In questo romanzo della scrittrice israeliana Gundar-Goshen nessuno è quello che sembra: Eitan, all’apparenza medico integerrimo - mandato “in punizione” nella polverosa cittadina di Beer Sheva nel deserto del Negev per aver minacciato di rendere pubblica la corruzione del suo capo e mentore - non esita a fuggire quando investe ed uccide un uomo con la sua jeep; Sirkit, la vedova dell’ucciso e come lui immigrata clandestina eritrea, non esita a sfruttare a proprio vantaggio la morte del marito violento, s’impossessa del pacco con la droga che lui doveva consegnare e quindi ricatta il medico, costringendolo a curare i profughi illegali, e si fa anche pagare dai malati per le cure prestate a titolo gratuito da Eitan.
Neanche la moglie del medico, Liat, è come sembra: poliziotta dotata di un forte senso della giustizia, ha però convinto il marito a tacere sulla corruzione nel suo reparto ospedaliero, e nel momento di crisi del loro rapporto di coppia non si fa scrupolo di pedinare il marito o telefonare al suo posto di lavoro anziché cercare le risposte o la confessione attraverso il dialogo.
Agli eventi che via via si dipanano e si sciolgono, con una narrazione anche a ritroso e che a volte si tinge dei colori del thriller, fa da sfondo il contesto sociale, che si allarga a cerchi concentrici nel tempo e nello spazio intorno ai protagonisti – ceti medi ebrei, beduini del deserto, forze dell’ordine, personale medico, coloni dei kibbutz, emarginati provenienti dall’Africa ecc. - così che questa storia di paure, sensi di colpa e responsabilità non narra più solo una vicenda personale, ma diventa emblematica della condizione dello stato d’Israele, lacerato da contraddizioni evidenti. Nel romanzo trovano spazio molteplici temi: il razzismo, unito al disprezzo all'odio e al rifiuto dell’accoglienza, l’immigrazione, la discriminazione sociale, la delinquenza unita alla corruzione, la povertà e l'ingiustizia; non sempre, però, tutto questo materiale argomentativo risulta coerente con la narrazione e in più punti la appesantisce.
L’episodio che apre il racconto ed innesca la miccia – che cosa faresti se investissi e uccidessi un uomo con la tua auto? – “risveglia i leoni” del titolo: cioè quanto di più intimo, segreto, nascosto e taciuto c’è in ognuno: in Eitan, (“Per tutta la notte, dentro di lui hanno ruggito i leoni”) e in Liat (“la nuova poliziotta con gli occhi da leonessa” che però ha paura a guardarsi troppo allo specchio, perché “lo sa che se si fissa abbastanza a lungo, tutto diventa strano. Perfino la tua faccia nello specchio.”).
I leoni risvegliano anche le voci del passato. Una volta squarciato il velo dell’ipocrisia, Liat si chiede chi veramente è lei, chi veramente è lui, chi sono come coppia, oltre i gesti quotidiani e rassicuranti: “Due vivono nella stessa casa. Dormono vicini. Scopano. Si fanno la doccia uno dopo l’altro. Cucinano, mangiano, mettono a letto i figli, si passano il telecomando, il sale, il rotolo della carta igienica. E invece no: Non vivono insieme. Nemmeno in parallelo. Per tutto quel tempo avevano vissuto separati, e lei non lo sapeva.”.
E anche Eitan si rende conto di scappare non solo dall’altro che ha ucciso, ma dai suoi stessi fantasmi: “Una notte ha investito un uomo sul ciglio della strada e da allora scappa. Scappa dall’eritreo sul ciglio della strada e incontra un’eritrea sulla porta di casa. Perché scappando s’incontra quello da cui si scappa. Incontra Eitan Green, l’orfano, il rabbioso, il prepotente.”: Allora forse tutto quello che è successo ha un senso, e l’azione di scappare non è puramente casuale.
