Fiorenza Mormile
Calendiario è la prima raccolta poetica di Maria Teresa Carbone, uscita nel 2020 per Aragno nella collana “i domani”. Coltivata nell’arco di oltre quindici anni consta di due parti: Calendiario, appunto, e Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana. Dai titoli appare quindi programmatica la fusione di tempo e scrittura. Quella praticata nella decennale attività di giornalista, critica, traduttrice e qui divenuta poesia, in una cronaca ragionata di pensieri neri e non, esposti con sincerità cristallina. In un’ideale mappa cartesiana di questo libro potremmo collocare come ordinata il tempo e come ascissa le relazioni, col loro carico di problematicità, anche se tutti noi Monteverdeleggini conosciamo l’inesauribile attitudine di Maria Teresa a mettere in relazione persone e mondi. Diviso nelle sezioni “Giorno” e “Notte” Calendiario apre sull’intento, per sdrucciolevole che sia, di collocarsi: “sulla mappa confusa di questo tempo mio/ manca il puntino rosso/ io sono qui/ qui e non altrove (io)”. È corredato da foto della stessa autrice (dodici, come i mesi) che ne esemplificano la realtà ritraendola con tocco elusivo ed enigmatico. Esterni, per lo più di viaggio, e interni domestici, numericamente prevalenti. Autoscatti ‘tagliati’ nello specchio della camera da letto o del vetro del forno, un angolo di spalla, un divano dove di sghembo poggia un quadro, presumibilmente crollato dalla parete piena di ricordi familiari per il cedere di un chiodo il cui buco è bene in vista. Nei testi iniziali predominano esempi di crudeltà relazionale, quella tra adulti e bambini “sei cretina lo sai che/ sei cretina dimmi che sai che/sei cretina”, tra bambini e verso gli animali, rivolta comunque nei confronti dei più deboli “mi piace torturare mio fratello/mi fa sentire potente”;“i bambini hanno smesso di gridare/ l’animale ha smesso di muoversi”. Nell’imparziale mettersi in discussione perfino il grande amore per i cani viene trapassato da un dubbio lacerante: “se avessi molta fame/vorrei mangiarlo”? per concludere poi “vale la pena di vivere mangiando il proprio cane"?