domenica 31 agosto 2014

Il racconto della domenica - Philip K. Dick, Ora tocca al wub

Avevano quasi finito di caricare. All'esterno l'Optus se ne stava a braccia conserte, scuro in volto. Il capitano Franco scese lentamente giù per il ponticello di sbarco, con un ghigno dipinto sulle labbra.
«Che ti succede?» disse. «Sei pagato per questo.»
L'Optus non disse nulla. Si girò dall'altra parte, raccogliendo i suoi abiti. Il capitano mise il piede sull'orlo del vestito.
«Un attimo. Non te ne andare. Non ho finito.»
«Eh?» L'Optus si girò pieno di sussiego. «Sto tornando al villaggio.» Guardò gli animali che venivano caricati lungo il ponte nella nave. «Devo organizzare nuove cacce.»
Franco si accese una sigaretta. «Perché no? Voi potete andarvene nel veldt e catturarli di nuovo. Ma quando noi ci troveremo a metà strada fra Marte e la Terra…»
L'Optus se ne andò, senza dire una parola. Franco si rivolse ad uno degli ufficiali in seconda in fondo al ponte di sbarco.
«Come sta andando?» domandò. Poi diede un'occhiata al suo orologio da polso. «Qui abbiamo fatto un bel carico.»
L'ufficiale in seconda lo guardò in tralice. «Come lo spiega?»
«Che le succede? Ne abbiamo bisogno più noi di loro.»
«Ci vediamo più tardi, capitano.» L'ufficiale in seconda salì su per il ponte, in mezzo agli uccelli marziani dalle lunghe gambe ed entrò nella nave. Franco l'osservò mentre spariva; stava per andargli dietro, lungo il passaggio che conduceva al boccaporto, quando lo vide.
«Buon Dio!» Rimase lì a guardare, con le mani sui fianchi.
Peterson stava arrivando lungo il sentiero, rosso in volto, tenendolo per una corda.
«Mi scusi, capitano,» disse, dando degli strattoni alla corda.
«Che cos'è?»
Il wub se ne stava ripiegato, muovendo a fatica il grosso corpo. Si mise a sedere, con gli occhi semichiusi. Qualche mosca ronzò intorno ai suoi fianchi, e lui agitò la coda.
Era seduto. Ci fu silenzio.
«È un wub,» disse Peterson. «L'ho comprato da un indigeno per cinquanta centesimi. Ha detto che si tratta di un animale molto insolito; molto importante.»
«Questo?» Franco diede un calcio al grosso fianco pendente del wub. «È un maiale. Gli indigeni lo chiamano wub.»
«Un grosso maiale. Deve pesare almeno duecento chili.»
Franco strappò un ciuffo di peli ispidi. Il wub ansimò, e aprì gli occhi piccoli e umidi. Poi la sua grossa bocca si contorse.
Una lacrima scivolò giù lungo la guancia del wub e gocciolò sul pavimento.
«Forse è buono da mangiare,» disse nervosamente Peterson.
«Lo sapremo presto,» disse Franco.
Il wub sopravvisse al decollo, profondamente addormentato nella stiva della nave. Quando furono nello spazio aperto ed ogni cosa seguiva tranquillamente il suo corso, il capitano Franco ordinò ai suoi uomini di portare su il wub in modo che lui potesse rendersi conto di che razza di animale si trattava.
Il wub grugnì ed ansimò, facendosi strada faticosamente lungo lo stretto corridoio.
«Andiamo,» disse Jones con voce aspra, tirando la corda.
Il wub si contorceva spellandosi i fianchi contro le lucide pareti di cromo. Piombò nell'anticamera e si gettò a terra in un mucchio informe. Gli uomini balzarono lontano.
«Buon Dio,» esclamò French. «Che cos'è?»
«Peterson dice che è un wub,» rispose Jones. «È suo.»
Diede un calcio al wub il quale si sollevò pesantemente, rantolando.
«Che gli succede?» intervenne French. «Sta male?»
L'osservarono. Il wub roteò gli occhi con aria mesta, guardando gli uomini che lo circondavano.
«Forse ha sete,» disse Peterson. E andò a prendergli dell'acqua.
French scosse il capo.
«Non mi stupisco di aver avuto tutti quei problemi per decollare.
C'erano da rifare tutti i calcoli della zavorra.»
Peterson tornò con l'acqua. Il wub prese a leccarla con aria riconoscente, schizzando tutti.
Il capitano Franco apparve sulla porta.
«Diamogli un'occhiata.» Si fece avanti scrutandolo di traverso.
«L'hai comprato per cinquanta centesimi?»
«Sì, signore,» disse Peterson. «Mangia quasi tutto. Gli ho dato del grano e gli è piaciuto. E poi patate, pastoni e avanzi del pranzo, e latte. Sembra che gli piaccia mangiare. E dopo aver mangiato si mette disteso e si addormenta.»
«Vedo,» fece il capitano Franco. «Ora, per quel che riguarda il suo sapore… Questo è il vero problema. Mi chiedo se valga la pena di farlo ingrassare ulteriormente. Mi sembra già abbastanza grasso. Dov'è il cuoco? Lo voglio qui. Voglio scoprire…»
Il wub smise di leccare e alzò lo sguardo sul capitano.
«In verità, capitano,» disse il wub. «Io suggerirei di cambiare argomento.»
Il silenzio scese nella sala.

