ferite narcisistiche attraverso le quali è passata l’umanità fino all’ultima, secondo Freud, la sua – inflitta alla centralità dell’ego detronizzato dall’inconscio. Ma la ferita che riguarda la lingua ha luogo in ogni vita umana, o quasi. Davanti alla delusione di tradurre nasce l’impressione di essersi abbandonati a una illusione puerile.
Che fare? Si tratta di riaprire una sala abbandonata: una volta aperta, bisogna muoversi al suo interno, rimettere in gioco tutti gli elementi. È allora che si scopre, volendo, l’altro versante – il versante luminoso della traduzione. Quello che diventa chiaro a questo punto è che lo scopo dell’operazione non è di fornire un calco del testo originale, ma di prolungare il testo, di ampliarlo, in un certo senso. «Tradurre è impossibile, ed è il dovere», afferma Michel Deguy. E Bonnefoy: «La traduzione è impossibile, ma tanto meglio!» – dato che «una poesia è meno della poesia». E tradurre è allora, continua l’autore di L’Arrière-pays, poter far emergere certi aspetti dell’opera che non si coglievano al primo sguardo...
Se si osserva un testo poetico compiuto, definitivo, che ci comunica l’idea di una necessità assoluta (in Dante o Shakespeare o Baudelaire o tutti coloro che ognuno serba nella sua memoria), allora si forma la convinzione che non si può in nessun modo toccare quei versi. Ma la pratica della traduzione costringe a toccare; a toccare il testo e attraverso il testo qualcosa che si può definire come l’istante immediatamente precedente la creazione, quello in cui esistevano ancora diverse possibilità (ed è appunto qui che sta il maggior interesse di questa singolare pratica).
La passione che i traduttori mettono nel loro lavoro viene, mi pare, da questi fuggevoli punti di coincidenza con l’istante che precede. La poesia, ricorda ancora Bonnefoy, ha la funzione di «inquietare la lingua». La traduzione quella di «ritrovare questo pensiero, seguirlo, comprenderlo».
La traduzione – soprattutto, ma non soltanto, la traduzione di poesia – non è affatto una attività ancillare. Non si limita a condurre il lettore fino alla soglia del testo per poi scomparire nel momento stesso in cui si presenta.
La prova dello straniero
Tutti hanno o hanno avuto, esperienze folgoranti di fronte a traduzioni – come quelle delle poesie tardive di Hölderlin tradotte da Jouve e Klossowski, dell’Eliot di Pierre Leyris, del teatro di Shakespeare di Bonnefoy; o in italiano dell’Odissea di Rosa Calzecchi Onesti o del Processo di Giorgio Zampa. Ogni volta la gioia è quella di una luce improvvisa gettata su un testo che si credeva di conoscere, gioia spesso accompagnata da una sorpresa, quella di un ampliamento delle possibilità della lingua di arrivo (per esempio il neutro tedesco di Hölderlin che sbarca in francese attraverso Jouve e Klossowski nel 1930 e diventa da allora una possibilità della lingua poetica e della lingua filosofica francesi, in Blanchot, Bataille e tanti altri).
Grazie a Antoine Berman, che rinnovando l’approccio di quella che ha definito «la prova dello straniero»ha riportato alla nostra conoscenza dei testi fondamentali, quelli del romanticismo tedesco, noi possiamo leggere le osservazioni di Novalis e di Schlegel sulla traduzione e sull’entrata del traduttore nel laboratorio in cui si elabora il testo poetico. Nella prospettiva a loro propria, la traduzione è quell’atto che consente di dare luce e voce alle potenzialità della poesia compiuta e in questo modo (secondo Bonnefoy, che così prolunga le intuizioni dei poeti e filosofi tedeschi) di portare a maturazione «alcuni frutti lasciati ancora sul ramo». La traduzione appare allora come una opportunità di far muovere in maniera rivelatrice i testi, le parole dei testi, senza che questa operazione si riveli una perdita irrimediabile: essa, al contrario, rappresenta una evidenziazione della mobilità della lingua all’interno della lingua, della lingua poetica rispetto alle lingue.
