giovedì 14 marzo 2013
Caro Morselli, caro Calvino
Italo Calvino scrive a Guido Morselli spiegandogli perché ha deciso di non pubblicare Il comunista. Morselli gli risponde.
Torino, 5 ottobre 1965
Caro Morselli,
finalmente ho letto il Suo romanzo. So d'aver tardato oltremisura e che non c'è nulla che spazientisca un autore quanto queste lunghe attese: ma la lettura dei manoscritti è un lavoro supplettivo per cui devo rubare del tempo al lavoro e alle altre letture che riempiono - ahimè senza margine - le mie giornate feriali e festive, inverno ed estate. Ed è anche un lavoro - devo dirglielo subito -che, quando si tratta di romanzi politici,
faccio senza nessuna speranza. La politica continua a interessarmi, e così la letteratura (con tutto ciò che questo nome implica) ma dal romanzo politico non mi aspetto nulla, né in un campo d'interessi né nell'altro. Credo cioè che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo.
Le ho detto questo prima, come avrei potuto dirglielo prima di leggere il Suo romanzo: insomma è chiaro che gran parte del mio giudizio è basato su questo apriori.
Cominciando a leggerLa ho però provato interesse. Il Suo libro si presenta gremito di fatti, di dati, di documentazione d'una vita reale, ed è questa parte non-romanzesca, questo materiale accumulato dentro, che mi faceva appunto rimpiangere che Lei non avesse scritto, che so?, una divagazione sul movimento operaio emiliano, raccogliendo e commentando memorie dirette e indirette, o una biografia, o un libro di ricordi e pensieri. Macché "divagazione"!
Andando avanti ho distinto vari filoni nel materiale che Lei organizza, su cui ho da dare un giudizio diverso: il retroterra anarchico-emiliano, l'autodidattismo marxista, tutta la figura di Terranini, c'è, persuade; la discussione ideologica che percorre tutto il libro, resta una discussione in margine ai testi, sovrapposta al romanzo, lì è Lei che parla, chiosando libri; la vita vissuta c'entra fino a un certo punto; la biografia americana di Terranini, anch'essa minuziosissima, e tutto sommato persuasiva, sa però di documentazione indiretta, resta fredda, come se Lei avesse utilizzato le memorie di qualcuno; quest'impressione è accentuata dall'italiano che Lei usa quando parla dell'America, tutto voci prese di peso dall'inglese (pneumonia per polmonite; libraria pubblica per biblioteca; udienza per pubblico). Niente di male; sarebbe sgradevole se
facesse l'opposto, se italianizzasse troppo; ma direi che ci vorrebbe più consapevolezza dell'operazione linguistica che sta facendo; dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista; lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo "inventare". Qui è la grande delusione a cui necessariamente va incontro il "genere" che Lei ha scelto, il romanzo di rappresentazione quasi fotografica d'ambienti diversi, il romanzo storico-privato.
L'unica via possibile è l'autobiografia, o comunque la riflessione in cui sia ben chiaro chi è il soggetto e qual'è il suo rapporto coll'oggetto che tratta; inventare - se non si tratta d'invenzione pura, cioè sempre d'autobiografia - è impossibile; quel che riguarda Montecitorio, e la vita del povero deputato di provincia, è però più persuasivo.
Conosco abbastanza anche quel mondo (dei deputati comunisti più umili e provinciali, senza nessun contatto con le grandi vedette della vita parlamentare e culturale del Partito) e - sebbene non abbia trovato nel Suo romanzo quel tanto di inconfondibile che fa "riconoscere" un ambiente a colpo sicuro - però non vi ho trovato le stonature che saltano all'occhio quando Lei rappresenta i rapporti più propriamente di Partito;
tutta la parte amorosa, le donne, specialmente Nuccia, non convincono; Nancy è solo un manichino ideologico tutto-fare.
La sua preoccupazione era altro, non la storia privata del protagonista, messa lì solo per far "romanzo"; vede a cosa porta il "genere"?; dell'America di oggi non ho una conoscenza altrettanto approfondita (ci sono vissuto solo sei mesi), ma posso solo dirLe che la procedura per avere un visto è molto molto più complicata e lenta, ed esclude tassativamente i comunisti, a meno di rare occasioni ufficiali. E che le probabilità di trovare un dottor Newcomer (cioè uno che abbia dimestichezza con la dialettica hegeliana) sono talmente poche da poter definire quei discorsi come inverosimili.
