venerdì 4 marzo 2016

La caverna delle mani


di G. Luca Chiovelli

Qui sopra le pitture rupestri dette della Caverna delle Mani (Cueva de Las Manos), in Patagonia (la parte che ricade nell'Argentina).
I dipinti (tali sono) datano a circa 10.000 anni fa. Alcuni sono stati ottenuti 'al negativo' ovvero spruzzando del colore (minerale) sulla mano in modo da lasciare una sagoma sulla parete. Le mani sono mani sinistre e appartengono, probabilmente, a uno o più adolescenti.
Ignoravo questa meravigliosa manifestazione dell'animo umano antico.
L'ho scoperta per caso.
Da qualche giorno sto leggendo con piacere (e una punta di disperazione) un libro di Jean Raspail, I nomadi del mare.
Il libro è fuori catalogo (logico che lo sia), così come l'altro suo grande testo distopico, Il campo dei santi (1973), in cui viene preconizzata la fine dell'Europa a causa di un'ondata migratoria inarrestabile.
I nomadi del mare è un romanzo-saggio sugli Alacaluf, un popolo nomade che oggi non esiste più, e che - come gli adolescenti della Cavernna delle Mani - abitava le terre patagoniche (cilene), protese verso i ghiacci del Polo Sud. Gli Alacaluf (il loro nome indigeno era Kaweskar, gli Uomini) si estinsero a partire da un incontro fatale: quello con le golette di Magellano (1520), in rotta per le Indie traverso la Terra del Fuoco. A contatto con le malattie fisiche e morali degli europei (l'imposizione di dei sconosciuti, l'alcolismo, il vaiolo, la repressione) la cultura paleolitica dei Kaweskar si sbriciolò lentamente.
Scrive Raspail:

"A Puerto Eden morivano gli ultimi resti dei clan Alacaluf. Non morivano di fame ... si spegnevano di disperazione, uno dopo l'altro, nella lunga notte della loro memoria. I morti non venivano sostituiti. Non mettevano più al mondo bambini perché si sapevano condannati. Erano consci che nel mondo dei vivi non c'era più posto per loro ...".

Il crollo demografico è sempre indice di decadenza, mai di progresso. Anche tale popolo, che non aveva parole per indicare la felicità e la bellezza, morì quando il proprio modo di vita, le usanze, la lingua, le comuni paure, persino le consuetudini più aspre e che rendevano l'esistenza fragile e pericolosa, vennero a mancare.
Il loro era un vivere sì pericoloso, ma dotato di senso.
Essere se stessi: ecco il cuore del problema. Essere se stessi, a dispetto di una morale altra, a costo dello scandalo, ecco la felicità. È un mio sospetto: i Kaweskar non avevano parole per la felicità e la bellezza solo perché la loro esistenza ne era già impregnata, nonostante le durezze della sopravvivenza.
Raspail rimarrà ossessionato da un'immagine terribile, risalente al 1951. Ecco un estratto dall'introduzione:

"... durante un viaggio nella Terra del Fuoco, attraversando lo Stretto di Magellano, vidi, per non più di un'ora, nel vento e sotto la neve, una delle ultime imbarcazioni degli Alacaluf. La scena era identica a quella descritta da altri viaggiatori: Byron, Bouganville, Dumont d'Urville, l'ammiraglio Barthes e ... José Emperaire. Non la dimenticherò mai. Mi ha ossessionato ... finalmente questa volta la esorcizzo dandole, spero, la sua vera dimensione, sulla misura dell'eternità in cui riposa ormai questo popolo. Questo incontro all'incrocio dei tempi è la base del mio libro: un po' di braci in mezzo alla barca per far rinascere il fuoco, due donne coperte di stracci, un bambino triste, tre rematori con uno sguardo da altro mondo ...".

In tal modo i Kaweskar ebbero un minuscolo risarcimento alla propria distruzione: il cantore del loro ultimo uomo, il poeta dell'ultima scintilla di vita di una comunità.
Non è poco.
Quanti popoli scomparsi o annientati possono vantare un loro Omero?

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