domenica 17 agosto 2014

Il racconto della domenica - Ambrose Bierce, L'impiccato

Ambrose Bierce
Un uomo era in piedi su un ponte ferroviario nel nord dell’Alabama, e guardava l’acqua che correva veloce sei metri più in basso. Aveva le mani dietro la schiena, i polsi legati con una corda. Una fune gli stringeva il collo. Era attaccata a una solida trave sopra alla sua testa, mentre la parte allentata gli scendeva fino alle ginocchia. Alcune assi posate sulle traversine che sostenevano i binari della ferrovia fornivano un punto d’appoggio a lui e ai suoi carnefici: due soldati semplici dell’esercito federale, comandati da un sergente che da civile avrebbe potuto fare il vicesceriffo. A breve distanza, sulla stessa piattaforma provvisoria, c’era un ufficiale armato con addosso l’uniforme propria del suo rango. Era un capitano. A ogni estremità del ponte era stata collocata una sentinella con il fucile in posizione di tiro, cioè in verticale davanti alla spalla sinistra, con il cane appoggiato sull’avambraccio perpendicolare al torace – posizione assai innaturale e formale, che imponeva una postura eretta del corpo. Sembrava che a questi due uomini non spettasse di sapere cosa stava accadendo al centro del ponte; si limitavano a bloccare l’accesso alle due estremità dell’assito che l’attraversava.
Non si vedeva nessuno al di là di una delle sentinelle; la ferrovia s’inoltrava per un centinaio di metri nella foresta, poi, dopo aver descritto una curva, si perdeva di vista. Senza dubbio, doveva esserci un avamposto più avanti. Sulla riva opposta del fiume si estendeva una radura: un lieve pendio sormontato da una staccionata di tronchi d’albero verticali, munita di feritoie per i fucili, con un’unica cannoniera dalla quale sporgeva la volata di un cannone d’ottone puntata verso il ponte. Sul pendio, a metà strada tra il ponte e il fortino, c’erano gli spettatori: una compagnia di fanti schierati a riposo, con il calcio del fucile posato a terra, la canna leggermente inclinata all’indietro contro la spalla destra e le mani incrociate sulla cassa. A destra dello schieramento stava un tenente, con la punta della spada che toccava terra e la mano sinistra appoggiata sulla destra. Fatta eccezione per i quattro uomini al centro del ponte, non si muoveva nessuno. La compagnia era girata verso il ponte, con lo sguardo impietrito e immobile. Le sentinelle rivolte verso la riva del fiume avrebbero potuto essere statue che adornavano il ponte. Il capitano stava a braccia conserte, in silenzio, e osservava l’opera dei suoi subordinati, senza fare alcun cenno. La morte è un dignitario che quando arriva dopo essere stato annunciato deve essere ricevuto con manifestazioni formali di ossequio, perfino da quelli che lo conoscono meglio. Nel codice dell’etichetta militare, il silenzio e l’immobilità sono forme di rispetto.

