La figura della Regina Mab appare per la prima volta in Giulietta e Romeo (atto I, scena IV). Essa spiega Shakespeare molto più d’un Amleto o d’un Riccardo III.
E spiega la vera fascinazione dei suoi versi.
Shakespeare fu un analista
eccezionale del potere e dei suoi meccanismi; la formidabile padronanza della
terminologia giuridica e diplomatica testimonia in lui il rango altissimo dello
storico. Ma questo magistero (che si ritrova anche nei sonetti) non basta a
esaurirlo. In tal caso, infatti, Shakespeare rileverebbe come artista pari a John
Donne, ad esempio, o ai barocchi spagnoli. In lui avvertiamo altro: come l’agitarsi
d’una forza occulta.
Ogni personaggio delle tragedie
shakespeariane, infatti, si muove, uccide, parla e decade agito da una potenza oscura,
assolutamente irrazionale (nonostante i loro gesti siano considerati razionali,
e cristallini, a un esame superficiale, politico). E tale fondo insondabile non
è psicologico, e men che meno individuale, bensì mitico: è il retaggio pagano,
precristiano, germanico, che opera celato dietro l'umano trapestio della
temporalità; è la matrice limacciosa dell’Inghilterra, quando l’Inghilterra non
era ancora tale. In questo mondo primitivo è ancora la magia a vigere, così
come il presagio, la credenza sovrannaturale, il sogno premonitore – tutte emanazioni
di un Destino implacabile superiore a qualsiasi eroe, o deità. Macbeth, ad
esempio, è un uomo divorato dall’ambizione, e Shakespeare lo mostra nella sua
scalata al potere supremo, a qualsiasi prezzo (questo il lato ‘politico’, in
piena luce); e però tale ascesa è spinta non dall’avidità individuale, ma dalle
tre fatidiche sorelle (Weird Sisters), le preveggenti; e le tre streghe,
sputate dalle profondità ancestrali d’un Inghilterra remota e brutale, appartengono
a regioni in cui la nozione di causa ed effetto non vale. Lì sono la
maledizione, la dannazione, il sortilegio a vantare realtà; o una visione
fantasmatica (lo spettro di Banquo); o un sogno ingannatore; è quel recesso a
imporre la sua legge all’uomo e non viceversa; alla fine Macbeth sarà costretto
ad ammettere ch’egli stesso è un nulla, un guitto diretto da burattinai
beffardi, uno sbuffo di fumo; e invece ciò che appariva quale fuggevole visione
(le Weird Sisters) sono l’autentica radice del reale, i fenomeni di quel Destino
inesplicabile (Wyrd) a cui necessariamente soggiace l’umanità.
E così è per Giulietta e Romeo.
Alla luce è una storia d’amore, purissima; ma tale alone caldo e splendido è
attorniato da un oceano d’ombre; e la Regina Mab nuota in tale oscurità. Ed
ecco che vien meno la razionalità: Romeo è assillato da un sogno, da un
presagio; chiede conforto a Mercuzio e questi, pur nel tentativo di recargli
conforto, non può che evocare sinistramente - confermandolo - quel mondo superstizioso,
gelido e obliquo, umido d’un folclore barbarico, in cui il male germina senza
motivo, maligno e irridente come il convoglio dispettoso e folle di Mab.
Un dio inconoscibile e onnipotente
attende alle vite di Macbeth e Romeo e Giulietta come alle nostre; egli si
manifesta nelle visioni e nei sogni, che sono reali; siamo noi (e Macbeth,
Giulietta e Romeo) a essere nulla, un veloce delirio, una battuta dimenticata su
di un palcoscenico che non esiste più.
ROMEO.
Ho fatto un sogno, stanotte.
MERCUZIO.
Anch’io ho sognato.
ROMEO.E
che hai sognato?
MERCUZIO.
Che spesso i sognatori mentono.