giovedì 28 agosto 2014

Il racconto del giovedì - M. R. James, La mezzatinta

M. R. James
Tempo addietro credo di avere avuto il piacere di narrarvi un’avventura accaduta a un mio amico, di nome Dennistoun, mentre era impegnato a ricercare oggetti d’arte per il museo di Cambridge.
Di ritorno in Inghilterra, non ha reso note a molti le sue esperienze; ciò nondimeno non era possibile che queste non venissero a conoscenza di numerosi amici, e tra questi del gentiluomo che a quel tempo lavorava per il museo di un’altra università. Era comprensibile che la vicenda colpisse in modo particolare la mente di un uomo la cui missione nella vita è simile a quella di Dennistoun e che egli fosse ansioso di trovare una spiegazione dei fatti tale da rendere improbabile l’eventualità che mai si trovasse a dover affrontare un’emergenza così inquietante. Era un conforto per lui sapere che non era suo compito acquistare antichi manoscritti per l’università; di questo si occupava la Shelburnian Library. I direttori di quella istituzione potevano, se così piaceva loro, saccheggiare oscuri angoli del continente alla ricerca di manoscritti. Lui si rallegrava di essere per il momento costretto a limitare la sua attenzione all’arricchimento di una raccolta già ineguagliata di incisioni e disegni topografici inglesi. Pure, come risultò, anche un campo così casalingo e familiare può avere i suoi angoli bui, e il signor Williams si trovò inaspettatamente a conoscerne uno.
Quanti si siano interessati, sia pure in modo assai limitato, all’acquisto di quadri o disegni topografici conoscono l’esistenza di un mercante londinese il cui aiuto è indispensabile alle loro ricerche. J.W. Britnell pubblica con una frequenza regolare splendidi cataloghi di una raccolta vasta e sempre rinnovata di incisioni, mappe e disegni di case, chiese e città dell’Inghilterra e del Galles. Per il signor Williams, si intende, questi cataloghi rappresentavano l’abbici della sua materia: ma poiché il suo museo aveva già una quantità enorme di materiale topografico, Williams faceva acquisti regolari più che abbondanti; e si serviva di Britnell per colmare le lacune della sua raccolta più che per procurarsi rarità.
Ora, nel febbraio dello scorso anno, sulla scrivania di Williams al museo, venne a trovarsi un catalogo del negozio di Britnell accompagnato da un biglietto scritto a macchina dal signor Britnell in persona. Britnell scriveva:
Caro signore,
ci permettiamo di richiamare la sua attenzione sul numero 978 del catalogo accluso che saremo lieti di inviarle in esame. Sinceri saluti
J.W. Britnell
Cercare il numero 978 del catalogo accluso non richiese al signor Williams (come egli stesso osservò) più di un minuto, e al numero indicato trovò la seguente indicazione:
978. Artista ignoto. Interessante mezzatinta: Veduta di una dimora di campagna, prima metà del secolo. 15 pollici x 10; cornice nera. 2 sterline e 2 scellini.
Niente di particolarmente interessante, e il prezzo sembrava alto. Tuttavia, poiché il signor Britnell, che conosceva il suo mestiere e i suoi clienti, sembrava dare tanto peso alla cosa, Williams spedì una cartolina chiedendo che gli venisse inviato in esame quell’articolo insieme ad altre incisioni e disegni segnalati nello stesso catalogo. Quindi si dedicò, senza grandi attese, al consueto lavoro quotidiano.
I pacchi arrivano sempre un giorno dopo quello in cui li si attende, e il pacco del signor Britnell non fece (come credo si dica) eccezione alla regola. Arrivò al museo con la posta del sabato pomeriggio, quando Williams aveva già lasciato il lavoro, e venne di conseguenza portato dal sorvegliante alla sua stanza nel College, affinché egli non dovesse attendere lunedì prima di esaminarne il contenuto e restituire quello che non intendeva tenere. Williams lo trovò quando arrivò con un amico per il tè.

