Come ormai è tradizione, nel corso delle Giornate della traduzione letteraria, la cui dodicesima edizione avrà luogo a Urbino dal 26 al 28 settembre, si terrà la cerimonia di consegna del premio Zanichelli, concesso a traduttori letterari per l'insieme delle loro attività o a personaggi
del mondo culturale che si sono contraddistinti per il loro impegno a favore della
traduzione. Quest'anno il premio viene assegnato a Anna Ravano, voce italiana di autori come Bernard Malamud, Isaac B. Singer, Sylvia Plath, e Monteverdelegge ha il piacere e l'onore di anticipare qui il suo discorso di accettazione.
Anna Ravano
Mi sono sempre definita
“traduttrice” ma in realtà nel corso della mia carriera sono
stata piuttosto una tuttofare del passaggio fra due lingue:
nell’ordine, insegnante, traduttrice di narrativa e saggistica,
redattrice/revisora, compilatrice di dizionari, traduttrice di
poesia, consulente redazionale. Una tuttofare, per di più, che, sia
per gli studi fatti in anni in cui non esistevano percorsi
universitari dedicati alla traduzione e c’erano pochi testi di
teoria della traduzione, sia per la sua forma mentis, ha sempre avuto
un approccio alla traduzione molto pratico e poco teorico.
Il premio che oggi
ricevo, con emozione e gratitudine, mi ha fatto riflettere su tutte
quelle attività e ho concluso che probabilmente sono stata fortunata
ad averle svolte in quell’ordine, perché da ciascuna ho tratto una
visione dei rapporti e del passaggio tra l’inglese e l’italiano
che ha arricchito l’attività successiva. Dirò quindi qualcosa
sulle lezioni che ho imparato, sperando di non restare invischiata
nella pura autobiografia e di offrire qualche spunto di riflessione
utile anche a chi ha fatto un percorso diverso, e penso soprattutto
ai più giovani che si sono formati e lavorano in una realtà molto
diversa.
Ho scoperto abbastanza
presto, sui quattordici-quindici anni, che mi piaceva arrovellarmi su
come dire in italiano quello che leggevo in inglese. All’università
negli anni ’60 l’insegnamento della lingua era decisamente
secondario a quello della letteratura: in pratica bisognava già
averla studiata e continuare a perfezionarla per conto proprio. Ho
però avuto due insegnanti che ricordo con gratitudine, Ermanno
Barisone e Goffredo Miglietta, allora giovani assistenti, con i quali
traducevamo brani di Dylan Thomas, Virginia Woolf, Henry James. È
stata una scuola eccellente e alcune di quelle traduzioni le conservo
ancora.
Ho insegnato prima
inglese in Italia e poi italiano in Australia a classi composte in
maggioranza da madrelingua inglesi ma anche da studenti per cui
l’inglese era seconda lingua e a italiani di seconda generazione
che parlavano un italiano spesso molto regionale. Il dovermi mettermi
continuamente nella loro testa per capire il perché di certi errori
e per trovare il modo migliore di correggerli mi è servito per
mettere a fuoco certe differenze tra l’italiano e l’inglese a cui
non avevo mai fatto troppa attenzione, per esempio il diverso modo di
sottolineare un elemento di una frase, oppure come traducendo
dall’inglese si può sfruttare il contrasto italiano tra imperfetto
e passato prossimo o remoto.
La scelta della
traduzione letteraria come professione è arrivata non subito, anche
se da tempo traducevo per puro piacere testi con i quali volevo
prolungare il contatto una volta terminato il godimento della
lettura: mi piace manipolare la lingua, lavorare sul lessico,
sperimentare con la sintassi, ma non sono scrittrice, non so
inventare situazioni e storie, e per esercitare la mia creatività
linguistica devo ricorrere all’invenzione altui. Ma forse è
proprio in questo che sta secondo me il piacere del tradurre:
nell’esercizio di un ascolto inventivo, di una passività attiva.
Anche nella revisione
delle traduzione altrui servono passività e ascolto, doppiamente,
anzi, perché anche una traduzione deve essere ascoltata, per capire
i percorsi che hanno portato il traduttore a certe scelte che magari
di primo acchito si vorrebbe correggere, ma di cui riflettendo si
capisce il perché. In ogni caso poter dialogare col traduttore è,
credo, il desiderio di ogni buon revisore, così come chi traduce
dovrebbe sempre insistere per essere riveduto, e possibilmente da
qualcuno più ferrato nella lingua di partenza. Anche qui sono stata
fortunata, perché ho cominciato a lavorare all’Adelphi quando era
ancora una casa editrice piccolo-media, con un numero annuale di
novità contenuto: per una revisione avevano a volte due o tre mesi
di tempo, i traduttori vedevano sempre le correzioni e potevano dire
la loro, prima che si andasse in bozza e anche dopo, perché di bozze
ce n’erano due e a volte tre. Ricordo alcune belle collaborazioni
più che revisioni, da cui io stessa ho imparato molto come
traduttrice. Perché nelle condizioni di lavoro giuste il lavoro del
revisore può essere gratificante, innanzi tutto quando la traduzione
è buona e si deve rimediare solo a qualche cedimento dovuto a
stanchezza o a quei piccoli incaponimenti su una lettura sbagliata
che capitano a ogni traduttore anche bravo. Ma è bello anche
rivedere la traduzione di un traduttore meno bravo, se si sa che poi
si può parlarne insieme, spiegare il perché delle proprie
correzioni, discuterne, e magari arrivare con soddisfazione di
entrambi a una terza versione migliore.