So che Lei s'aspettava da me non una perizia di verosimiglianza, ma un giudizio sulla favola e sui contenuti che mette in gioco. Ebbene il tema centrale è un tema che sento anch'io, e quasi nei Suoi stessi termini. Ma la favola lo serve male; la crisi di Terranini viene fuori bene fin che ha un ritmo lento, appena affiorante alla coscienza; ma quando precipita si disfa, non ha più evidenza nemmeno ideologica. E tutto il viaggio in America è forzato, con lo sciopero, l'ex moglie diventata di sinistra... Era un romanzo che puntava sulla credibilità, sulla riconoscibilità delle situazioni e dei personaggi; quando questa fiducia in quel che Lei racconta è perduta, l'incanto è rotto. Per questo ho usato la verità documentaria come metro del mio giudizio (criterio critico ormai insolito, ma che nel suo caso s'impone).
Come vede il libro ho cercato di leggerlo in tutte le sue dimensioni, e mi sono accanito a smontarlo e rimontarlo: insomma ci ho preso gusto e mi ci sono arrabbiato, non rimpiango il tempo (un viaggio a Milano in treno, andata e ritorno) che ho impiegato a leggerlo, posso dire che mi ha mosso pensieri e ci ho imparato.
Spero che Lei non s'arrabbi per il mio giudizio. Si scrive per questo e solo per questo: non per piacere, o stupire, o "aver successo".
Un cordiale saluto
Suo Italo Calvino
9 Ottobre 65
Caro Calvino,
La ringrazio della Sua lettera. - Il "successo" c'è e non speravo di averne tanto: in veste, magari involontaria, di critico Lei mi dedica una lunga, articolata recensione, in cui è implicita una premessa per il povero "Comunista". Il quale si presta alle Sue critiche, si capisce, ma so che Lei non concederebbe l'imprimatur a un lavoro che non stimolasse e non provocasse. Lei editore non ammetterebbe un libro "pacifico" sul quale tutti fossero destinati a trovarsi acriticamente d'accordo, sia pure in senso elogiativo. Lo considererebbe insignificante.
Mi pare logico. Poche settimane fa ho letto in un giornale un giudizio severo su un romanzo einaudiano (di un autore nuovo), un romanzo con qualche probabilità fatto pubblicare da Lei. Ora Lei non si dimette per questo da direttore letterario della Sua Casa. Quelle critiche Lei (e comunque, chi ha dato il "via" editoriale) le ha anticipate, penso, e in ogni caso ne prendo atto senza pentirmi di aver fatto pubblicare il libro; questo evidentemente meritava, lo stesso, di essere fatto conoscere. Quanto a me, aggiungo che se nella Sua lettera avesse parlato l'editore, avrei controbattuto, ma una recensione si accoglie e si gradisce, anche se è rigorosa. Perciò quanto dico ora, lo dico in tesi generale.
Quell' "apriori" che Calvino fieramente premette, "il romanzo è organicamente falso", Calvino autore di opere che sono narrativa e senz'altro romanzo e lo mettono fra i 10 e 15 italiani del dopoguerra di cui si parlerà nei manuali di lettere del 2000, - quell'apriori anti-romanzo è condiviso da parecchi, e è respinto da parecchi altri, non solo "produttori" come, poniamo, Moravia o la Ginzburg, ma studiosi; da Lukàcs a Jean Bloch-Michel. La spiegazione sta forse nel fatto che il romanzo è un "universale oggi, all'esterno del quale manca oramai un genus proximum, mentre dentro di sé include "generi" in numero imprecisato - e reciprocamente incomparabili come potevano essere all'epoca del classicismo francese l'idillio e la tragedia e La Bruyère, ecc. Questo spiega anche la coesistenza e l'azione efficace di "poetiche" così opposte, che sembrerebbero doversi escludere a vicenda, e cioè che possano trovare udienza e seguito i "joyciani" e i nuovi esaltatori di Zola, che riescano altrettanto attendibili i più recenti sperimentalisti per es. i teorici del nouveau roman francesi, e un Lukàcs codificatore del realismo (socialista e no), quanti ammettono al massimo il romanzosaggio e quelli che lo vogliono invece effusione lirica, confessione; ecc. È facile che questa brava gente abbiano tutti ragione, parzialmente, unilateralmente; il torto degli uni e degli altri, Lei sa, è di assolutizzare, di negare validità alle opere che escano dagli schemi (e "generi", piuttosto) da ciascuno preferiti.
