William H. Hodgson
«Eccola lì», urlò il vecchio nostromo al mio amico Trevor, mentre il nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'isola di Nightingale.
Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una minuscola isoletta a tribordo.
«Eccola lì, signori», ripeté esitante, «Middle Islet! Attraccheremo nella baia fra un momento solo. Badate bene signori, io non posso affermare che la nave sia ancora lì, e se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non vidi nessuno, quando vi salii sopra la prima volta.»
Il vecchio si rimise la pipa in bocca, con aria truce, tirando boccate di fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con i cannocchiali.
Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord, si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste, il tenebroso picco dell'Isola di Tristano, la più grande del gruppo delle Isole Da Cunha, mentre lungo l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma caratteristica dell'Isola Inaccessibile.
Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio.
Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle coste dell'Isola Nightingale.
Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente sopra le cupe acque.
Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti; andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che aveva imbarcato la sua donna.
Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio amico aveva invano aspettato il ritorno del Felice Ritorno, la nave che per ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di salute.
Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata data per dispersa da tutti tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva ben presto condotto da lui il vecchio nostromo che ora stava al suo fianco. Quell'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto agli appelli, fornendo alcune informazioni sul relitto di una nave, senza alberi, che portava la scritta del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che egli aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana, piccola baia sul versante sud di Middle Islet.
Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, poiché il nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma, senza trovare assolutamente niente nella nave deserta.
Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e probabilmente quel relitto solitario aveva eccitato un poco la loro fosca fantasia, e quindi ...
Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il nostromo si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia tesi personale sull'argomento.
«Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per essere un vero relitto.»
«Cosa diavolo intendete dire?», chiesi con noncuranza.
«Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da un momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, pote-te contarci ...»
Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa.
Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro.
Trevor si voltò verso il nostromo, tremando.
«William, è proprio questo il luogo?», domandò, esitante.
Il nostromo si scostò le lunghe ciocche unte dalla fronte, poggiandosi le mani in testa a mo' di visiera.
«Sissignore, ci siamo proprio!», affermò.
«Sì, ma dov'è la nave? Io non vedo niente ...»
«Non preoccupatevi capo, siamo ancora lontani dall'ingresso della baia! La nave è nell'interno, e tra un po' la vedremo.» Trevor staccò la mano dalla spalla del vecchio, tremando. Il suo volto si fece pallidissimo, come in preda a un collasso. Si appoggiò alla balaustra per non cadere, e poi si voltò.
«Hearnshaw, amico mio, mi sento svenire ... io ...»
«Coraggio, fatti forza. Prenditi un bicchiere di questo rum stravecchio, e ti sentirai un po' meglio. Dai!»
Diedi gli ordini per far preparare un canotto, in modo da essere pronti a scendere in mare a tempo debito.
Cinque minuti più tardi, ci addentrammo con la nave in quella stretta apertura rocciosa, più simile a un fiordo che a una baia, scrutando attentamente in ogni direzione.
L'insenatura si addentrava profondamente nell'isoletta.
Finalmente tra le ombre, apparve qualcosa, per scomparire quasi subito. Era senz'altro la poppa di una nave! Lanciai un grido di eccitazione, facendo cenno a Trevor di fermare.
La scialuppa fu calata in mare, e Trevor, io, e una ciurma con il vecchio nostromo al timone, puntammo verso quell'apertura sulle coste di Middle Islet.
Superata una larga fascia di alghe puzzolenti che circondava letteralmente la costa, dopo un po' avanzammo speditamente sulle lisce, nere acque della profonda baia, costellata di rocce a strapiombo che sembravano piombare nell'infinito.
Superato uno stretto passaggio, ci ritrovammo in una insenatura perfettamente ovale, dalle acque morte, glaciali.
Le pareti tutt'attorno erano lisce e biancastre, come il condotto di un immenso pozzo. E, alla fine di quel pozzo, trovammo la poppa di una nave con la bianca insegna Felice Ritorno.