Passare alla
lessicografia (e devo ringraziare una seconda volta Lorenzo Enriques
per la fiducia che ha dimostrato verso una neofita e per la lunga e
preziosa esperienza che mi ha permesso di fare) è stato un
cambiamento di fronte più netto che non il passaggio dalla
traduzione alla revisione, perché nel lavoro su un dizionario ci si
trova a fare i conti con la parola nuda, senza l’aiuto del contesto
e della frase da poter manipolare per restituire la sfumatura
dell’originale quando manca la corrispondenza lessicale esatta. Per
certe parole elencare i traducenti è un po’ come compiere una
manovra di accerchiamento sempre più stretto di una preda
invisibile: la preda è lì, dentro il cerchio, e non la si può
afferrare, ma quanto meno è individuata e bloccata. E a questo punto
sono indispensabili gli esempi, che in un dizionario bilingue, come
il Ragazzini, sono di necessità brevi e in genere inventati ad hoc:
“La torre si staglia contro il cielo”, “Mi preme che tu
riesca”, “Ho frugato tulla la casa”. E poi ci sono le
locuzioni, i modi di dire, le collocazioni… Un lavoro lungo,
tentacolare e appassionante. In un dizionario specializzato come il
WOW poi, che riguarda un ambito linguistico, il colloquiale e lo
slang, in cui la corrispondenza tra le due lingue è molto ridotta,
gli esempi sono la componente più importante. Con Monica Slowikowska
siamo state d’accordo fin dal principio che volevamo quanti più
esempi d’autore possibile, la cui traduzione spesso volutamente
libera ci permettesse di recuperare nel tono generale o nella
struttura sintattica quello che non si poteva riprodurre
lessicalmente.
Tradurre poesia: quando
Renata Colorni, amica fin dai tempi dell’Adelphi e responsabile dei
Meridiani, mi propose di tradurre Birthday Letters di Ted Hughes,
esitai ad accettare, perché non avevo mai tradotto poesia né ho mai
scritto poesie, e chiesi di fare prima una prova. Il saggio piacque e
mi sentii incoraggiata, anche perché Hughes in quella raccolta usa
un dettato sostanzialmente narrativo e forme metriche quasi sempre
libere. Con Sylvia Plath fu tutto molto più impegnativo, perché il
suo corpus poetico presenta una grande varietà di stili: versi
tradizionali e schemi di rima elaborati nelle prime poesie, grande
libertà ritmica e di rime nelle ultime, ma con dietro tutta sapienza
acquistata negli anni di pratica formale. Nel tradurla mi sono
concentrata innanzi tutto sul lessico e sulle immagini, su come
percorrono non solo la singola poesia, ma tutto il corpus poetico,
creando una ramificazione di echi, rimandi e suggestioni: questo ha
significato massima attenzione alla parola singola per evitare
associazioni estranee e fuorvianti. Al tempo stesso mi sono sforzata
di conservare quanto più possibile il ritmo, il numero dei versi e
il rapporto fine verso-sintassi/frase, ma tenendo anche presente i
diversi meccanismi sintattici con cui inglese e italiano sottolineano
l’importanza di una parola nella frase. Con Adriana Bottini, che
contemporaneamente traduceva per il Meridiano il romanzo e i
racconti, c’è stato un dialogo continuo e alla fine del lavoro ci
siamo rivedute a vicenda. E’ stata una collaborazione ideale, come
credo ogni traduttore sogna di avere.
Vorrei concludere non
con considerazioni generali sulla traduzione e sul tradurre, perché
non farei che ripetere cose che altri traduttori hanno detto e
scritto molto meglio di quanto saprei fare io, ma con un esempio
tratto da un racconto o un brano di romanzo che lessi molti anni fa e
di cui purtroppo non ricordo né l’autore né il titolo, ma che mi
è rimasto impresso. In una classe ad anno scolastico inoltrato
arriva un nuovo studente. Quella mattina c’è esercizio di
traduzione, dal francese o forse dal latino. Il nuovo passa tutta la
prima ora immobile davanti col brano da tradurre e legge e rilegge.
Poi mette via il foglio e traduce. Ecco, l’idea del traduttore che
si immerge totalmente nell’autore, fa proprie le sue parole e poi
le restituisce da dentro di sé, diverse nella forma ma uguali nella
sostanza, è l’ideale irraggiungibile verso cui mi sforzo di
tendere.
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