L’uomo sul punto di essere impiccato aveva all’incirca trentacinque anni. A giudicare dagli indumenti, che erano quelli di un piantatore, doveva essere un civile. Aveva dei bei lineamenti: il naso dritto, la bocca ben disegnata e la fronte spaziosa, dalla quale i lunghi capelli neri si dipartivano all’indietro, ricadendo dietro le orecchie sul colletto della redingote che gli andava a pennello. Aveva i baffi e il pizzetto, ma non i favoriti; aveva gli occhi grandi e di un colore grigio scuro, e un’espressione gentile che non ci si sarebbe mai aspettati da un uomo con il cappio al collo. Evidentemente non si trattava di un volgare assassino. Il codice militare, essendo liberale, prevede l’impiccagione per diversi tipi di persone, gentiluomini inclusi.
Dopo aver completato i preparativi, i due soldati semplici si fecero da parte e tolsero l’asse sulla quale avevano stazionato in precedenza. Il sergente si volse verso il capitano, fece il saluto militare e si piazzò appena dietro l’ufficiale che, a sua volta, si discostò di un passo. In seguito a questi spostamenti, il condannato e il sergente si ritrovarono alle due estremità della stessa asse, che copriva tre traversine del ponte. L’estremità sulla quale si trovava il civile raggiungeva quasi una quarta traversina. Quest’asse era stata tenuta ferma prima dal peso del capitano, ora da quello del sergente. A un segnale del primo, il secondo si sarebbe fatto da parte, l’asse si sarebbe inclinata e il condannato sarebbe sprofondato tra le due traversine. A parere di quest’ultimo, il piano brillava per semplicità ed efficacia. Non gli avevano né coperto il viso né bendato gli occhi. Per un istante contemplò il suo “punto d’appoggio malfermo”, poi lasciò correre lo sguardo sulle acque vorticose del fiume che gli scorreva impetuoso sotto i piedi. La sua attenzione venne attratta da un relitto di legno alla deriva che seguì con lo sguardo lungo la corrente. Come sembrava muoversi lentamente! Che fiume pigro!
L’uomo chiuse gli occhi per dedicare gli ultimi pensieri alla moglie e ai figli. L’acqua sfiorata dai riflessi dorati del primo sole, la foschia che aleggiava sulle rive in lontananza lungo il corso del fiume, il fortino, i soldati, il relitto di legno: tutto lo distraeva. E ora avvertì una nuova fonte di disturbo. Il pensiero dei suoi cari venne interrotto da un suono che non riuscì a ignorare né a identificare: si trattava di una forte e distinta percussione metallica simile al battito del martello di un fabbro su un’incudine; ne condivideva le note squillanti. Si domandò cosa fosse e se si trovasse a una distanza incommensurabile o lì vicino: sembrava entrambe le cose. Aveva un ritmo regolare, ma lento come i rintocchi di una campana a morto. Lui aspettava ogni rintocco con impazienza e – senza sapere perché – con apprensione. Gli intervalli di silenzio divennero sempre più lunghi; i ritardi lo facevano impazzire. Nonostante la minore frequenza, i suoni aumentarono di intensità e nitidezza. Gli ferirono le orecchie come i colpi di un coltello; temeva di mettersi a urlare. Quello che udiva era il ticchettio del suo orologio.
Aprì gli occhi e vide di nuovo l’acqua sotto i piedi. Se riuscissi a liberarmi le mani, pensò potrei togliermi il cappio e buttarmi nel fiume. Tuffandomi potrei schivare i proiettili e nuotando di buona lena potrei raggiungere la riva, inoltrarmi nella foresta e dirigermi verso casa. Finora la mia casa, grazie a Dio, si trova all’esterno delle loro linee; mia moglie e i miei figli sono ancora lontani dall’avanzata degli invasori.
Mentre questi pensieri, che qui devono essere riportati a parole, balenavano nel cervello del condannato piuttosto che svilupparsi razionalmente in esso, il capitano fece un cenno al sergente. Il sergente si fece da parte.