Mi sono avvicinato al punto che, provvisoriamente, ci interessa. Tutto, Lei sa, dipende dagli scopi che uno scrivendo si propone e dai mezzi che a quegli scopi si adattano. Chi ha molte cose da dire, cose di una certa categoria, gli conviene (per parlare un po' all'ingrosso) l'oggettività e la costruzione; e una volta adottato questo metodo, che adoperi la prima persona e la terza "storica", che autobiografizzi e si trinceri dietro un fittizio distacco saggistico, alla resa ultima il suo andamento narrativo non può essere molto diverso.
Tendenziosità. Ammetto che ci sono in certi racconti incontri, coincidenze, situazioni, che al futuro lettore disabituato alla narrativa oggettiva e "costruita" sembreranno tendenziosi e artificiosi, ma qui osservava Lukàcs, e Lei, Calvino, lo sa quanto me, che questo "arbitrio" è legittimo e persino doveroso quando serve all'espressione di un conflitto: beninteso, bisogna che non sia meccanico, che abbia una giustificazione nella personalità delle figure introdotte, che contribuisca davvero a fare di esse uomini (e non immobili portapanni ideologici), ecc. ecc. Mi permetta adesso di venire a "Il Comunista": Newcomer, lo sciopero nell'East che liquida o demistifica l' "efficiency", il colloquio con lo spagnolo ubriaco, sono tendenziosi, sì. Ma hanno una funzione nella crisi di Terranini?
Lei mi parla del Suo disagio nel dover fare della "critica documentaria" a proposito del "Comunista". La capisco. Mi limito a dire questo, che chi si occupa di narrativa dovrà sempre, presumibilmente, tener conto anche di questo parametro critico. Un critico musicale d'oggi non può del tutto ignorare che accanto ai dodecafonici, ecc., la musica include sempre un Malipiero e un Menotti - che gli pongono problemi non più (diciamo) di armonizzazione ma anche di orchestrazione. Su questo punto - se dovessi dire oggettivamente il mio parere sulla Sua "recensione", direi che è vero, il "Comunista" può dar luogo a discussioni, vivaci e lunghe. Il Partito, i suoi esponenti, i suoi organi, periferici e non periferici, sono bene descritti in questa tipologia così rapida, unilaterale? L'argomento era inesauribile, Lei ha ragione; da poterne discutere all'infinito. Finirei per concludere così: che nel "Comunista" è veduto un ambiente e soprattutto un "tempo" (il '58: già lontano da noi) di un organismo che - in Italia! - è soggetto a frammentazioni (anche geografiche) e a evoluzioni frequenti e non di superficie. Non pretendo di dare un giudizio storicizzante, e nemmeno, nemmeno, un ritratto esauriente. La sua rappresentazione poggia su un personaggio che è, e del resto sa di essere, molto inadeguato a incarnare le ragioni e i caratteri della localizzazione italiana (sia pure) di un movimento politico e dottrinale di portata universale (Avrà
notato che il Partito è visto "di traverso", direbbe Auerbach, sempre cogli occhi e nella prospettiva passionale, anarchico-autodidattica, del Terranini. Neppure in una riga l'autore lascia apparire un giudizio di altri, o il proprio).
Ma queste sono osservazioni di margine; quel che conta ora è che Lei mi scriva che alla lettura "ci ha preso gusto e ci si è arrabbiato", che la figura centrale, o unica, del libro "c'è e persuade" (sono le Sue parole) e che il libro "è gremito di fatti e di cose". Di più, io sinceramente non avrei potuto chiedere per il mio lavoro. Se uscirà, ho una mezza idea che si meriterà altri éreintements, e magari solo éreintements e stroncature, il che farà molto onore all'editore e persino troppo all'autore. Ma sarei felice se i critici che lo attaccheranno sapessero arrivare alle stesse conclusioni di fondo cui è arrivato Lei, e che lo maltrattassero col gusto e la passione che ci ha messo Lei. La ringrazio dunque ancora, e La prego: quando ritorna a Milano me lo faccia sapere, verrò a salutarla e per me sarà incontrare un amico.
Per non essere, a Lei, del tutto uno sconosciuto: sono emiliano, autodidatta, vivo solo su un piccolo pezzo di terra dove faccio un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne.
Mi creda
Guido Morselli
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Grazie a Monteverdelegge che ci ha regalato questa interessantissima (e perfino un po' struggente) corrispondenza tra due grandi (e assai diversi) scrittori
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