giovedì 28 marzo 2013

mvl Cinema, "Il figlio dell'altra"

Patrizia Vincenzoni
Il figlio dell'altra della regista ebrea-francese Lorraine Levy  è un film che si occupa del conflitto israelo-palestinese da una angolatura minimalista rispetto all'enormità dello stesso, taglio questo che permette alla narrazione  di affrontare alcune problematiche socio-politiche e di indicare, attraverso le difficili esperienze reali e quotidiane dei singoli, possibili risoluzioni. Grazie all'equilibrio della scrittura e dello sguardo della regista, lo spettatore è aiutato a distanziarsi, a non prendere posizione a favore di un contesto umano e politico piuttosto che dell'altro.
Lo scambio di neonati che avviene nella concitazione determinata da un'incursione aerea, è l'errore possibile nell'emergenza del momento, ma si può anche leggere come ricerca di una possibile trasformazione in opportunità di un evento drammatico che riguarda l' espropriazione di se stessi e delle proprie funzioni generative riassunte dal nascente. Il film racconta con grazia, senza mai scivolare nella retorica, il vuoto di senso e di identità che si apre nelle due famiglie e  nei due ragazzi, oggetto dello scambio, quando vengono a conoscenza del fatto in occasione della chiamata alle armi del ragazzo cresciuto nella famiglia ebrea. Le  due madri, i cui sguardi profondi ci comunicano con intensità dolorosa  il ritrovamento del figlio biologico e nello stesso tempo la possibile perdita dell'altro che si è  cresciuto come proprio, ci conducono nel percorso di accoglienza e trasformazione del dolore, anche di quello  afono e tenace degli uomini, dei padri, che vedono nel possibile ricongiungimento un  precipitare delle esili certezze, dei  luoghi comuni che hanno come sempre la funzione di produrre incomprensione e separatezza.
Tutto è contenuto e reso negoziabile dalla sapiente pazienza femminile, affettiva e ancestrale, che fa posto all'altro, femminile colto nella sua funzione di accogliere e dare spazio attraverso un processo di ri-conoscimento che permea le vite dei due ragazzi, ripresi nel ciclo adolescenziale che, a sua volta, ripropone possibili uscite da incertezze  identitarie. Adolescenza che si fa segno della difficoltà ad assumere se stessi abbandonando il terreno comodo e rassicurante della famiglia-patria, ridotta soprattutto quest'ultima a territorio confinato e confinante, stremata dall'ingombro e dall'usura culturale  che certe vestigia moderne provocano: muro, filo spinato, checkpoint - scenografie che presiedono al mantenimento-confinamento delle libertà personali e di quelle dei popoli. 
La violenza di questi 'arredi' urbani,il cui degrado è' rintracciabile nella loro reale funzione di diventare parte integrante dello scenario naturale e quindi quasi non più 'visibile nella loro virulenza alienante, è l'altro interprete, silente, del film, la cui forza evocativa però  percorre ogni immagine,anche quando esse non fanno parte della inquadratura. Invalicabilità dunque, non solo fisica ma anche psicologica: una delle immagini più evocative del film e' quella che vede il colonnello israeliano superare tali blocchi e camminare lungo il muro, "attraversarlo" per andare incontro non solo  al figlio che considera suo anche se di madre non ebrea, ma anche per affrontare le paure e le angosce  che "l'altra parte" gli rappresentano.
I due padri vengono gradualmente osservati nei loro iniziali atteggiamenti di evitamento e fuga, compresi come sono nei loro ruoli irrigiditi ancor più dalla tragedia personale e transpersonale, uomini  feriti dalla guerra, in modo diverso, ferita che si  potrà rimarginare nel momento in cui rinunziano al bisogno di dover mantenere in vita l'idea dell'altro come nemico irriducibile. I giovani adolescenti, però, riescono a costruire un dialogo  ispirandosi al reciproco bisogno di mantenersi liberi negli affetti, i quali non possono rispondere a logiche religiose che impongono direttive in tal senso, riuscendo a essere e a sentirsi figli e cittadini di entrambi i contesti familiari e sociali. Allora, il canto  in lingua araba del ragazzo cresciuto in Israele che si leva durante il pranzo con i genitori biologici, è una voce innata  che sgorga dalle radici del proprio essere, senza appoggiarsi a ingannevoli bandiere identitarie che annullano l'abitabilità' dei contesti nei quali si vive, facendo  parte anch'essi di un DNA che specifica un'appartenenza non solo biologica, ma umana nella sua complessità  e completezza.

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