Guardai Trevor. Era pallidissimo, e sudava come una bestia. Mastro William ci fece accostare lungo la fiancata del relitto, e Trevor e io ci arrampicammo faticosamente a bordo. Il nostromo ci seguì, ormeggiando la fune della scialuppa. Con un'agilità straordinaria per un uomo della sua età, balzò a sua volta sul relitto, facendosi strada.
Mentre camminavamo cautamente, i nostri passi risuonavano sul ponte con un lugubre rumore, procurandoci un senso quasi insopportabile di cupa desolazione.
Le nostre voci creavano un'eco a dir poco spaventosa, rimbalzando sul budello di roccia, per cui fummo costretti anche a parlare sottovoce, come in chiesa, o come in un cimitero.
Allora cominciai a capire le sibilline parole del nostromo, sulla strana aria che tirava a bordo di quel relitto.
Mastro William sembrò indovinare i miei pensieri.
«Dannazione! Guardate come è pulita ed ordinata. Non mi sembra naturale. Sembra quasi che sia stata lavata da poco, altro che naufragio! E ne ho visti di naufragi, io.»
Riprendemmo ad avanzare, seguendolo.
Benché non ci fossero più né gli alberi né le scialuppe, il resto della nave era in perfetto ordine. Il ponte era pulito, le funi annodate nelle bitte, i rotoli di cordame al loro posto preciso, perfino il barile dell'acqua dolce era pieno.
Anche Trevor si rese conto della estrema stranezza di tutto ciò, e incominciò di nuovo a tremare, sull'orlo di una crisi.
«Amico mio, hai visto? Questo significa che qualcuno della ciurma è ancora vivo ... è ancora qui, ne sono certo ... ma dove ... dove ... dove potrebbe essere?»
«Di sotto?», suggerii, tentando di assumere un tono disinvolto.
I suoi occhi si fissarono nei miei con la forza della disperazione, cercando un coraggio che certamente non avevo.
Mastro William ci chiamò davanti all'imboccatura della scala.
«Signori, se non venite con me, io non scendo certo da solo!»
«Forza Trevor, coraggio. Pensa a lei!»
Ci avviammo giù per la scala, scendendo verso i saloni.
Entrammo in quello di destra, rimanendo ancora una volta colpiti
dall'eccessiva pulizia degli ambienti. Nessun segno di abbandono, incuria, polvere. Eppure quel relitto doveva trovarsi lì da più di sei mesi, come minimo!
«Vedi! Deve esserci per forza qualcuno!», mormorò il mio amico, sentendo rinascere le speranze, mentre io pensavo sempre più, con aria cupa, alle sibilline parole del nostromo. Mastro William entrò nel salone di sinistra, nell'ala delle cabine. Con un calcio ne aprì una ed entrò, per uscirne quasi subito, le braccia cariche di sottovesti e biancheria intima.
«Guardate, capo! Questa doveva essere la cabina di vostra moglie, perché c'è un mucchio di questa roba in giro ...»
Trevor guardò William con un'espressione folle, poi gli saltò al collo e tentò goffamente di strozzarlo.
«Maledetto ... maledetto ladro ... come osate profanare le sue cose... Io vi ammazzo, capite? Nessuno... nessuno può!» Il nostromo si liberò con un solo movimento dalla stretta del mio povero amico, mandandolo lungo disteso sul pavimento, mentre io lo scrutavo preoccupato, temendo che mettesse mano al coltello che gli pendeva dietro la schiena.
«Badate a come parlate, signor mio», disse il vecchio con aria offesa, livido dalla rabbia. «Io non ho rubato proprio niente, e tantomeno questa robaccia che porta sfortuna!»
Trevor si rialzò, come spinto da una molla, quindi entrò nella cabina, urlando il nome della sua donna a più riprese.
Il nostromo si voltò a guardarmi, facendo segno che il mio amico doveva essere diventato matto.
Dopo un poco, Trevor uscì, con aria trionfante.
In mano aveva uno di quei calendari da muro a fogli staccabili.
«Guardate! Leggete la data! Leggetela!»
Guardai il calendario con gli occhi sbarrati, respirando appena. Il primo foglio indicava la data di quel giorno.
«Ma non è possibile! Si tratta di un caso, di un errore!»