Ma alla fine le conseguenze di quello che in alcuni momenti sembra un gioco al massacro saranno nient’altro che un lieve smottamento, poi la polvere tornerà a coprire ogni cosa e la realtà si ricomporrà uguale a prima, lì dove il velo si era squarciato. E così si conclude il romanzo: ”Un uomo si alza al mattino, esce di casa e scopre che il mondo ha ricominciato a girare nel senso giusto. Dice a sua moglie ci vediamo stasera, e quella sera si vedono. Al negozio dice arrivederci, e sa che tornerà domani, e che i pomodori, anche se il prezzo aumentasse esponenzialmente, resteranno sempre accessibili. Che bello il mondo quando gira nel senso giusto. Dimenticarsi che sia mai esistito un altro senso. Che un altro senso è possibile.”.
L’amara conclusione del romanzo è quindi nella tacita acquiescenza verso le proprie colpe e responsabilità, cui fa da contrappunto l’ipocrisia della società israeliana. In questa prospettiva non trova spazio la conciliazione con l’altro inteso come il diverso, rappresentato per Eitan dalla profuga clandestina Sirkit, seppure intravista in qualche momento narrativo particolarmente intenso. I due passano le notti fianco a fianco, a riparare corpi devastati, ma distanza fra loro è incolmabile. Lei: “Non ha alcuna intenzione, né alcuna possibilità, di indovinare i sogni di un uomo bianco disteso fra bianche lenzuola di cotone nella villetta imbiancata di un quartiere elegante”. Lui: “Per quanto leggesse e si sforzasse di capire, nemmeno se fosse salito su un aereo e avesse visitato il suo paese l’avrebbe mai capita. Sirkit era l’incognita in un’equazione che lui non sapeva risolvere. La realtà sfuggiva fra le maglie delle informazioni nel computer.”.
L’episodio che sancisce tale frattura irreparabile è la visita di Eitan a Sirkit nel centro reclusione profughi in cui lei è reclusa: “Due persone immobili, una di fronte all’altro, non hanno niente di più da dire”.
Lei rimane lì, ferma, a fissare le facce dei secondini, perché cerca ”quella scintilla oscura” negli occhi di uno di loro con cui fare sesso, “un corpo pesante disteso addosso, una faccia brufolosa che si contorce nell’orgasmo, per poter pronunciare l’unica parola che l’avrebbe tirata fuori: stupro”; “Sarebbe seguito un processo, e alla fine non avrebbero osato mandarla via.”.
Lui è venuto fin lì a dirle addio, “per chiudere quella fosca storia che gli aveva rubato la pace e minacciato la famiglia, persino la vita. Per quanto la fosca storia l’abbia tormentato, l’aveva anche affascinato, sedotto, aveva rimestato nelle profondità dell’animo, come sempre fanno le storie fosche. Ma adesso basta. Le storie devono finire.”. A lui l’attende la sua vita “tranquilla e sicura”, “nella villetta imbiancata di un quartiere elegante” in un presente eterno immobile senza tempo. Rassicurante.
Un episodio in apparenza secondario spiega il senso critico dell’operazione che compie Ayelet Gundar-Goshen nel mettere a nudo le fondamenta etiche della società israeliana: tornando a casa dopo la prima notte trascorsa a curare i feriti clandestini, Eitan ricorda all’improvviso il viaggio al campo di concentramento di Auschwitz con la scuola. Durante la visita un compagno aveva interrotto la guida chiedendo: “Ma perché non cercavano di scappare?”. Alla risposta che la fuga sarebbe stata impossibile, aveva insistito: “C’erano più prigionieri che guardie. E comunque non avevano nulla da perdere”. “La guida cominciava a perdere la pazienza. Aveva risposto che chi non aveva conosciuto una paura come quella non può giudicare. Che non cominciassero con la storia delle pecore al macello.”
Eitan, quindi, associa la mancanza di ribellione degli ebrei di allora a quella attuale degli eritrei migranti di fronte all’oppressione degli israeliani.
Ma a che cosa si riferisce la storia delle pecore al macello? Al “mito fondativo” dello Stato di Israele: all’atteggiamento di accettazione passiva della deportazione e dello sterminio da parte di molti ebrei europei si oppone quello dei pochi che dettero vita a episodi di ribellione, come la rivolta nel ghetto di Varsavia.