Tuttavia, malgrado la teoria, malgrado gli sforzi della traduttologia, il traduttore si ritrova sempre solo, senza sostegno. Gli ci vorrebbe una teoria per ogni testo – una «teoria in briciole» scrive Ladmiral. In effetti, la prova si modula in una infinità di «stranieri» differenti. La distanza fra noi e un testo poetico dato non coincide infatti con la distanza fra la sua lingua nazionale e la nostra. Ogni poeta elabora la sua propria lingua che è talvolta «al limite dell’idioletto» (Jakobson).
Più ancora, forse, di qualsiasi altro atto linguistico (di cui è del resto il modello, ricorda ancora Jakobson), l’atto traduttivo mobilità al tempo stesso i livelli coscienti e inconsci. Coscienti perché il traduttore deve esplicitare una serie di problemi che potrebbero restare non affrontati altrove e nella stessa scrittura poetica; inconsci perché per il suo lavoro ha bisogno di entrare in una sorta di transe che gli permetta di accostarsi al ritmo fondamentale della scrittura prima.
Una partita a scacchi
Al tempo stesso, diventa possibile fissare alcune regole essenziali, che valgono forse per tutte le traduzioni. La prima è quella che viene definita della «fedeltà», ma che si dovrebbe piuttosto chiamare della «costanza». La fedeltà, in certo senso, va da sé. Ma si tratta di una nozione più approssimativa e sfuggente di quanto appaia. Un testo poetico è infatti un oggetto così complesso e così «legato» nelle sue componenti che è impossibile traghettarle tutte in uno stesso momento. Fin dall’inizio il traduttore deve scegliere. E ogni scelta determina la scelta successiva, come una mossa in una partita a scacchi (Jiri Levy). Senza questa regola di base, il testo tradotto – per quanto costellato di espressioni felici – oscilla, si perde, espelle il suo lettore, che si stupisce: «Credevo di leggere una poesia, ma era solo una traduzione».
A partire da questi sussulti, così frequenti e così raggelanti, si può circoscrivere la scelta primaria: quella del tono di una poesia. Quella che Proust chiamava «l’aria della canzone». E nel determinare il tono, il ritmo, che ad esso è legato, si rivela fondamentale – il ritmo, diverso dal metro, e che appartiene esclusivamente al suo autore.
Infine, il ricorso alla memoria nelle due lingue: memoria dell’autore in primo luogo (presenza di tutta la sua opera intorno al testo da tradurre, ma anche quella di altri testi poetici nella sua lingua); e, naturalmente, quella di poesie nella lingua del traduttore (a volte apparentemente lontane dal testo in questione (così Rimbaud, il Rimbaud delle Illuminations – o Baudelaire, o Racine – può far cessare magicamente la paralisi davanti a un passaggio diabolicamente arduo del Paradiso di Dante).
Ma alla difficoltà del tradurre bisogna aggiungere le difficoltà che appartengono specificamente alla lingua francese. In primo luogo la sua essenziale omogeneità, rafforzata da due secoli di classicismo e di ideologia del gusto – e che risale alla letteratura del sedicesimo secolo quando con la Pléiade nasceva una tradizione poetica fondata su Petrarca e il petrarchismo, vale a dire sulla linearità e sulla omogeneità come aronia codificata del discorso. Omogeneità che si è perpetuata fino a noi senza intralci, a dispetto della clamorosa eccezione rappresentata dall’opera di Rabelais – che faceva esclamare a Céline, nel momento in cui si vedeva unico trasgressore nel panorama monocorde della letteratura francese: «Ha mancato il colpo, Rabelais!»
Rinunce e ricompense
Difficile – quasi impossibile – può sembrare in un simile contesto la traduzione di opere dai registri multipli e eterogenei come quella di Dante. Paradossalmente è una prosodia moderna, liberata, «disossata» (secondo Christian Prigent) che permette di affrontarlo da più vicino. Certo, il traduttore deve mantenere la consapevolezza della necessità delle scelte: dal momento che la scelta primaria è il ritmo e la seconda è la velocità, la possibilità di rendere la varietà dei registri si allontana. Ma la rinuncia fa parte dell’arsenale mentale di un traduttore, che è ricompensato e confortato malgrado tutto, sapendo che, se nessuna traduzione è perfetta, la pluralità delle traduzioni nel tempo contribuisce ad accostarsi a poco a poco ai numerosi versanti di una grande opera. Forse, un giorno, un Céline traduttore...
(traduzione di Maria Teresa Carbone)
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