* * * * * 

Peyton Farquhar era un piantatore agiato, di un’antica e assai rispettata famiglia dell’Alabama. In quanto proprietario di schiavi e come gli altri proprietari di schiavi impegnato in politica era un secessionista nato, ardentemente devoto alla causa del Sud. Circostanze di natura urgente che non è necessa-rio riferire qui, gli avevano impedito di arruolarsi nel valoroso esercito che aveva combattuto le disastrose campagne terminate con la caduta di Corinth e si logorava nell’ingloriosa impossibilità d’agire, desiderando ardentemente dar sfogo alle proprie energie, vivere la vita movimentata del soldato
e avere l’opportunità di distinguersi. Quell’opportunità, lo sentiva, si sarebbe presentata, come si presenta a chiunque in tempo di guerra. Nel frattempo faceva quel che poteva. Nessun servizio era troppo umile da assolvere per aiutare il Sud, nessuna avventura troppo pericolosa a viversi se in armonia con il carattere di un civile dal cuore di soldato e che in buonafede e senza troppe riserve mentali concordava, almeno in parte, con la massima davvero scellerata che tutto è lecito in amore e in guerra.
Una sera, mentre Farquhar e la moglie erano seduti su una rozza panca vicino all’ingresso della loro proprietà, un soldato vestito di grigio arrivò cavalcando al loro cancello e chiese un sorso d’acqua. La signora Farquhar fu quanto mai
 felice di servirlo con le sue diafane mani. Mentre andava a prendere l’acqua, il marito s’avvicinò al cavaliere impolverato e chiese avidamente notizie dal fronte.
– Gli yankee stanno riparando la ferrovia – disse l’uomo – e si preparano a un’altra avanzata. Sono arrivati al ponte di Owl Creek, lo hanno sistemato e
hanno costruito una palizzata sulla riva nord. Il comandante ha emesso un’ordinanza, che è affissa ovunque, in cui dichiara che qualunque civile sia sorpreso a danneggiare la ferrovia, compresi ponti, gallerie o treni, verrà impiccato con giudizio sommario. Ho visto personalmente l’ordinanza.
– Quanto dista il ponte di Owl Creek? – domandò Farquhar. – Circa trenta miglia.
– Ci sono soldati da questa parte del fiume?
– Solo una pattuglia di picchetto a ottocento metri più in là, sulla ferrovia e una sola sentinella da questa parte del ponte.
– Supponete che un uomo, un civile desideroso di far esperienza d’impiccagione eluda la pattuglia di picchetto e magari abbia la meglio sulla sentinella
– disse Farquhar con un sorriso –. Che cosa potrebbe fare?
Il soldato rifletté. – Ci sono stato un mese fa – rispose –. Ho notato che la piena dell’inverno scorso ha depositato contro il pilone di legno da questa parte del ponte una gran quantità di legna galleggiante. Adesso è secca e brucerebbe come stoppa.
La signora aveva portato l’acqua e il soldato ne bevve. La ringraziò cerimoniosamente, fece un inchino al marito e cavalcò via. Un’ora dopo il tramonto, riattraversò la piantagione, puntando a nord nella direzione dalla quale era venuto. Era un esploratore federale.


* * * * *

