Scrive un filosofo con la barba: "Nell'alienazione dell'oggetto del lavoro si riassume solo l'alienazione, l'espropriazione, dell'attività stessa del lavoro. In cosa consiste ora l'espropriazione del lavoro? In primo luogo in questo: che il lavoro resta esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l'operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato, ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, ma mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito ... il suo lavoro non è volontario, ma forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, ma è solo un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d'altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. In fine l'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, ma ad un altro".
Ragionamento ammirevole, ma di seconda mano.
Tutti i concetti filosofici principali, basici, sono già conosciuti intimamente dai popoli. Marx non ha inventato nulla; nel sangue di un poeta degli Algonchini Piedi Neri (tribù situate fra il Canada e il Nord degli Stati Uniti) già viveva, infatti, la felicità di un lavoro ben fatto, la gioia della creazione che si tramanda di padre in figlio, l'identificazione mistica fra oggetto e artefice.
Non è forse bella
questa mia ascia,
la taglio, la incido,
ne splendo.
Quest'ascia è contenta di esistere.
Io sono l'ascia,
io sto fabbricando me stesso.
Noi due siamo una cosa.
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