ROMEO. Quelli
che sono addormentati a letto sognano cose vere.
MERCUZIO.
Ah, vedo che la Regina Mab è venuta a trovarti, lei, che tra le fate è la
levatrice, e viene, non più grande d’un’agata al dito d’un consigliere, tirata
da un equipaggio d’invisibili creature fin sul naso di chi giace addormentato.
Il suo
cocchio è un guscio di nocciola lavorato dallo scoiattolo falegname o dal
vecchio lombrico, da tempo immemorabile carrozzieri delle fate. I raggi delle
ruote sono fatti con le lunghe zampe dei ragni, la capote con ali di
cavalletta, le redini con la ragnatela più sottile, le bardature con umidi raggi
di luna, la frusta con l’osso d’un grillo, la sferza d’impercettiblle filo, il
cocchiere è un moscerino dalla grigia livrea, più piccolo della metà del
vermetto tondo colto dal dito delle fanciulle pigre.
Su
questo cocchio, notte dopo notte, galoppa nelle menti degli amanti riempendole
di sogni amorosi; oppure eccola sulle ginocchia dei cortigiani, che subito
sognano riverenze; o sulle dita degli avvocati, che sognano allora parcelle; o
sulle labbra delle donne, che sognano baci, e che invece spesso, la perfida Mab
ricopre di bollicine, adirata per l’alito che sente di dolciumi.
Altre
volte galoppa sul naso d’un gentiluomo di corte, e quello in sogno sente allora
il sapore d’una supplica ben ricompensata; oppure s’avvicina, con la coda d’un
porcellino della decima, a sfiorare il naso d’un curato addormentato, e costui
subito sogna un benefizio ancor più grasso; altre volte, col suo cocchio, si
spinge sul collo d’un soldato suscitando sogni di gole tagliate, d’imboscate,
d’assalti e di lame di Toledo, di brindisi in coppe profonde cinque tese; poi,
all’improvviso, è sempre lei che gli fa risuonare il tamburo nell’orecchio,
svegliandolo di colpo, e lui apre l’occhio, impaurito, bestemmia una preghiera
o due, quindi, assonnato, ricade addormentato.
Ed è la
stessa Mab che di notte intreccia le criniere dei cavalli, facendo coi loro
luridi crini nodi d’elfi che a scioglierli porta grave sventura. È lei la
strega che se trova vergini supine le copre, insegnando loro come sopportare un
peso, rendendole donne di buon portamento. È lei …
ROMEO. Basta,
basta, Mercuzio, calma. Tu parli di nulla.
MERCUZIO.
È vero, parlo dei sogni, io, figli d’una mente oziosa, generati da un’inutile
fantasia fatta d’una sostanza tenue come l’aria e più incostante del vento, che
spasima ora per il gelido grembo del nord, ma poi, gonfia di rabbia, si svolge
sbuffando verso un nuovo amore, il sud umido di rugiada.
Di tutt’altro tenore la Regina Mab di
Shelley (il quale concepì tale poemetto filosofico ad appena diciotto anni).
Se la Regina Mab di Shakespeare è la concrezione
fatale di un oltremondo feroce e inconoscibile, quella di Shelley è, invece, l’araldo di
una nuova umanità, finalmente libera dalla religione, dal dispotismo, da
qualsivoglia tipo di violenza (nelle note in calce è abbozzato persino un trattato sul
vegetarianesimo).
La Fata Mab scende sulla terra, sul proprio
cocchio fiammeggiante, per strappare dal Sonno lo spirito di Ianthe; lo
trasporta, quindi, verso la sua dimora; sarà dagli spalti della reggia di Mab che Ianthe
osserverà il passato, il presente e il futuro dell’umanità. Come nell’Aleph di
Borges ella potrà scorgere la totalità, il nascere e il declinare degli imperi,
il trasmutare incessante della natura, le sofferenze inflitte alle moltitudini
dall’arroganza dei monarchi e dei preti sino alla necessaria vittoria dell’Amore che avrà ragione di tutte le divisioni e le
sopraffazioni, e di ogni tirannia.