Quando Peyton Farquhar piombò in basso in mezzo al ponte, perse coscienza e fu già come morto. A risvegliarlo da quello stato – secoli dopo, gli parve – fu il dolore di una forte pressione alla gola, seguito da un senso di soffocamento. Acuti e cocenti parossismi d’agonia sembravano sfrecciargli dal collo per ogni fibra del corpo e delle membra. Era come se i dolori saettassero alla velocità del lampo lungo linee di ramificazione ben definite e pulsassero a intervalli di una rapidità inconcepibile. Erano come correnti di fuoco vibrante che lo riscaldavano a una temperatura insopportabile. L’unica sensazione che provava in testa era quella di pienezza, di congestione. Le sensazioni non erano accompagnate da pensieri. La parte intellettiva della sua natura si era già cancellata; poteva solo sentire e sentire era un tormento. Aveva coscienza del movimento. Avvolto da una nube luminosa di cui egli era soltanto il centro rovente, privo di sostanza materiale, percorreva archi d’oscillazione impensabili, come un enorme pendolo. Poi, d’improvviso, con tremenda subitaneità, la luce che lo circondava sfrecciò verso l’alto con un tonfo fragoroso; ebbe nelle orecchie un rombo spaventoso e tutto fu freddo e buio. Era di nuovo in grado di pensare; sapeva che la corda si era spezzata e che era caduto nel fiume. La sensazione di strangolamento non peggiorò; il cappio intorno al collo lo stava già soffocando e impediva all’acqua di entrargli nei polmoni. Morire impiccato in fondo a un fiume! L’idea gli parve ridicola. Aprì gli occhi nell’oscurità e vide sopra di sé un bagliore di luce, ma com’era distante, com’era inaccessibile! Stava ancora sprofondando perché la luce si fece sempre più fioca finché fu solo un baluginio. Poi prese a crescere d’ampiezza e d’intensità ed egli si rese conto che stava risalendo in superficie; con riluttanza, perché adesso si sentiva a proprio agio. «Finire impiccato e affogato», pensò, «non è poi così male; ma non voglio che mi sparino. No, non lascerò che mi sparino, non è giusto».
Non aveva coscienza di alcuno sforzo, ma una trafittura al polso lo informò che stava cercando di liberare le mani. Rivolse l’attenzione a quel divincolarsi, come un ozioso che osservi le imprese di un prestigiatore senza nutrire alcun interesse nel risultato. Che sforzo eccezionale! Che forza straordinaria, sovrumana! Quello sì, era un bel cimento! Complimenti! La corda si sciolse; le braccia si divisero e fluttuarono a galla, le mani appena visibili da una parte e dall’altra nella luce crescente. Le fissò con genuino interesse mentre prima una poi l’altra si avventavano sul cappio che gli stringeva il collo. Lo strapparono e lo scagliarono ferocemente da un parte e quello ondeggiò come un serpente d’acqua. «Rimettetelo! Rimettetelo!». Pensò di aver gridato alle mani, perché dopo lo scioglimento del cappio, si erano susseguite le fitte più atroci che avesse mai provato in vita sua. Il collo gli doleva orribilmente; aveva la testa in fiamme; il cuore, i cui battiti si erano fatti deboli, diede un balzo e sembrò uscirgli dalla gola. Tutto il corpo era torturato e straziato da un dolore insopportabile! Ma le mani disobbedienti non prestarono attenzione all’ordine. Battevano l’acqua vigorosamente con rapidi colpi verso il basso, spingendolo in superficie. Sentì la testa emergere; gli occhi furono accecati dalla luce del sole; il petto s’allargò tra le convulsioni e con un dolore supremo, finale, i polmoni inghiottirono una gran boccata d’aria, che egli espulse all’istante con un grido!