Cito dal sito di Cronache letterarie*:
“Qui chiamo in causa, non un romanziere ma un politico israeliano, figlio di due fondatori dello Stato israeliano: Avraham Burg. Per anni membro del Knesset, figlio del fondatore del partito religioso nazionale, il Mafdal, Avraham Burg ha scritto un libro pubblicato nel 2007 (in Italia nel 2008 per Neri Pozza) dal titolo Sconfiggere Hitler. Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico.
L’uscita di questo libro ha suscitato dolore e polemiche, tanto che Burg è stato accusato di essere un antisionista. Questo perché in maniera diretta e alla luce della memoria dei suoi genitori, dimostra come lo Stato di Israele abbia perduto lo spirito universalistico e culturale dei padri fondatori. Dice apertamente che l’Israele di oggi è uno stato militare, basato sulla forza e razzista. Razzista anche nei confronti di quegli ebrei che sopravvissero ai campi di sterminio al punto che molti furono costretti ad andare via persino da Israele, la terra in cui pensavano di aver trovato pace e protezione. La loro colpa era di essersi lasciati deportare e sterminare come pecore al macello. Di non essersi ribellati. Ecco il nesso col romanzo di Ayelet Gundar-Goshen.
Avraham Burg racconta nel suo libro come scoprì l’amara verità e cioè che il modello cui si ispirava e si ispira lo Stato di Israele non è quello delle pecore al macello, ma di quei pochi che tentarono la rivolta nel ghetto di Varsavia.”.
Un’altra riflessione sul romanzo riguarda ancora il punto di vista dell’autrice, che risulta unilaterale, solo israeliano, mentre la realtà è molto complessa: nel romanzo i beduini sono tutti delinquenti, l’eritrea Sirkit si definisce solo nella relazione con Eitan: bella, sensuale e misteriosa, se non addirittura infida, è l’oggetto delle sue fantasie erotiche sotto la doccia. Anche nella descrizione fisica (alta, un bel culo, “pelle morbida come il velluto”, capelli corvini e occhi neri … nonostante graffi, costole e denti rotti dopo il pestaggio subìto!) incarna il mito dell’esotismo europeo che Edward Said ha così ben descritto con la definizione di “orientalismo”.
Del tutto assente, infine, è la presenza dei palestinesi in quest’affresco della società civile dove invece vivono negli stessi spazi (l’idraulico, l’operaio, il meccanico, l’autista, il cameriere e in genere chi svolge lavori umili è arabo), come sa chiunque abbia visitato questa terra di conflitti, dove ormai secondo gli analisti internazionali vige un regime di apartheid come quello esistente in Sudafrica fino al 1994, cioè un regime che attua politiche di segregazione sistematica su base etnica. **
** A tale proposito, cito dall’“Avvenire” del 10 gennaio 2019 :
“Il sito di Haaretz parla di “strada dell’apartheid”. E’ la strada 4370, che molto sta facendo discutere in Israele. A nord-est di Gerusalemme, in Cisgiordania, è stata aperta al traffico automobilistico un’arteria di quattro chilometri nella quale i veicoli palestinesi sono separati da quelli israeliani da un muro alto otto metri. In Cisgiordania, sottolinea il quotidiano, esistono già altre arterie riservate esclusivamente al traffico palestinese, o a quello israeliano. Ma in questo caso, viene evidenziato, la suddivisione avviene mediante un muro che corre lungo il suo intero percorso.
La arteria 4370 passa nelle vicinanze della città-colonia di Maale Adumim, situata fra Gerusalemme e Gerico. Essa faciliterà l'ingresso a Gerusalemme per gli israeliani che abitano negli insediamenti situati a sud di Ramallah. I palestinesi che volessero utilizzarla, secondo la televisione commerciale Canale 10, saranno bloccati all'ingresso dalla polizia israeliana: saranno così indirizzati sul versante occidentale della stessa arteria che sfocia in un villaggio palestinese vicino a Gerusalemme est. Il costo dell'opera, concepita secondo Israele per motivi di sicurezza, è stato di 150 milioni di shekel, circa 40 milioni di euro.”