domenica 24 agosto 2014

Il racconto della domenica - Richard Matheson, Lemming

Richard Matheson
— Ma da dove vengono? — chiese Reordon.
— Da ogni parte — rispose Carmack.
Si trovavano sull'autostrada costiera, e per quanto potessero spingere lo sguardo non vedevano che macchine. Migliaia di macchine incollate parafango contro parafango, sportello contro sportello. Ogni centimetro dell'autostrada ne era coperto.
— Eccone altri — disse Carmack.
I due agenti osservarono la folla che attraversava la spiaggia. Molti parlavano e ridevano, altri erano calmi e composti. Tutti, comunque, si dirigevano alla spiaggia.
Reordon scosse la testa. — Non lo capisco — disse per la centesima volta quella settimana. — Proprio non lo capisco.
Carmack si strinse nelle spalle.
— Non pensarci. Sta succedendo e basta. Che altro importa?
— Ma è folle.
— Guarda, eccoli che vanno.
Sotto gli occhi dei due poliziotti la folla abbandonò la sabbia grigia e cominciò a camminare nell'acqua. Alcuni tentarono di nuotare, ma la maggior parte non poté a causa dei vestiti. Carmack vide una giovane donna cadere fra le onde e sparire sul fondo, trascinata dal peso della pelliccia.
In pochi minuti erano andati tutti. I poliziotti guardarono il punto della spiaggia dove la folla si era immersa.
— Ma quanto durerà? — chiese Reordon.
— Finché sono andati tutti, credo — disse Carmack.
— Perché?
— Non hai mai sentito parlare dei lemming? — domandò Carmack.
— No.
— Sono roditori che vivono nei paesi scandinavi. Continuano a moltiplicarsi finché le fonti di cibo sono esaurite, e allora migrano per il paese distruggendo tutto ciò che trovano sulla loro strada. Non si fermano neppure davanti al mare, ma continuano ad andare. Nuotano finché ne hanno la forza, poi annegano. E sono milioni.
— E credi che qui stia succedendo lo stesso? — fece Reordon.
— Può darsi — rispose Carmack.
— Ma gli uomini non sono lemming! — Nella voce di Reordon c'era una punta di rabbia.
Carmack non rispose.
Rimasero ad aspettare sul ciglio dell'autostrada, ma non si vide nessuno.
— Dov'è la gente? — chiese Reordon.
— Forse quelli erano gli ultimi — osservò Carmack.
— Gli ... ultimi?
— Questa storia va avanti da più di una settimana — disse Carmack. — La gente è arrivata da tutte le parti, e non dimenticarti che ci sono anche i laghi.
Reordon rabbrividì. — Tutti andati — disse.
— Non ne sono sicuro — fece Carmack — però finora arrivavano di continuo.
— Oh Dio — disse Reordon.
Carmack prese una sigaretta e l'accese. — Bene — disse. — E ora che facciamo?
Reordon sospirò. — Tocca a noi?
— Vai prima tu — suggerì Carmack. — Io aspetto un poco per vedere se arriva qualcun altro.
— Va bene. — Reordon gli tese la mano: — Addio, Carmack.
— Addio, Reordon.
Carmack continuò a fumare e vide l'amico attraversare la spiaggia grigia, poi entrare nell'oceano e avanzare finché l'acqua gli ebbe coperto la testa. Reordon nuotò per una decina di metri e infine scomparve.
Dopo un po' Carmack spense la sigaretta e si guardò intorno, quindi scese in mare a sua volta.
Un milione di auto vuote stavano immobili sulla spiaggia.

