martedì 23 settembre 2014

Giornate della traduzione letteraria, omaggio a "una tuttofare del passaggio tra due lingue"

Come ormai è tradizione, nel corso delle Giornate della traduzione letteraria, la cui dodicesima edizione avrà luogo a Urbino dal 26 al 28 settembre, si terrà la cerimonia di consegna del premio Zanichelli, concesso a traduttori letterari per l'insieme delle loro attività o a personaggi del mondo culturale che si sono contraddistinti per il loro impegno a favore della traduzione. Quest'anno il premio viene assegnato a Anna Ravano, voce italiana di autori come Bernard Malamud, Isaac B. Singer, Sylvia Plath, e  Monteverdelegge ha il piacere e l'onore di anticipare qui il suo discorso di accettazione.
Anna Ravano
Mi sono sempre definita “traduttrice” ma in realtà nel corso della mia carriera sono stata piuttosto una tuttofare del passaggio fra due lingue: nell’ordine, insegnante, traduttrice di narrativa e saggistica, redattrice/revisora, compilatrice di dizionari, traduttrice di poesia, consulente redazionale. Una tuttofare, per di più, che, sia per gli studi fatti in anni in cui non esistevano percorsi universitari dedicati alla traduzione e c’erano pochi testi di teoria della traduzione, sia per la sua forma mentis, ha sempre avuto un approccio alla traduzione molto pratico e poco teorico.
Il premio che oggi ricevo, con emozione e gratitudine, mi ha fatto riflettere su tutte quelle attività e ho concluso che probabilmente sono stata fortunata ad averle svolte in quell’ordine, perché da ciascuna ho tratto una visione dei rapporti e del passaggio tra l’inglese e l’italiano che ha arricchito l’attività successiva. Dirò quindi qualcosa sulle lezioni che ho imparato, sperando di non restare invischiata nella pura autobiografia e di offrire qualche spunto di riflessione utile anche a chi ha fatto un percorso diverso, e penso soprattutto ai più giovani che si sono formati e lavorano in una realtà molto diversa.
Ho scoperto abbastanza presto, sui quattordici-quindici anni, che mi piaceva arrovellarmi su come dire in italiano quello che leggevo in inglese. All’università negli anni ’60 l’insegnamento della lingua era decisamente secondario a quello della letteratura: in pratica bisognava già averla studiata e continuare a perfezionarla per conto proprio. Ho però avuto due insegnanti che ricordo con gratitudine, Ermanno Barisone e Goffredo Miglietta, allora giovani assistenti, con i quali traducevamo brani di Dylan Thomas, Virginia Woolf, Henry James. È stata una scuola eccellente e alcune di quelle traduzioni le conservo ancora.

