È raro imbattersi in un personaggio costruito con tanta sapienza narrativa com'è quello di Emerenc, la protagonista del romanzo che la scrittrice ungherese Magda Szabó ha tessuto intorno alla donna che per vent'anni le è stata accanto in qualità di domestica, e finalmente di amica non dichiarata, ma stabilmente inserita in una quotidianità di cui era entrata a fare parte come una presenza scomoda, diventata presto irrinunciabile. La porta che dà il titolo al romanzo (tradotto da Bruno Ventavoli per Einaudi, pp. 251, Euro 17), quella che separa il mondo di Emerenc dal resto del circondario, torna negli incubi della voce narrante a segnare il confine tra un prima e un irrimediabile poi, tra il tempo in cui l'essere esclusa, come tutti gli altri, dai segreti di Emerenc la metteva al riparo dal nuocerle, e il giorno in cui la vecchia domestica le concesse di varcare la soglia di quella che gli altri chiamavano la Città proibita, e con questo le mise in mano la chiave per distruggere la sua esistenza. Per quanto impenetrabile, Emerenc non lo era stata abbastanza: lei che non si fidava di nessuno pur godendo della fiducia di tutti. Chiunque vorrebbe avere intorno a sé una donna come Emerenc, personaggio dotato di una tempra invidiabile che da sola regge l'asse intorno a cui si annoda via via la trama di un libro lentamente costruito sul contrasto tra due visioni del mondo apparentemente inconciliabili: da una parte quella dei coniugi che hanno assunto la domestica per potersi dedicare indisturbati alla loro scrittura, e che assecondano la comune attribuzione di valore a fatti e oggetti inessenziali; dall'altra quella di Emerenc che non si concede un attimo di inoperosità, disprezza il lavoro intellettuale, proietta i suoi ragionamenti, e la possibilità di accoglierli, indifferentemente sullo straccio con cui pulisce il pavimento, sui vicini, sugli animali che guadagna al suo affetto e sui ricordi potenti delle persone amate e via via scomparse.
Le descrizioni che tornano a lei per imbozzolarla nei fili di nuovi dettagli ne parlano come di una donna imperiosa, una sorta di valchiria sul cui capo anche il fazzoletto dimesso sembra un elmo guerriero. In quanto ex portinaia è una sorta di autorità pubblica, spetta a lei decidere se la coppia che l'ha richiesta come domestica sia sufficientemente degna e quale debba essere l'ammontare del suo onorario: il valore del lavoro che dispensa è chiaro innanzi tutto a lei stessa, che perciò declina i complimenti come inutili sottolineature e non accetta mance, né regali, però si concede di elargirne senza parsimonia a chi ottiene la sua stima.
Come colei che l'ha consegnata alla storia, una scrittrice che ha oggi ottantotto anni e sui cui libri tutti gli studenti ungheresi sono cresciuti, Emerenc è un personaggio di altri tempi e esemplifica una opzione narrativa sempre meno frequentemente scelta: quella di puntellare l'impalcatura del romanzo su una sola presenza, mentre l'intreccio agisce da sfondo il cui compito principale è quello di condurre, attraverso una progressione di curvature morbide, alla messa a fuoco sempre più netta del carattere protagonista.