venerdì 22 agosto 2014

I film da non perdere, secondo Martin Scorsese

Raethia Corsini


Nelle regioni del nord Italia l'estate non è mai arrivata. Invece, a guardare i meteo, i post sui social network e le foto degli amici in vacanza, pare che piena estate sia nel nord Europa e nel sud Italia. La "finta estate" è toccata alle terre di Padania e dintorni. Noi che viviamo nell'eterna città dell'imper(i)o romano, non ci siamo accorti di nulla: bello stabile, da queste parti. Risparmiati anche dalle temperature atroci e umide, noi a Roma ci siamo ritrovati - in molti quest'anno - nel solito supermercato; nello stesso baretto che ha chiuso giusto solo il we di ferragosto; in bici lungo i fori imperiali a testare la chiusura al traffico e tante, molte, tantissime volte ci siamo incrociati nelle arene dei cinema all'aperto dove qualcuno si è portato anche il cuscino, viste le sedie parecchio scomode. Un vinello, uno spuntino e poi sei-euri-sei per colmare le lacune dei film persi in inverno, e in alcuni casi era meglio non colmarle, ma tant'è: l'urbana ignavia estiva ti fa trascinare fino a sera tra un libro e una bibita, una doccia e una chiacchiera e poi d'improvviso ti regala quella sottile uggia mista a senso di colpa serale (anche oggi non ho combinato nulla!) che ti porta con altrettanta indolenza alla domanda di rito: cosa c'è all'arena del cinema? Perché è una soluzione fantastica: intanto inizia alle 21.30, quindi c'è tempo. Poi ti metti, appunto, in pari con le programmazioni e a posto con la cultura della tua coscienza e infine - ma di questo non ti accorgi consapevolmente - il cinema ti conduce piano piano fuori dall'estate o, meglio, più vicino all'autunno. Trovo che il grande schermo delle arene in città, porti con sé tanta nostalgia per la stagione crepuscolare, con tutti i doppi significati e sensi che questo concetto ha la forza di esprimere. L'ultima arena "me la sono fatta" questa settimana, al Sacher: Synecdoche New York (qui una recensione de Il fatto.it, tra le tante), che in quanto a umor nero e malinconia la sa fin troppo lunga. Non solo: il film è uscito in Italia lo scorso giugno ma è del 2008 e contiene l'anticipo testamentario di Philip Seymour Hoffman, morto a gennaio di quest'anno. Anche la pellicola con Robin Williams che uscirà prossimamente nelle sale, contiene l'anticipo della fine stessa dell'attore. Melinconia, nostalgia. Sarà un altro film da non perdere, per onorare lui e anche le coincidenze più tristi che il cinema riesce a mettere in scena. Poi l'altro giorno su twitter pubblicano un elenco non nuovo - nel senso che è stato compilato tempo addietro- di film da non perdere secondo Martin Scorsese, che vive lotta, gira e vede film insieme e per noi. Ho letto la lista e visto il mini video : come con le figurine di un tempo si può stare lì nell'uggia estiva con gli amici e dire ce l'ho-manca. Nell'elenco ci sono assenze nobili, sorprese e cosette per le quali dici "devo rimettermi in pari". E siccome nelle arene non li programmano, toccherebbe scaricarli o darsi al noleggio selvaggio. Ce n'è per approdare all'equinozio d'autunno sereni, nostalgici e malinconici (o malconci?). In caso, buona visione. 

Eterno Eternit (Dismissione)


Fabio Orecchini
Dismissione
Prefazione di Gabriele Frasca
+ Cd-Audio della band Pane
(Claudio Orlandi, voce; Maurizio Polsinelli, pianoforte; Vito Andrea Arcomano, chitarra; Claudio Madaudo, flautista; Ivan Macera, batterista)
Luca Sossella Editore 2014
 