«No!», urlò Trevor, con voce esultante. «È stato girato oggi, capisci! Lei è viva ... ed io la troverò!»
Con aria autoritaria, si voltò verso il nostromo.
«Che data portava questo calendario quando siete venuto qui l'altra volta? Avanti, parlate, perdio!»
Mastro William lo guardò con stupore.
«È la prima volta in vita mia che vedo questo calendario», affermò, lugubremente. «Questa dev'essere una nave dannata.»
«Non dite fesserie! Sono stanco delle vostre fisime! Qui a bordo devono esserci dei superstiti, è chiaro. Su, forza! Un po' di coraggio! Andiamo a cercarli.»
E andammo. Cercammo, cercammo per ore e ore. Niente di niente. Nessun segno di vita, da nessuna parte. Eppure, in ogni dove regnava la più perfetta pulizia, un contrasto stridente con il disordine selvaggio dei relitti veri e propri.
Visitando le varie cabine, avvertivo come un'impressione inspiegabile, come un ansito caldo e freddo allo stesso tempo. Finite le nostre ricerche senza aver trovato niente, ci guardammo in faccia con espressioni di sgomento e di terrore. Mastro William storse la bocca con disprezzo.
«È come vi avevo detto io, signore ... qui non c'è nessuno.» Trevor non rispose, immerso in un cupo silenzio minaccioso.
«Tra poco sarà notte, signore, ed è meglio per noi abbandonare il relitto prima che calino le tenebre...»
Portammo fuori quasi di peso il povero Trevor, che si fece condurre via senza emettere una sola parola, quindi salimmo lestamente nella scialuppa mentre il sole tramontava all'orizzonte. Ben presto tornammo sulla nostra nave all'ancora.
Durante la notte, Trevor propose di sbarcare sull'isoletta di Middle Islet, per cercare le tracce della ciurma del Felice Ritorno, che forse si era rifugiata sulla terraferma. In caso di esito negativo delle ricerche, allora avremmo perlustrato anche l'Isola Nightingale e le rocce di Stoltenkoff, prima di far rotta verso casa, sconfitti.
Appena spuntò l'alba, ci apprestammo con impazienza allo sbarco. Prima di sbarcare sull'isoletta, ordinammo a Mastro William di mantenere la scialuppa nella baia.
Trevor credeva follemente che la ciurma del relitto, il giorno prima, avesse abbandonato la nave per sbarcare sull'isola, in cerca di erbe, muschio, qualche raro capo di cacciagione... Ricordandomi il mistero del calendario, mi persuasi anch'io che forse qualche cosa di vero c'era, dopotutto.
Di nuovo ci addentrammo con la scialuppa in quello stretto budello, avvolto da una luce quasi irreale, tentando di incoraggiarci a vicenda, e in parte riuscendoci, merito dei forti liquori che tacitamente giravano sotto-banco.
Questa volta fu Trevor a salire per primo sul relitto, correndo verso le cabine. Mastro William ed io lo seguimmo senza alcun entusiasmo, arre-
standoci alla vista di Trevor che si era fermato davanti alla cabina di sua moglie.
Con un sorriso demente, Trevor alzò il pugno, bussando cortesemente alla porta della cabina, aspettandosi una risposta. Io lo guardai con terrore, pregando che nessuno rispondesse, come in effetti avvenne, mentre Trevor, incurante, continuava a bussare, a bussare ...
Lo scostai di lì, aprendo la porta della cabina. Ovviamente non c'era nessuno, ma con un urlo trionfale il mio amico si precipitò sul calendario, sventolandomelo sulla faccia.
Sconcertati, lo guardammo, non credendo ai nostri occhi.
Il giorno prima, portava la data del 27; adesso, ben visibile, portava la data del 28 ... era stato spostato ancora una volta.
«Hai visto Hearnshaw? Deve esserci per forza qualcuno a bordo!»
Scossi la testa, guardandolo con un misto di paura e sospetto.
«Trevor, amico mio... sei sicuro di non averlo spostato tu, inconsciamente, il calendario ... quando lo posasti ieri?»
«Che dici, sei matto? Certo che ne sono sicuro!»