Adesso era in pieno possesso dei sensi fisici. A dire il vero, erano straordinariamente attenti e vigili. Qualcosa nel subbuglio spaventoso subito dal suo organismo li aveva esaltati e acuiti ed essi registravano avvenimenti mai percepiti in precedenza. Sentì le increspature d’acqua sul suo volto e udì il suono di ciascuna di esse quando lo colpivano. Guardò la foresta sulla riva del fiume, vide ogni singolo albero, le foglie e le venature su ciascuna di esse; vide gli in-setti sulle foglie: vide le locuste, le mosche dal corpo iridescente,36 i ragni grigi che tessevano le tele tra un ramoscello e l’altro. Notò i colori dello spettro in ogni goccia di rugiada su un milione di fili d’erba. Il ronzio dei culici che danzavano sui gorghi del fiume, il battito d’ali delle libellule, i colpi inferti dalle zampe dei ragni d’acqua, simili ai remi che sollevano una barca; tutto emanava una musica percepibile. Un pesce scivolò via sotto i suoi occhi ed egli udì l’impeto del suo corpo mentre fendeva le acque.

Era affiorato in superficie col volto in direzione della corrente; in un attimo il mondo visibile sembrò ruotare lentamente facendo perno su di lui ed egli vide il ponte, il forte, i soldati sul ponte, il capitano, il sergente, i due soldati semplici, suoi carnefici. Erano profili contro il cielo azzurro. Gridavano e gesticolavano, indicandolo. Il capitano aveva estratto la pistola, ma non fece fuoco; gli altri erano disarmati. I loro movimenti erano grotteschi e orribili, le loro forme gigantesche.
All’improvviso udì una forte detonazione e qualcosa colpì velocemente l’acqua a pochi centimetri dal suo capo, spruzzandogli il viso. Udì una seconda detonazione e vide una delle sentinelle col fucile imbracciato e una nube di fumo azzurrognolo che usciva dall’imboccatura. L’uomo in acqua colse l’occhio dell’uomo sul ponte fissare il suo attraverso il mirino del fucile. Vide che era un occhio grigio e ricordò di aver letto che gli occhi grigi sono quelli dalla vista più acuta e che tutti i tiratori famosi li hanno. Però quello aveva sbagliato il colpo.
Un mulinello contrario aveva afferrato Farquhar facendogli compiere un mezzo giro; ora guardava di nuovo la foresta sulla riva opposta al forte. Il suono di una voce chiara, acuta, risuonò in una monotona cantilena alle sue spalle e lo raggiunse sull’acqua con una nitidezza che perforò e attenuò ogni altro suono, persino l’incresparsi dell’acqua nelle orecchie. Benché non fosse un soldato, aveva frequentato a sufficienza gli accampamenti da conoscere il significato terribile di quella lenta, strascicata, aspirata salmodia: il tenente sulla riva stava prendendo parte alle operazioni del mattino. Con quanta gelida spietatezza, con che intonazione calma e uniforme che preannunciava, imponeva tranquillità agli uomini, con quali intervalli accuratamente misurati venivano pronunciate le crudeli parole:
– Compagnia, attenti!... Imbracciat’arm!... Pronti!... Puntate!... Fuoco! Farquhar si immerse; si immerse quanto più poté. L’acqua gli ruggì nelle orecchie come la voce del Niagara, eppure udì il rombo attutito della scarica e, risalendo in superficie, s’imbatté in frammenti di metallo curiosamente appiattiti, che scendevano in lente oscillazioni. Certi gli sfiorarono le mani e il volto, poi scivolarono via, seguitando a scendere. Uno gli si infilò tra il colletto e il collo; era fastidiosamente caldo ed egli se lo strappò di dosso. Appena risalì in superficie, boccheggiante per la mancanza d’aria, si accorse di essere stato a lungo sott’acqua; si trovava sensibilmente più a valle, vicino alla salvezza. I soldati avevano quasi finito di ricaricare; le bacchette di metallo lampeggiarono d’improvviso al sole mentre venivano estratte dalle canne, fatte ruotare in aria e ricacciate negli incavi. Le due sentinelle fecero nuovamente fuoco, autonomamente e senza esito.
L’uomo braccato vide tutto questo al di sopra della spalla; ora nuotava energicamente col favore della corrente. Il cervello era pieno d’energia come le braccia e le gambe; pensava con la rapidità del fulmine.
«L’ufficiale», ragionò, «non ripeterà l’errore di rispettare rigidamente la procedura. Una scarica è facile da schivare quanto un solo colpo. Probabilmente ha già dato l’ordine di sparare a volontà. Che Iddio m’aiuti, non posso schivarli tutti!».
Un tonfo spaventoso a due metri di distanza fu seguito da un suono forte e fragoroso, un diminuendo, che sembrò ripercorrere a ritroso il cammino in direzione del forte e si spense con un’esplosione che agitò le acque del fiume da capo a fondo! Una massa d’acqua si incurvò sopra di lui, gli cadde addosso, lo accecò, lo strangolò! Il cannone aveva preso parte al gioco. Mentre scuoteva la testa per liberarsi dalle acque agitate dal colpo, lo udì deviare e ronzare in aria più avanti e un attimo dopo spaccare e frantumare i rami della foresta. «Non lo rifaranno», pensò; «la prossima volta useranno una scarica di mitraglia. Devo tener d’occhio il cannone; il fumo mi avviserà, la detonazione arriva troppo tardi, si sente quando il proiettile è già partito. Quello è un buon cannone».
Improvvisamente si sentì risucchiare e girò su se stesso come una trottola. L’acqua, le rive, le foreste, il ponte ora lontano, il forte e gli uomini: tutto si mischiava e si confondeva. Gli oggetti si distinguevano solo per il colore; cerchi orizzontali di colore era tutto quel che vedeva. Era stato preso in un vortice e avanzava roteando a una tale velocità da fargli venire il capogiro e la nausea. Pochi attimi dopo, fu scagliato sulla ghiaia ai piedi della riva sinistra, la riva meridionale, dietro una sporgenza che lo nascondeva ai suoi nemici. L'arrestarsi improvviso del movimento, l’abrasione che si era procurato a una mano strusciando sulla ghiaia, lo riconfortarono ed egli pianse dalla gioia. Affondò le dita nella sabbia, se la gettò addosso a manciate e la benedisse a voce alta. Erano diamanti, rubini, smeraldi; non riusciva a pensare a niente di bello a cui non somigliasse. Gli alberi sulla riva erano piante ornamentali giganti; notò che erano disposte secondo un ordine, aspirò la fragranza dei loro fiori. Una strana luce rosata splendeva negli spazi tra i tronchi e il vento intonava tra i rami la musica delle arpe eoliche. Non desiderava portare a termine la fuga; si accontentava di rimanere in quel luogo incantato fino a quando lo avrebbero ripreso.