  Elvira Sessa

Con il suo linguaggio contaminato da poesia, musica e immagini, Dismissione è un'opera che frulla, inquieta, destabilizza. Dedicate alle vittime dell'amianto e alle loro famiglie, le parole poetiche sono racchiuse in quattro paragrafi che rimandano, già nel titolo, alla potenza evocativa e visiva di un progetto fotografico: Lamine Rovine; Corpi Dissepolti; Stadio finale - Elementi di reazione; Breviario di Ecologia Solidale. Parole che affermano e negano, si combattono, sono canto armonioso e grida scomposte, come i protagonisti dell'opera, gli operai traditi dal miraggio di "Madama Eternit", l'"eterno-eternit" che, lentamente e inevitabilmente, screma i loro corpi.
La struttura sintattica e semantica del testo (già edito nel 2010 per Polimata editore) la si coglie fin dal primo paragrafo del libro, intitolato "Lamine Rovine", che si apre con queste parole:
Ho studiato il flusso dei venti.
Aghi ovunque
Sono solo due periodi, al centro di una pagina bianca. Due periodi stridenti l'uno con l'altro, graficamente e semanticamente: il primo è fermato da un punto (Ho studiato il flusso dei venti.), il secondo periodo è privo di segni di interpunzione, quasi a voler rappresentare graficamente l'impossibilità di arginare l'abbondanza di aghi.
Sono due periodi contrastanti anche nel loro significato: "il flusso dei venti" suggerisce sensazioni piacevoli, di morbidezza, armonia, movimento, dà sicurezza perchè può essere studiato, compreso, sperimentato, circoscritto. Il "flusso dei venti" fa pensare alla vita e a chi l'ha generata, al padre e alla madre, agli affetti familiari. Gli "aghi" suggeriscono invece una sensazione di morte: bucano, feriscono. Questi aghi sono ovunque, quasi a segnare un destino ineluttabile che annienta tutta la piacevolezza del flusso dei venti.
Così, nella successiva composizione, intitolata "Polvere", si legge:
Madama Eternit sorseggia un caffè in cucina
mio padre che fuma e indurisce ancora
come grezza materia estrattiva
mia madre la scava coi denti
lo respira.
Anche qui c'è uno spiazzante contrasto: nel calore di un ambiente familiare, nella quotidianità, si insinua la "femme fatale" che annienta le persone più care con la stessa noncuranza e leggerezza con cui sorseggia un caffè.

giovedì 21 agosto 2014

Il racconto del giovedì - Saki, La finestra aperta

Saki
«Mia zia scenderà subito, signor Nuttel» disse una signorina di quindici anni molto sicura di sé. «Nel frattempo temo che dovrete accontentarvi della mia compagnia.»
Framton Nuttel si sforzò di dire l’esatto qualcosa che lusingasse la nipote del momento senza trascurare indebitamente la zia che stava per arrivare. Detto fra noi dubitava più che mai che queste visite ufficiali a una sequela di perfetti sconosciuti potesse giovare assai alla cura per i nervi alla quale si riteneva che si sottoponesse.
«So come andranno le cose» aveva detto la sorella mentre si preparava a emigrare verso il suo ritiro rurale; «ti seppellirai laggiù e non rivolgerai la parola ad anima viva, e rimuginare nuocerà ancor più ai tuoi nervi. Ti darò lettere di presentazione per tutte le persone che conosco. Alcune di loro, a quanto ricordo, erano assolutamente incantevoli.»
Framton si chiedeva se la signora Sappleton, la signora alla quale si accingeva a consegnare una delle lettere di presentazione, rientrasse nella categoria incantevole.
«Conoscete molta gente qui attorno?» chiese la nipote, quando giudicò che avessero comunicato a sufficienza silenziosamente.
«Non conosco quasi un’anima» disse Framton. «Mia sorella è stata qui, al rettorato, sapete, qualche anno fa, e mi ha dato lettere di presentazione per alcune persone.»
Fece quest’ultima dichiarazione in tono di palese rimpianto.
«In tal caso non sapete niente di mia zia?» proseguì la signorina sicura di sé.
«Solo il suo nome e indirizzo» confessò il visitatore. Si chiedeva se la signora Sappleton fosse vedova o maritata. Qualcosa di indefinibile nella stanza sembrava suggerire una presenza maschile.
«La tragedia avvenne proprio tre anni fa,» disse la fanciulla; «dopo l’epoca di vostra sorella probabilmente.»
«Tragedia?» chiese Framton; gli sembrava che in questo tranquillo posticino di campagna le tragedie fossero fuori luogo.
«Vi chiederete forse perché teniamo aperta quella finestra in un pomeriggio di ottobre» disse la nipote, accennando a una grande porta finestra che si apriva su un prato.
«Fa piuttosto caldo per questa stagione» disse Framton; «ma la finestra ha qualcosa a che fare con la tragedia?»
«Da quella finestra, esattamente tre anni or sono, suo marito e i suoi due fratelli minori uscirono per andare a caccia. Non sono mai tornati. Attraversando la brughiera diretti al loro posto preferito per la caccia ai beccaccini furono inghiottiti tutti e tre da una frana improvvisa. Era stata quella terribile estate piovosa, sapete, e posti una volta sicuri cedevano di colpo senza preavviso. I loro corpi non furono mai trovati; questa fu la cosa più terribile.» A questo punto la voce della fanciulla perse la sua nota di sicurezza per farsi umana e tremante. «La povera zia continua a pensare che un giorno faranno ritorno, loro e il piccolo spaniel marrone che li accompagnava, e che entreranno dalla finestra come erano soliti fare sempre. Questo è il motivo per cui la finestra resta aperta ogni sera fino a dopo il crepuscolo. Povera cara zia, mi ha raccontato spesso come siano usciti, il marito con l’impermeabile bianco sul braccio, e Ronnie, il suo fratello minore, cantando “Bertie, perché salti?” come faceva sempre per stuzzicarla, perché sapeva che la irritava. Qualche volta, sapete, in serate immobili e silenziose come questa, provo quasi la sensazione raccapricciante che entreranno tutti da quella finestra ...»