«Ma allora... a che gioco stanno giocando?», sbottai.
«Iddio solo lo sa», fece Mastro William, segnandosi rapido. Mi voltai verso il vecchio nostromo, guardandolo sorpreso.
«Anche voi credete che qui sia venuto qualcuno, allora?»
«Questa è opera dei fantasmi, signore!»
«Tenete la bocca chiusa, William! E guai a voi se mi spaventate la ciurma, capito?», gridò Trevor.
Gratificandoci di un'occhiata sprezzante, senza rispondere, Mastro William ci voltò le spalle, dirigendosi alla scala.
«Un momento! Dove state andando?», gli urlai dietro.
«Sulla scialuppa, signore. Non ho alcuna intenzione di stare qui ad a-spettare gli spettri, sapete.»
Trevor lo lasciò andare senza tentare di fermarlo, assorto in una specie di ragionamento deduttivo. Poi:
«È tutto chiaro. Se non vivono a bordo, una ragione ci deve pur essere. Forse stanno in qualche caverna, chissà».
«E allora come lo spieghi il fatto del calendario?»
«Penso che escano solo di notte. Ci deve essere qualcosa, di giorno, che li tiene lontani. Magari una belva feroce. Sicuramente si nascondono da qualche pericolo.»
Scossi la testa, spazientito.
«Che io sia impiccato se ci capisco qualche cosa!»
Sapevo bene che su quello scoglio brullo non esistevano belve feroci. E non c'era posto più sicuro di quella torpida baia, e di quella nave arenata, ancora solida e pulita. Eppure... quel maledetto calendario ... un vero mistero. Dopo un altro inutile giro di perlustrazione, rientrammo nella nostra scialuppa, costeggiando l'isoletta, finché trovammo un approdo abbastanza sicuro fra le rocce.
Mastro William prese con sé due uomini, io gli altri due, avviandoci ad esplorare ognuno una metà diversa dell'isoletta, mentre Trevor si arrampicava sulla sommità del picco. Dopo un'ora, ritornammo tutti vicino alla scialuppa; nessuno aveva trovato la benché minima traccia, e neppure le fantomatiche caverne di cui avevamo caldeggiato l'esistenza.
Trevor era ancora lassù, sul picco roccioso.
Arrancai bestemmiando sulla strada, per andare ad avvisarlo.
«Trevor! Andiamo, scendi di lì, si torna alla nave!»
Lui si voltò facendo cenno di avvicinarmi in silenzio.
«Chinati qui. Vedi anche tu quello che vedo io?»
Mi chinai proprio sull'orlo del precipizio, guardando incuriosito nel cupo budello di roccia che finiva a piombo nella piccola baia delle acque morte.
«E che diavolo c'è da guardare? Io non vedo niente!»
«Non lì, sciocco, più a destra! Proprio sotto al relitto!...»
Guardai nella direzione indicata, aguzzando la vista.
«Ma sì ... li vedo ... dev'essere un branco di pesci.»
«Come pesci? Dei pesci dalla forma ovale?»
Guardai ancora meglio, sforzandomi al massimo.
«Effettivamente, sono pesci un po' strani ... Pesci Luna, forse, o Pesci Palla... e magari qualche specie sconosciuta.»
Trevor continuò a guardare, orribilmente affascinato.
«Quei pesci hanno dei visi strani ... come dei volti umani, di annegati... con le gote gonfie e gli occhi biancastri.»
«Ma piantala con queste scempiaggini! Forse sono proprio quei pesci, la causa di tutto. Forse sono dei piccoli squali, chissà. E per questo i naufraghi hanno abbandonato le vicinanze della nave, tornando solo ogni volta che fosse possibile!»
Sapevo di mentire spudoratamente, ma il mio amico, ridotto allo stremo, volle crederci, approvando entusiasticamente.
«Sì, è vero, dev'essere così ... qualche pericolo li tiene lontani, e loro tor-nano solo di notte... e lei rimette a posto il calendario, pensando a me, a me, capisci!»
Guardai ancora nel precipizio, ma gli strani pesci non c'erano più, e cominciai a dubitare di averli effettivamente visti.
