Della poesia Medusa di Sylvia Plath esistono in italiano due traduzioni: una di Giovanni Giudici (che si può leggere qui), l'altra di Anna Ravano, all'interno del volume dei Meridiani (Mondadori, 2002) dedicato alla poetessa americana. Nell'ultimo incontro del laboratorio di poesia, ne abbiamo proposto una nuova versione. Eccola:
Al largo di quella lingua di pietre tappabocca
Occhi sospinti da bastoni bianchi
Orecchie a coppa per le incoerenze del mare
Ospiti la tua testa inquietante – pupilla divina
Lente di grazia,
I tuoi scherani
Agitano le cellule impazzite all'ombra della mia chiglia,
Si fanno largo come cuori
Stigmate rosse dritto in centro,
Cavalcano l'onda di ritorno al punto più vicino di partenza.
Trascinano la loro chioma nazarena.
L'ho scampata? Mi chiedo.
La mia mente ti si avviluppa,
Vecchio cordone appiccicoso, cavo atlantico,
Che si mantiene, pare, miracolosamente in forma.
In ogni caso, tu sei sempre lì,
Respiro tremulo all'altro capo della mia linea.
Curva d'acqua sprizzante
Al tocco della mia verga, abbagliante e grata,
Che tocca e succhia.
Non ti ho chiamato
Non ti ho chiamato affatto.
Ciò nonostante, ciò nonostante
Hai traversato il mare fino a me
Grassa e rossa, una placenta
Che paralizza lo scalciare degli amanti.
Luce di cobra
Spremi il respiro alle campane di sangue
Della fucsia. Non respiravo,
Morta e senza soldi.
Sovraesposta, come un raggio X.
Ma chi credi di essere?
Un'ostia da far messa? Una madonna gonfia di pianto?
Non prenderò un boccone dal tuo corpo,
Bottiglia nella quale vivo,
Vaticano spettrale.
Mi nausea da morire il sale caldo.
Come eunuchi verdi i tuoi desideri
Sibilano ai miei peccati.
Alla larga, tentacolo anguilloso!
Non c'è niente tra noi.
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