di Elvira
Sessa
Vorrei
raccontarvi di Betlemme: una città adulta e bambina, feroce e
disarmata, una miscela di fantasia e realtà, follia e ragione, sogno
ed incubo.
L'ho
visitata due settimane fa con un gruppo di amici italiani durante un
viaggio a Gerusalemme.
A
portarci lì è stato un autobus fantasma: le sue fermate, lungo i
dieci chilometri che separano Gerusalemme da Betlemme, non sono
segnate sui cartelloni israeliani.
Ci
ha accolto, all’arrivo, un muro silenzioso di otto metri di
cemento, coronato da fili spinati e puntellato da videocamere.
Passati dall'altra parte, in Palestina, dopo aver velocemente
superato i tornelli del “Checkpoint 300”, il muro ha acquistato
vita: ci ha raccontato della rabbia e voglia di riscatto della sua
gente (la scritta “Don't forget the struggle” con accanto il
ritratto di Leila Khaled, membro del Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina) ma anche dei sogni dei suoi bambini (c'è
una frase che dice, in italiano: “Lascia che il tuo cuore parli”)
e di messaggi di affetto (“With love and kisses, nothing lasts
forever”).
Quella
voglia di pace e di sogni l'abbiamo toccata con mano al Caritas Baby
Hospital, l’unico ospedale specializzato in pediatria della
Palestina, fondato nel 1952 da un sacerdote svizzero (padre Ernst
Schnydrig), un medico palestinese (dott.
Antoine Dabdoub) ed una cittadina svizzera (Hedwig Vetter),
per
assicurare assistenza sanitaria di base ai bambini vittime del
conflitto israelo-palestinese. Lo abbiamo visitato con Suor Lucia,
veneta, membro dello staff della struttura. Nel bacino di utenza
dell'ospedale (Betlemme ed Hebron) vivono più di 300.000 bambini
privi di assistenza medica. Il personale ospedaliero è tutto locale:
per metà cristiano, per l'altra musulmano. Ogni anno la struttura
cura gratuitamente quasi 30.000 bambini fino ai 16 anni, senza
distinzione di religione e sociale.
“All'inizio”,
ci ha spiegato suor Lucia, “la maggior parte di loro proveniva da
Gaza e dalla Samaria. Oggi, per lo più, i piccoli vengono da
Ramallah, Gerusalemme, dai campi profughi palestinesi; per via del
blocco umanitario, da Gaza ora abbiamo solo 5 bambini.” Negli 82
letti dei vari reparti vengono accolti in media ogni anno circa 4.000
piccoli. “Una buona parte di loro soffre di malattie genetiche”
ha osservato suor Lucia. E ben si spiega, come ci fa notare: “dal
2004 in poi, i checkpoints hanno isolato e imprigionato villaggio per
villaggio; conseguentemente, è diventato molto difficile uscire dal
clan familiare e sono aumentate le unioni tra consanguinei”.
La
particolarità della struttura è che coinvolge anche le mamme: 46
posti letto sono per loro. “La loro presenza è fondamentale perchè
saranno loro, una volta dimessi i bimbi, a dare una continuità alle
terapie” ha aggiunto suor Lucia. Mamme che sono, a loro volta,
penalizzate socialmente, come ci ha spiegato: “Nel mondo musulmano,
le mamme di figli malati sono viste come categoria di serie B e il
marito ha il diritto di trovare un’altra donna”.
Usciti
dal Caritas Baby Hospital, abbiamo visitato la Basilica della
Natività di Betlemme e la vicina “Grotta del Latte” nei cui
bagni non siamo potuti entrare: chiusi per mancanza di acqua. Abbiamo
poi gustato, in un ristorante nella piazza principale, un buon pranzo
a base di fattouche e tabbouleh con baklawa offerto dalla casa,
mentre ascoltavamo alternarsi il canto del muezzin della Moschea di
Omar e le campane della dirimpettaia Basilica della Natività.
Fattasi
ora di rientrare, siamo andati al checkpoint. Stavolta ci siamo
rimasti un bel po'. Una attesa interminabile.
Il
checkpoint è un prefabbricato dalle finestre minuscole e dalle forti
luci a neon. Siamo rimasti lì, in attesa che i militari israeliani
ci dessero il permesso di passare ai controlli. Con noi c'era un
signore che doveva andare a lavorare a Gerusalemme. Non protestava,
sapeva che lì funziona così: a volte ci trascorri un'ora, altre
volte due, altre volte... chissà... il checkpoint può rimanere
chiuso. C'era anche una signora anziana con il suo permesso per
uscire. Sì, perchè quando finalmente arrivano al cospetto dei
militari, a volte dopo ore di fila in un fiume di gente, i
palestinesi devono documentare le ragioni dell'uscita. Sara,
un'infermiera italiana del nostro gruppo che va a Betlemme tutti
gli anni, ci ha spiegato che una volta, aveva visto una ragazza
mostrare ai militari il permesso per andare a visitare la madre
malata in ospedale a Gerusalemme, precisando l'orario di uscita e
quello previsto per il rientro, orario che va sempre tassativamente
rispettato, per non aver problemi nell'uscire di nuovo.
A
Betlemme si vive così, come in un carcere.
Per
fortuna, ci sono anche altre realtà come quella di “Machsomwatch”:
movimento di israeliane contrarie all'occupazione israeliana e in
favore della libera circolazione dei palestinesi nei loro territori.
Le attiviste che ne fanno parte, per la maggior parte mamme e nonne,
fungono da piccole antenne dei diritti umani nei checkpoints
israeliani: verificano che i controlli dei militari e le
perquisizioni vengano fatti nel rispetto dei diritti umani e
documentano con regolarità, in report pubblicati sul sito
http://www.machsomwatch.org, ciò
che vedono ai checkpoints e trasmettono tali reports alle istituzioni
pubbliche.
Proposte
di lettura
- Gerusalemme senza Dio, di Paola Caridi (Feltrinelli, 2013)
- Caduto fuori dal tempo, di David Grossman (Mondadori, 2012)
- Neve a Gaza, di Vincenzo Soddu (Caracò, 2013)
- Israele senza Palestina, Limes - Rivista italiana di geopolitica, 1/2010.
- La battaglia per Gerusalemme, Limes, Quaderni Speciali, 2010
- Il signor Mani, di Yehoshua Abraham (Einaudi, 2005)
Filmografia
- Miral (2010) - Julian Schnabel
- Il tempo che ci rimane (2009) - Elia Suleiman
- Lebanon (2009) - Samuel Maoz
- Il giardino dei limoni (2008) - Eran Riklis
- Valzer con Bashir (2008) - Ari Folman
- Vai e vivrai (2005) - Radu Mihaileanu
- Private (2004) - Saverio Costanzo
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