«Andiamo, Hearnshaw, torniamo a bordo. Voglio andare a prendere delle armi per massacrare tutti quei pesci mostruosi!»
Un'ora più tardi, salimmo di nuovo sul relitto, armati di fucili di precisione, fiocine d'osso, e tridenti acuminati. Io e Trevor impugnavamo due grossi revolver, con estrema sicurezza. Per tutto il giorno i marinai montarono la guardia al relitto, girando in ronde armate fino ai denti la nave, ed esplorando ogni minimo pertugio con aria cupa.
Finalmente, mentre il sole stava calando, scoppiarono dei clamori, e Mastro William venne a comunicarci, con aria contrita, che la ciurma si rifiutava di restare sul relitto di notte, minacciando di ammutinarsi in caso contrario.
«Dovete capirli, signore, sono uomini coraggiosi, che non hanno mai indietreggiato davanti ai pirati o ai selvaggi, ma combattere contro i fantasmi ... beh, è tutt'altra cosa.»
Trevor, con disprezzo, lasciò liberi gli uomini di tornare sulla nave, affermando che lui invece avrebbe passato la notte sul Felice Ritorno, ad ogni costo.
Naturalmente io, in nome della nostra vecchia amicizia, non mi sentii di abbandonarlo, e decisi di restare con lui. Presi un paio di coperte, un po' di gallette e di carne fredda, e scesi con lui nel salone.
Dissi a Mastro William di ritornare a prenderci il mattino dopo, al primo spuntar dell'alba, e rimasi sul ponte a guardare la scialuppa che si allontanava, cominciando già a pentirmi amaramente della mia decisione.
Il tempo cominciò a passare, lento, mentre entrambi camminavamo in lungo e in largo, parlando futilmente degli argomenti più disparati, tanto per distrarci.
Un silenzio terrificante, innaturale, riempiva ogni angolo del relitto; tendevo ansiosamente le orecchie, nella speranza di sentire almeno il risuonare delle onde, ma anche il mare taceva. Trevor fece cadere malaccortamente per terra la sua pistola, che esplose un colpo secco.
L'eco dello sparo si ingigantì tra le rocce che ci circondavano, trasformandosi in un sordo, agghiacciante boato.
Con i nervi tesi allo spasimo, avvertii un lontano ansito bestiale, giù nel profondo, in risposta a quello sparo.
Una nebbia fittissima circondò pian piano il relitto.
Cercando di tirarci su il morale, consumammo il nostro frugale pasto freddo, annaffiandolo con un bel po' di cognac che mi ero portato nella fiaschetta metallica da tasca.
Trevor cominciò a guardarsi attorno con una strana luce negli occhi, realizzando finalmente la situazione poco invidiabile in cui ci eravamo cacciati.
Consultai a fatica il mio orologio: era mezzanotte.
Tirammo a sorte per stabilire i turni di guardia, e a me toccò il secondo. Mi avvolsi nelle coperte tremando, osservando Trevor che si installava su una sedia, impugnando saldamente il suo revolver. Poi crollai di botto, addormentandomi. Mi ritrovai subito immerso in un sogno, un sogno talmen-te nitido, lucido e preciso, da rasentare la realtà.
Nel sogno vidi Trevor che balzava in piedi, attirato da una voce dolcissima che lo invocava con parole d'amore.
Dalla porta del salone, vidi avanzare un volto angelico, due occhi di fiamma, e un corpo celestiale avvolto da una vaporosa vestaglia trasparente, che sembrava tessuta nelle onde. Un Angelo del Signore! mormorai sgomento, nel sogno, accorgendomi di quanto fosse sbagliata la mia impressione, poiché riconobbi con terrore il volto lussurioso e maligno della moglie di Trevor, che, ahimè, avevo purtroppo ben conosciuta, prima del suo matrimonio col mio povero amico.
Trevor gettò la rivoltella per terra, obbedendo a un preciso richiamo, e si alzò, buttandosi fremente tra le braccia della donna, che si chiusero sul suo corpo.
I due s'incamminarono insieme, lentamente, svanendo nella nebbia, e il mio sogno continuò così senza di loro.
