Maria Teresa Carbone
Come sarà il prossimo libro di Emmanuel Carrère? Se lo chiedeva, dopo Limonov, Sara Sullam nel numero del «verri» dedicato agli Eccessi dell’io (55, giugno 2014): «Lasciati da parte gli “occhi dell’occidente – scriveva Sullam in chiusura di un breve saggio sull’autore francese – quali strade prenderà ora quell’io narrante ipertrofico, quale zona del vasto territorio della narrativa contemporanea sceglierà di esplorare?». La stessa domanda non possono non porsi oggi i lettori riemergendo dalle quattrocento e passa pagine del Regno, se non altro perché a questo libro, ben più che al precedente, Carrère assegna un ruolo di assoluto rilievo nel proprio percorso letterario, tanto da definirlo, nelle sue stesse pagine, un «capolavoro» (sia pure «artigianale»), l’opera dopo la quale potrà «finalmente tirare i remi in barca». Non tappa fra le altre, quindi, ma desiderato approdo e probabile punto di partenza verso nuove rotte. Se poi davvero l’io di Carrère sia pronto a «farsi indietro, e finalmente scomparire», come lo scrittore ha dichiarato in un’intervista uscita sulla «Paris Review» nel 2013, quasi al termine della lunga (sette anni) gestazione del Regno, non è ancora dato sapere. Ma certo è che con questo libro Carrère intende dare il colpo definitivo alla sua immagine di autore di autofiction, contro la quale finora ha combattuto invano.
Difficile, in effetti, resistere alla tentazione di vedere nel suo uso tenace e spericolato della prima persona l’emblema di un narcisismo incontenibile (e su questo Carrère potrebbe essere, o essere stato, d’accordo) e insieme una maschera che, per quanto aderente al modello, ne è irrimediabilmente separata: un meccanismo di finzione, insomma, tale da rendere i suoi récits non meno romanzeschi di tutti i romanzi che si dichiarano tali, scritti o no alla terza persona. A questa lettura, però, lo scrittore si oppone tacciando di «superstizione editoriale» l’idea stessa di autofiction e, come scrive Luigi Grazioli nel saggio che gli ha dedicato (Emmanuel Carrère, doppiozero 2013), facendo ripetuta «professione di sincerità». Ma come non essere sospettosi, «con tutto il dibattito sulla trasparenza, la finzione, la verità che ha attraversato la cultura francese, e non solo, dagli anni Sessanta in poi e che Carrère stesso non misconosce di certo»?
Ipotizziamo però che Carrère non menta quando dichiara di non mentire. E andiamo un passo oltre Grazioli, secondo il quale da un lato «onestà e veridicità e trasparenza», pur sinceri, sono funzionali alla strategia narrativa dello scrittore (dato innegabile), dall’altro la prima persona è una precauzione, un modo per mettersi in relazione con il male e il dolore, prendendone al tempo stesso distanza. Partiamo invece da quanto Carrère afferma ancora nell’intervista alla «Paris Review» quando, a proposito della scelta compiuta da Truman Capote in A sangue freddo, di eliminare la propria figura dalla narrazione, sostiene che «il libro – un capolavoro – è fondato su una menzogna, un atto di omissione a mio parere moralmente deprecabile». Mettere in scena il proprio io non è dunque per Carrère (solo) un segno di esibizionismo o un intelligente dispositivo letterario ma, nota Sullam, prima di tutto «un dovere», una necessità ineludibile. In altre parole, se vuole trasformare in personaggi le persone a lui vicine, esponendone sofferenze, errori, tragedie, lo scrittore non ha altra scelta che trasformarsi lui stesso in personaggio, esponendo le proprie sofferenze, i propri errori, le proprie tragedie. Come gli dice il losco e sconfitto Sasha, nel più personale dei suoi récits, Un roman russe (La mia vita come un romanzo russo, Einaudi 2009): «Non sei venuto solo a prendere il nostro dolore, hai portato il tuo». Troppo azzardato vedere in quest’autore che si fa personaggio fra i personaggi un’ombra del dio che si fa uomo fra gli uomini?
E cosi veniamo al Regno. Dove Carrère ancora una volta, secondo il metodo adottato a partire dall’Adversaire (L’avversario, Einaudi 2000; Adelphi 2013), intreccia indagine dell’altro e autobiografia, in questo caso alternando una ricostruzione ambiziosa, accurata, avvincente dei primi anni del cristianesimo con la rievocazione del periodo in cui è stato «toccato dalla grazia» (le virgolette sono sue). Ma rispetto allo schema consolidato la differenza è subito evidente: se Carrère-personaggio è in linea di continuità con i libri precedenti, le figure raccontate stavolta da Carrère-scrittore se ne discostano in modo netto perché appartengono al passato remoto. Non c’è più l’interazione diretta tra narratore e narrati, non c’è più il momento che finora aveva determinato l’avvio della narrazione, quella che Sullam definisce «l’autorizzazione a raccontare» da parte dei suoi interlocutori.
Nel Regno dunque lo scrittore si prende scopertamente in carico il libro nella sua interezza e per quanto nelle interviste successive all’uscita abbia pigiato sul tasto dell’ironia, descrivendolo come un peplum, o abbia sottolineato la propria (reale) inclinazione alla divulgazione, già emersa nelle pagine sul debito in D’autres vies que la mienne (Vite che non sono la mia, Einaudi 2011), appare chiaro che il gioco del romanzo storico interessa Carrère quasi solo nella misura in cui gli consente di trasgredirne le regole «guardando in macchina» (lo scrive lui stesso nel libro, in una pagina dove confronta Il Regno con le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar).
La scelta di raccontare il tempo e il modo in cui una piccola setta nata in un angolo oscuro dell’impero romano si diffonde e si trasforma, fino a diventare la religione che più o meno oggi conosciamo, amandola o detestandola, è soprattutto il modo, per Carrère, di affrontare in un unico lunghissimo respiro i temi che attraversano la sua opera: la scoperta delle parti oscure, ignote, di sé; l’ineluttabilità del dolore; i diversi codici della giustizia; la necessità, infine, quando si costruisce un racconto, di fare i conti con gli spazi vuoti lasciati dalla realtà. «In certo senso – ha dichiarato lo scrittore in una bella intervista a Télérama – il trionfo del cristianesimo è anche quello della letteratura. I vangeli non sono raccolte di precetti e riflessioni, ma romanzi, storie con personaggi e peripezie. Ce ne sono diversi, e va a grande merito della Chiesa primitiva l’avere mantenuto quattro racconti abbastanza contraddittori, invece di omogeneizzarli per erigere una sola versione ufficiale».
E se lo scrittore afferma a più riprese di rispecchiarsi nel piacere dell’evangelista Luca di imbastire un buon racconto, leggibile e coeso, o più raramente nella veemenza di Paolo, esaltato e insieme atterrito dalla propria conversione, il vero interlocutore di Carrère nel Regno è Cristo, mai presentato «di persona» eppure costantemente presente attraverso le sue parabole, le sue parole, «principio attivo – commenta lo scrittore – che informa la mia percezione della realtà». Il cerchio si chiude: partito dall’avversario (il diavolo) Jean-Claude Romand, Carrère arriva al salvatore Gesù. Decisamente, non possiamo non chiederci: come sarà mai il suo prossimo libro?
Questa recensione è uscita su Alfabeta2 il 17 luglio 2015
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