“Il sito di Haaretz parla di “strada dell’apartheid”. E’ la strada 4370, che molto sta facendo discutere in Israele. A nord-est di Gerusalemme, in Cisgiordania, è stata aperta al traffico automobilistico un’arteria di quattro chilometri nella quale i veicoli palestinesi sono separati da quelli israeliani da un muro alto otto metri. In Cisgiordania, sottolinea il quotidiano, esistono già altre arterie riservate esclusivamente al traffico palestinese, o a quello israeliano. Ma in questo caso, viene evidenziato, la suddivisione avviene mediante un muro che corre lungo il suo intero percorso.
La arteria 4370 passa nelle vicinanze della città-colonia di Maale Adumim, situata fra Gerusalemme e Gerico. Essa faciliterà l'ingresso a Gerusalemme per gli israeliani che abitano negli insediamenti situati a sud di Ramallah. I palestinesi che volessero utilizzarla, secondo la televisione commerciale Canale 10, saranno bloccati all'ingresso dalla polizia israeliana: saranno così indirizzati sul versante occidentale della stessa arteria che sfocia in un villaggio palestinese vicino a Gerusalemme est. Il costo dell'opera, concepita secondo Israele per motivi di sicurezza, è stato di 150 milioni di shekel, circa 40 milioni di euro.”
Grazie Ornella per questo accurato commento al libro, con le cui valutazioni concordo.
RispondiEliminaIl libro affronta moltissimi temi interessanti, sia sul piano individuale dei personaggi che su quello sociale, anche se alcuni di questi,come sottolinei, (problema palestinese) rimangono in ombra. E' sicuramente stimolo per riflessioni importanti come tu hai scritto, ma risulta eccessivo sia nella commistioni di generi che nella narrazione, troppo carica di rimandi, di incisi, di andirivieni tra passato e presente, una scrittura più coerente e sintetica avrebbe giovato al romanzo.
Probabilmente è più bella la recensione del libro stesso, che comunque a me non è dispiaciuto. Personalmente ho letto "l'assenza" dei palestinesi come il tentativo di evitare un cliché (A contro B) ed evidenziare che gli israeliani hanno i loro problemi sociali e di morale a prescindere
RispondiEliminaSì, sono d'accordo, Maria. Mi torna in mente "La rabbia del vento" di S.Yizhar, a cui si sono ispirati i grandi scrittori israeliani (v. ad es. "Di fronte ai boschi" di A. B. Yehoshua, o "Il vento giallo" e "Il popolo invisibile" di D. Grossman). Questo racconto, uscito nel 1949 e pubblicato da Einaudi nel 2005, ma ora praticamente introvabile se non in biblioteca, poneva già in discussione temi quali la responsabilità del singolo, le contraddizioni politiche ed etiche della società israeliana che si andava costruendo, il rapporto fra obbedienza agli ordini e libertà di coscienza.
RispondiEliminaPiccola curiosità finale: in italiano si è scelto di non lasciare il titolo originario, "Khirbet Khiza" (che indica il nome arabo del villaggio distrutto e che significa, anche in ebraico, "la rovina di Khiza"), ma di scegliere un titolo "ad effetto" che richiama scenari dalle tinte forti- anche qui una punta di "orientalismo", come ci direbbe Edward Said?
Grazie anche ad "Anonimo"!
RispondiElimina@anomino, chi sei, sei una/o del gruppo? vuoi dircelo? :-)
RispondiEliminaLa tua lettura dell'assenza del problema della questione palestinese è interessante e plausibile, quello che l'autrice vuole mettere in risalto, data per nota la situazione attuale, è un altra forma di discriminazione, quella verso i migranti eritrei, e forse a noi, intesi come lettori non del luogo, sembra monca la sua disamina sociale.
@Ornella grazie per averci svelato il significato del titolo originario, mi ero chiesta cosa potesse significare.
Ornella,trovo la tua recensione molto accurata ed interessante. Come dicevo al gruppo di lettura,non sono riuscita ad avere il libro che non ho,dunque, a tutt’oggi letto. La tua affermazione sul punto di vista unilaterale della scrittrice mi incuriosisce e mi stimola alla lettura del libro che farò appena sarà possibile.
RispondiEliminaGrazie Patrizia, del tuo contributo. Allora...aggiorniamo la discussione!
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