domenica 17 agosto 2014

Il racconto della domenica - Ambrose Bierce, L'impiccato

Ambrose Bierce
Un uomo era in piedi su un ponte ferroviario nel nord dell’Alabama, e guardava l’acqua che correva veloce sei metri più in basso. Aveva le mani dietro la schiena, i polsi legati con una corda. Una fune gli stringeva il collo. Era attaccata a una solida trave sopra alla sua testa, mentre la parte allentata gli scendeva fino alle ginocchia. Alcune assi posate sulle traversine che sostenevano i binari della ferrovia fornivano un punto d’appoggio a lui e ai suoi carnefici: due soldati semplici dell’esercito federale, comandati da un sergente che da civile avrebbe potuto fare il vicesceriffo. A breve distanza, sulla stessa piattaforma provvisoria, c’era un ufficiale armato con addosso l’uniforme propria del suo rango. Era un capitano. A ogni estremità del ponte era stata collocata una sentinella con il fucile in posizione di tiro, cioè in verticale davanti alla spalla sinistra, con il cane appoggiato sull’avambraccio perpendicolare al torace – posizione assai innaturale e formale, che imponeva una postura eretta del corpo. Sembrava che a questi due uomini non spettasse di sapere cosa stava accadendo al centro del ponte; si limitavano a bloccare l’accesso alle due estremità dell’assito che l’attraversava.
Non si vedeva nessuno al di là di una delle sentinelle; la ferrovia s’inoltrava per un centinaio di metri nella foresta, poi, dopo aver descritto una curva, si perdeva di vista. Senza dubbio, doveva esserci un avamposto più avanti. Sulla riva opposta del fiume si estendeva una radura: un lieve pendio sormontato da una staccionata di tronchi d’albero verticali, munita di feritoie per i fucili, con un’unica cannoniera dalla quale sporgeva la volata di un cannone d’ottone puntata verso il ponte. Sul pendio, a metà strada tra il ponte e il fortino, c’erano gli spettatori: una compagnia di fanti schierati a riposo, con il calcio del fucile posato a terra, la canna leggermente inclinata all’indietro contro la spalla destra e le mani incrociate sulla cassa. A destra dello schieramento stava un tenente, con la punta della spada che toccava terra e la mano sinistra appoggiata sulla destra. Fatta eccezione per i quattro uomini al centro del ponte, non si muoveva nessuno. La compagnia era girata verso il ponte, con lo sguardo impietrito e immobile. Le sentinelle rivolte verso la riva del fiume avrebbero potuto essere statue che adornavano il ponte. Il capitano stava a braccia conserte, in silenzio, e osservava l’opera dei suoi subordinati, senza fare alcun cenno. La morte è un dignitario che quando arriva dopo essere stato annunciato deve essere ricevuto con manifestazioni formali di ossequio, perfino da quelli che lo conoscono meglio. Nel codice dell’etichetta militare, il silenzio e l’immobilità sono forme di rispetto.
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