Il sibilo e il crepitio della mitraglia tra i rami sopra il suo capo lo ridestarono dal sogno. Il cannoniere beffato gli aveva sparato a casaccio una raffica d’addio. Balzò in piedi, salì a gran velocità sulla riva e si immerse nella foresta.
Camminò tutto il giorno, orientandosi sul corso del sole. La foresta sembrava interminabile; da nessuna parte gli riuscì di scoprire una via d’uscita, neppure un sentiero da boscaioli. Non si era mai reso conto di vivere in una regione così selvaggia. La rivelazione aveva qualcosa di inquietante.

Al calar delle tenebre, era stanco, aveva le piaghe ai piedi ed era affamato. Il pensiero della moglie e dei figli lo spinse a proseguire. Infine trovò una strada che lo guidò verso quella che sapeva essere la giusta direzione. Era larga e diritta come una strada di città, eppure sembrava non battuta. Non era fiancheggiata da campi, da nessuna parte si vedevano case. Neppure l’abbaiare di un cane che suggerisse l’insediamento umano. Le masse nere degli alberi formavano da entrambi i lati delle pareti verticali convergenti in un punto al-l’orizzonte, come un diagramma in una lezione di prospettiva. Guardando in alto da quella fenditura nel bosco, vide risplendere grandi stelle dorate dall’aspetto insolito, raggruppate in strane costellazioni. Era certo che fossero disposte secondo un ordine dal significato oscuro e maligno. Da entrambe le parti, il bosco echeggiava di rumori bizzarri, tra cui, una volta, due volte e poi ancora, egli udì distintamente dei bisbigli in una lingua sconosciuta.
Il collo gli doleva e alzando la mano per toccarlo, lo sentì orribilmente gonfio. Sapeva che era cerchiato di nero là dove la corda lo aveva stretto coprendolo di lividi. Sentiva gli occhi congestionati; non riusciva più a chiuderli. Aveva la lingua gonfia dalla sete; alleviò la sua febbre cacciandola fuori tra i denti all’aria fresca. Com’era soffice il tappeto erboso che aveva ricoperto la via non battuta! Non riusciva più a sentire la strada sotto i piedi.
Senza dubbio, nonostante il dolore, si deve essere addormentato camminando, perché ora vede un’altra scena; forse si è solo ripreso da un delirio. È al cancello di casa sua. Tutto è come lo ha lasciato, luminoso e magnifico nel sole del mattino. Deve aver camminato per tutta la notte. Appena spalanca il cancello e si avvia per il grande viale bianco, vede un svolazzare di abiti femminili; la moglie dall’aspetto giovane, fresco, dolce, scende dalla veranda per andargli incontro. Rimane in attesa in fondo alle scale, con un sorriso di gioia ineffabile, un atteggiamento di impareggiabile grazia e dignità. Ah, com’è bella! Si precipita in avanti a braccia spalancate. Mentre sta per stringerla a sé, sente alla nuca un’esplosione assordante; una luce bianca accecante avvampa tutto intorno a lui col rumore di un colpo di cannone ... poi tutto è oscurità e silenzio!

Peyton Farquhar era morto; il suo corpo, con il collo spezzato, oscillava gentilmente da una parte all’altra sotto le travi del ponte di Owl Creek.

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