Ho insegnato prima inglese in Italia e poi italiano in Australia a classi composte in maggioranza da madrelingua inglesi ma anche da studenti per cui l’inglese era seconda lingua e a italiani di seconda generazione che parlavano un italiano spesso molto regionale. Il dovermi mettermi continuamente nella loro testa per capire il perché di certi errori e per trovare il modo migliore di correggerli mi è servito per mettere a fuoco certe differenze tra l’italiano e l’inglese a cui non avevo mai fatto troppa attenzione, per esempio il diverso modo di sottolineare un elemento di una frase, oppure come traducendo dall’inglese si può sfruttare il contrasto italiano tra imperfetto e passato prossimo o remoto.
La scelta della traduzione letteraria come professione è arrivata non subito, anche se da tempo traducevo per puro piacere testi con i quali volevo prolungare il contatto una volta terminato il godimento della lettura: mi piace manipolare la lingua, lavorare sul lessico, sperimentare con la sintassi, ma non sono scrittrice, non so inventare situazioni e storie, e per esercitare la mia creatività linguistica devo ricorrere all’invenzione altui. Ma forse è proprio in questo che sta secondo me il piacere del tradurre: nell’esercizio di un ascolto inventivo, di una passività attiva.
Anche nella revisione delle traduzione altrui servono passività e ascolto, doppiamente, anzi, perché anche una traduzione deve essere ascoltata, per capire i percorsi che hanno portato il traduttore a certe scelte che magari di primo acchito si vorrebbe correggere, ma di cui riflettendo si capisce il perché. In ogni caso poter dialogare col traduttore è, credo, il desiderio di ogni buon revisore, così come chi traduce dovrebbe sempre insistere per essere riveduto, e possibilmente da qualcuno più ferrato nella lingua di partenza. Anche qui sono stata fortunata, perché ho cominciato a lavorare all’Adelphi quando era ancora una casa editrice piccolo-media, con un numero annuale di novità contenuto: per una revisione avevano a volte due o tre mesi di tempo, i traduttori vedevano sempre le correzioni e potevano dire la loro, prima che si andasse in bozza e anche dopo, perché di bozze ce n’erano due e a volte tre. Ricordo alcune belle collaborazioni più che revisioni, da cui io stessa ho imparato molto come traduttrice. Perché nelle condizioni di lavoro giuste il lavoro del revisore può essere gratificante, innanzi tutto quando la traduzione è buona e si deve rimediare solo a qualche cedimento dovuto a stanchezza o a quei piccoli incaponimenti su una lettura sbagliata che capitano a ogni traduttore anche bravo. Ma è bello anche rivedere la traduzione di un traduttore meno bravo, se si sa che poi si può parlarne insieme, spiegare il perché delle proprie correzioni, discuterne, e magari arrivare con soddisfazione di entrambi a una terza versione migliore.
Passare alla lessicografia (e devo ringraziare una seconda volta Lorenzo Enriques per la fiducia che ha dimostrato verso una neofita e per la lunga e preziosa esperienza che mi ha permesso di fare) è stato un cambiamento di fronte più netto che non il passaggio dalla traduzione alla revisione, perché nel lavoro su un dizionario ci si trova a fare i conti con la parola nuda, senza l’aiuto del contesto e della frase da poter manipolare per restituire la sfumatura dell’originale quando manca la corrispondenza lessicale esatta. Per certe parole elencare i traducenti è un po’ come compiere una manovra di accerchiamento sempre più stretto di una preda invisibile: la preda è lì, dentro il cerchio, e non la si può afferrare, ma quanto meno è individuata e bloccata. E a questo punto sono indispensabili gli esempi, che in un dizionario bilingue, come il Ragazzini, sono di necessità brevi e in genere inventati ad hoc: “La torre si staglia contro il cielo”, “Mi preme che tu riesca”, “Ho frugato tulla la casa”. E poi ci sono le locuzioni, i modi di dire, le collocazioni… Un lavoro lungo, tentacolare e appassionante. In un dizionario specializzato come il WOW poi, che riguarda un ambito linguistico, il colloquiale e lo slang, in cui la corrispondenza tra le due lingue è molto ridotta, gli esempi sono la componente più importante. Con Monica Slowikowska siamo state d’accordo fin dal principio che volevamo quanti più esempi d’autore possibile, la cui traduzione spesso volutamente libera ci permettesse di recuperare nel tono generale o nella struttura sintattica quello che non si poteva riprodurre lessicalmente.
Tradurre poesia: quando Renata Colorni, amica fin dai tempi dell’Adelphi e responsabile dei Meridiani, mi propose di tradurre Birthday Letters di Ted Hughes, esitai ad accettare, perché non avevo mai tradotto poesia né ho mai scritto poesie, e chiesi di fare prima una prova. Il saggio piacque e mi sentii incoraggiata, anche perché Hughes in quella raccolta usa un dettato sostanzialmente narrativo e forme metriche quasi sempre libere. Con Sylvia Plath fu tutto molto più impegnativo, perché il suo corpus poetico presenta una grande varietà di stili: versi tradizionali e schemi di rima elaborati nelle prime poesie, grande libertà ritmica e di rime nelle ultime, ma con dietro tutta sapienza acquistata negli anni di pratica formale. Nel tradurla mi sono concentrata innanzi tutto sul lessico e sulle immagini, su come percorrono non solo la singola poesia, ma tutto il corpus poetico, creando una ramificazione di echi, rimandi e suggestioni: questo ha significato massima attenzione alla parola singola per evitare associazioni estranee e fuorvianti. Al tempo stesso mi sono sforzata di conservare quanto più possibile il ritmo, il numero dei versi e il rapporto fine verso-sintassi/frase, ma tenendo anche presente i diversi meccanismi sintattici con cui inglese e italiano sottolineano l’importanza di una parola nella frase. Con Adriana Bottini, che contemporaneamente traduceva per il Meridiano il romanzo e i racconti, c’è stato un dialogo continuo e alla fine del lavoro ci siamo rivedute a vicenda. E’ stata una collaborazione ideale, come credo ogni traduttore sogna di avere.
Vorrei concludere non con considerazioni generali sulla traduzione e sul tradurre, perché non farei che ripetere cose che altri traduttori hanno detto e scritto molto meglio di quanto saprei fare io, ma con un esempio tratto da un racconto o un brano di romanzo che lessi molti anni fa e di cui purtroppo non ricordo né l’autore né il titolo, ma che mi è rimasto impresso. In una classe ad anno scolastico inoltrato arriva un nuovo studente. Quella mattina c’è esercizio di traduzione, dal francese o forse dal latino. Il nuovo passa tutta la prima ora immobile davanti col brano da tradurre e legge e rilegge. Poi mette via il foglio e traduce. Ecco, l’idea del traduttore che si immerge totalmente nell’autore, fa proprie le sue parole e poi le restituisce da dentro di sé, diverse nella forma ma uguali nella sostanza, è l’ideale irraggiungibile verso cui mi sforzo di tendere.

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