Dopo un intervallo di tempo indefinibile, fui svegliato bruscamente da un urlo terrificante, simile a quello di un maiale sgozzato; uno di quegli urli che non si dimenticano! Ghiacciato dalla paura, trassi il capo fuori dalle coperte, puntando verso il buio la canna della mia rivoltella. Niente! Il solito glaciale silenzio di sempre.
Mi voltai verso l'angolo in cui avevo lasciato Trevor di guardia, e mi accorsi con sgomento che non c'era più. Allora balzai in piedi, col cuore che batteva forte, e avanzai. Il suo revolver giaceva scagliato in un angolo del salone. Allora ... forse ... non era stato un sogno. Un sogno?
Alla fioca luce lunare che pioveva dal lucernario scheggiato, chiamai più volte, con voce disperata, il mio amico.
Nessuna risposta ... solo un'eco spaventata, che risuonò a lungo nei corridoi delle cabine, dove forse ...
Corsi lungo la scala e sbucai sul ponte, sempre continuando ad urlare: Nelle tenebre, l'eco assumeva un aspetto orrendo. Mi chinai sul parapetto per guardare se per caso Trevor non fosse caduto in mare, in preda alla sua follia.
Un'ondata di freddo, nero orrore, mi attanagliò il cuore. A pelo d'acqua affioravano una ventina di volti, volti pallidi, esangui, spaventosamente tristi.
Quei volti fremevano, ondeggiando sul mare, bisbigliando una strana nenia dolorosa, che mi entrò nel cervello come un tarlo.
Non so come riuscii a sottrarmi all'orrido fascino di quelle povere crea-ture, a metà strada fra dei cadaveri d'annegati e delle translucide mante giganti, e mi gettai indietro, sul ponte, urlando con tutte le mie forze.
Corsi lungo il ponte fino a farmi male, non osando rientrare nel cupo abisso dei saloni di sotto, e non osando gettare un altro sguardo a quelle strane, orride creature.
Mi misi a sparare contro le ombre che turbinavano nella nebbia, piangendo disperatamente, e mormorando tutte le preghiere che mi avevano insegnato da piccolo e che da allora non avevo recitato più.
Quando i proiettili finirono, scagliai il revolver nel vuoto, in preda all'impotenza e alla disperazione.
Un chiarore all'orizzonte mi fece urlare dalla felicità. Il giorno stava spuntando! I primi timidi raggi del sole scesero a bucare la nebbia, che ben presto si diradò, mentre io, con i nervi tesi fino allo spasimo, mi guardavo intorno freneticamente, tenendomi pronto al peggio.
In lontananza, risuonò l'inconfondibile rumore dei remi. La scialuppa! La scialuppa! Ero salvo!
Mastro William si accostò a prua, urtando la fiancata destra.
«Siamo qui, signori! Da questa parte!»
Urlando, mi tuffai letteralmente nella scialuppa, urtando contro qualcosa di ferroso e rompendomi una gamba.
«Cosa diavolo ...», iniziò il nostromo, guardandomi stupito.
«Andiamo via! Andiamo via di qua! Svelti, svelti!»
«Ma come ... e il signor Trevor! Dove si è cacciato?»
«Trevor è morto! Morto! Allontaniamoci, presto! Presto!»
I marinai remarono forte, contagiati dal mio terrore. Io mi tastai la gamba sanguinante, straziata come da un artiglio... Nel momento in cui la scialuppa passò sotto la poppa del relitto, alzai lo sguardo automaticamente, come nel sogno.
Affacciata alla balaustra, una donna incantevole mi fissava, con i suoi occhi di ghiaccio, lanciandomi un muto richiamo. I suoi seni erano duri e spinosi, e la sua bocca colava sangue; tese le braccia verso di me, ed io urlai con tutte le mie forze, perché le sue braccia erano due artigli mostruosi. Prima di svenire, riuscii ancora a sentire la voce possente di Mastro Wil-liam, che, bestemmiando, urlava ai suoi uomini che piangevano terrorizzati: «VOGA! VOGA! VOGA! VOGA! ...».
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