«È una donna che ho amato molto ma di cui avevo anche paura - racconta Magda Szabó, disinvoltamente approdata da Budapest alla bellissima sede romana dell'Accademia di Ungheria.» Si offre di parlare latino, oppure inglese o francese sebbene poi preferisca ricorrere alla traduzione dall'ungherese, è orgogliosa dei suoi successi, persino vanitosa nei suoi ottantotto anni. Nella sua lunga vita ha attraversato una successione di tappe che hanno più volte segnato la storia, non solo del suo paese: è nata mentre l'impero asburgico crollava, aveva due anni quando i Soviet di Bela Kun tentavano il loro breve esperimento rivoluzionario, poi la reazione del nazionalista Miklos Horthy si tradusse in una sistematica persecuzione degli intellettuali, Budapest venne occupata dai Rumeni, l'anno dopo con la Pace di Trianon il territorio dell'Ungheria venne ridotto di un terzo, e l'economia crollò; ma il peggio doveva arrivare e Magda Szabó sussulta non appena il discorso sfiora gli anni `50. Fa fatica persino a nominarli: quando le si chiede in quale contesto ha ambientato il suo romanzo risponde con una perifrasi: «Emerenc è morta nell'84, l'intreccio che ho raccontato si svolge nei tre decenni precedenti, il periodo più difficile della storia ungherese. Non mi feci convincere a entrare nel partito, e per questo persi il lavoro. Ero stata il punto di riferimento del ministero della cultura per quel che riguarda il cinema, mentre mio marito lo era per gli spettacoli televisivi... questo mio matrimonio è stato un miracolo, ma non poteva prolungarsi all'infinito, ho perso mio marito ventidue anni fa. Me lo aveva predetto una veggente dalla quale andai quando ero ancora una ragazzina, indovinò tutto, anche che sarei via via approdata al successo. Ci andai insieme alla mia sorellina acquisita, che mio padre raccolse alla frontiera dopo che i genitori furono ammazzati in uno dei tanti conflitti scoppiati in seguito allo spostamento delle frontiere ungheresi, dopo il trattato di Trianon». Le sue parole, la scelta degli aneddoti da ricordare, il rigore della sua educazione protestante, tutto rimanda a un tempo perduto che Magda Szabó preferisce lasciare sospeso: la Budapest nella quale la vecchia Emerenc si muove è un invidiabile precipitato di solidarietà, garanzie civili neppure lontanamente messe in discussione, piatti dell'amicizia che vanno e vengono tra le mani dei vicini, insomma un modello di quella che dovrebbe essere una organizzazione sociale di impronta marxista; ma Magda Szabó - che sembra averne registrato solo le perversioni - non vuole neppure sentire nominare l'argomento: «è difficile ricostruire l'atmosfera di un paese in mano ai sovietici, si erano impadroniti delle nostre case e si accanivano in particolare contro chiunque coltivasse un pensiero religioso. Io portavo i bambini a battezzare coperti in grandi ceste da fornaio, ma spesso mi fermavano e mi chiedevano come mai il mio pane piangesse; allora avevo davvero paura. Il partito comunista che abbiamo ereditato dall'Unione sovietica non è paragonabile a quelli occidentali, a me ha dato solo motivi di sofferenza.» Eppure, una persona come Emerenc, sola al mondo dopo che i suoi affetti sono drammaticamente scomparsi, in una società come la nostra avrebbe la vita raggelata, mentre nella Budapest descritta dalla Szabó gode del conforto di tutti nonostante le sue spigolature siano, a volte, dure da tollerare. Alla notizia che una amica si è suicidata, ricorda quanto spesso si lamentasse della sua solitudine e commenta: «Adesso non è più sola, ha i vermi che le tengono compagnia». Non è cinismo, il suo, è realistica saggezza. Nel libro si dice che la vecchia, tanto bisbetica quanto preziosa, era capace di «suscitare i sentimenti più nobili e i più meschini», e in effetti tutta la storia è un succedersi di litigi e riappacificazioni, moti di ira e di dolcezza: «Quando arrivò - ricorda Magda Szabó - somigliava a una nobile creatura selvatica, si lamentava di essere capitata nella casa di due nullafacenti, si chiedeva cosa contemplasse il mio sguardo che vagava fuori dalla finestra quando non picchiavo con le dita sulla tastiera, disprezzava il fatto che non avessi figli: per me era stata una scelta, non volevo mettere al mondo degli schiavi, ma Emerenc pensava che avrei dovuto vergognarmene.»
Il lavoro al quale Magda Szabò si sta ora dedicando è una sua personale riscrittura dell'Eneide: «mi sono messa in testa di completare i versi che Virgilio ha lasciato incompiuti, facendo morire Enea all'inizio della narrazione, e consegnando il protagonismo a un personaggio femminile». È passato all'incirca mezzo secolo da quando Herman Hesse ricevette clandestinamente un romanzo di Magda Szabò che aveva varcato le frontiere grazie a una amica comune: «Sì, il libro si intitolava L'affresco e aveva per protagonista una giovane donna destinata a diventare pittrice, in fuga da una famiglia protestante con la quale era in contrasto. In Ungheria c'era bisogno di fare conoscere i propri scrittori all'estero, ma la casa editrice Corvina, che pubblicava i miei libri, non osava proporre altro che narrativa per ragazzi. Poi, per fortuna, capitai nelle mani di Hesse, che segnalò anche gli altri miei libri perché venissero tradotti. E da allora vissi meno nascosta».
Francesca Borrelli, "il "manifesto", 14 aprile 2005
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