Shelley tempererà in seguito tale visione ottimistica,
ma il grandioso impianto della propria poetica (influenzato dalla cosmologia
platonica) permarrà sino alle ultime opere.
Di seguito l’incipit del poemetto: la
descrizione del corpo di Ianthe, candido e marmoreo, che riposa sospeso tra il
Sonno (dello Spirito) e la Morte (del corpo), è uno dei più bei passi della
letteratura romantica.
Com’è
meravigliosa la Morte,
la
Morte, e il compagno suo, il Sonno!
Pallida
quanto la Luna che di lontano cala
è la
prima, con labbra d’un livido blu;
l’altro
roseo come il mattino
quando
sul trono dell’oceano ondoso
la
terra tutta imporpora;
meravigliosi
ambedue, d’una beltà che fugge!
Forse l’oscura Potenza
che regna sui putridi sepolcri
ghermì la sua anima incorrotta?
che regna sui putridi sepolcri
ghermì la sua anima incorrotta?
Dovranno
allora perire quell’incomparabile forma
che
amore e venerazione mirare non sanno
senza
il palpito del cuore, e le vene azzurre
che
scorrono quali ruscelli su campi innevati,
e
l’amabile figura, bella
al pari
d’un marmo che vive?
…
Si
ridesterà Ianthe? …
Sì! Di
nuovo lei si desterà
pur se
le belle membra immobili stanno
e
silenziose quelle dolci labbra
ch’una
volta spiravano l’eloquenza
capace
d’ammansire la furia d’una tigre
o
sciogliere il freddo cuore d’un conquistatore.
Son
chiusi gli occhi rugiadosi,
e sulle
palpebre, la cui raffinata fibra
a
malapena cela le pupille d’un blu profondo,
riposa
il Sonno bambino;
le
bionde trecce velano
il
rigoglio del petto immacolato,
e si avvolgono
quale viticcio parassita
attorno
una colonna marmorea.
…
Subito
sorse lo spirito
di Ianthe,
ergendosi splendido
in nudo
candore,
gemello
perfetto del suo involucro mortale;
pregno ‘ineffabile
bellezza e grazia –
ogni
goccia d’essenza terrena
s’era
dissolta – riebbe la sua
spettante
nobiltà, ed immortale
si erse
fra le rovine.
Sul
talamo restava il corpo
avvolto
negli anfratti del Sonno,
le sue
sembianze immobili e laconiche;
eppure
lì c’era un’anima essenziale
e ogni
organo compiva ancora
il suo
innato dovere; incredibili
allo
sguardo, corpo e anima vicini.
Lì – i medesimi
tratti, e le impronte
della medesima
identità; eppure, oh!,
quale
dissomiglianza! L’uno brama il Cielo,
si
strugge per il suo lascito eterno,
e
sempre mutevole, eppur sempre levandosi,
indugia
senza fine nei ceppi dell’essenza;
l’altro,
solo una volta, soggiace all’angheria
dei
sensi e degli eventi, scorre via lesto
nella
sua cupa stagione
e poi,
come un attrezzo nullo e logorato
cade, marcisce, e si disperde.
cade, marcisce, e si disperde.
Traduzione della Queen Mab di Percy Shelley di Giovanni Anchiseo ("Com'è meravigliosa ... colonna marmorea") e Maria Laura Capobianco ("Subito sorse ... si disperde"); quest'ultima traduzione tratta da La Regina Mab, Solfanelli, 2014.
Bellissima analisi. Interessantissima per me che voglio affrontare il tema del magico e del sogno in Shakespeare per un progetto scolastico. Prenderò spunto grazie. Mi hai dato una bella idea
RispondiEliminaWho is Giovanni Anchiseo?
RispondiEliminaAn unknown dead poet.
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