A proposito dei Quattrocento colpi, ecco la recensione di Jacques Rivette, uscita nel 1959 sui "Cahiers du Cinéma" e inserita ora in un volume, La Nouvelle Vague (minimum fax 2009), da raccomandare ai cinéphiles monteverdini e non.
Jacques Rivette
Les Mistons era bello, I quattrocento colpi è meglio. Da un film all’altro, il nostro amico François fa il salto decisivo, il grande balzo verso la maturità. Come possiamo vedere non perde tempo.
Con I quattrocento colpi, rientriamo nella nostra infanzia come dentro una casa abbandonata dai tempi della guerra. La nostra infanzia, anche se si tratta in primo luogo dell’infanzia di FT: le conseguenze di una bugia stupida, la fuga fallita, l’umiliazione, la rivelazione dell’ingiustizia, no, non c’è un’infanzia “protetta”. Parlando di sé sembra che parli anche di noi: è il segno della verità, e la ricompensa del vero classicismo, che sa limitarsi al proprio oggetto, ma che lo vede bruscamente occupare tutti i campi del possibile.
L’autobiografia non è, per i motivi che si possono facilmente immaginare, un genere molto praticato al cinema; ma non è tanto questo che deve stupirci, quanto la serenità, il ritegno, l’uguaglianza di voci con i quali viene evocato in questo caso un passato parallelo al proprio. Il FT che ho incontrato con Jean-Luc Godard, alla fine del ’49, al Parnasse, da Froeschel, al Minotaure, aveva già fatto l’apprendistato dei Quattrocento colpi; insomma, parlavamo più di cinema, dei film americani di un Bogart che davano al Moulin de la Chanson, che di noi stessi, o solo per allusioni: bastava così. O all’improvviso una foto lo rivelava tre anni prima, al tirassegno, abbagliato, livido, con Hossein in un cantuccio, e contro la sua spalla Robert Lachenay illuminato; ecco le tre file precise di una classe fossilizzata.
Questo miscuglio di ombre e di bagliori finiva per somigliare a dei veri ricordi, a una vera memoria. Adesso ne sono quasi sicuro; poiché sullo schermo ho riconosciuto tutto, ho ritrovato tutto. La madeleine restituiva a Proust solo la sua infanzia; ma con una buccia di banana, trasformata in stella marina sul fondo del piatto, FT fa molto di più; e tutti i tempi vengono ritrovati in un colpo solo, il mio, il tuo, il vostro, un solo tempo nella luce che non trovo l’aggettivo per qualificare, inqualificabile, dell’infanzia. Che sia chiaro: questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico. Niente che tradisca esibizionismo; anche la prigione è bella, ma di un’altra bellezza: bella come Bombard che prende di peso la sua cinepresa Paillard per filmare in mezzo all’Atlantico il proprio viso gonfio e coperto di barba. La forza di FT è di non parlare mai direttamente di se stesso, ma di dedicarsi pazientemente a un altro ragazzino, che gli assomiglia forse come un fratello, ma un fratello oggettivo, e di sottomettersi a lui, e ricostruire umilmente, a partire da un’esperienza personale, una realtà ugualmente oggettiva, che filma in seguito con il rispetto più assoluto. Un metodo di questo tipo al cinema ha un nome molto bello (e non importa se FT stesso non lo conosce), si chiama Flaherty. E la prova del nove della verità di questo metodo, e della verità e basta del film, è l’ammirevole scena della psicologa – impossibile, diciamolo pure di sfuggita, nelle vetuste condizioni di produzione che ci vorrebbero costringere a mantenere a tutti i costi – in cui la più totale improvvisazione conferma la ricostruzione più rigorosa, in cui la confessione verifica l’invenzione. Dialoghi e messa in scena, al termine di un’ascesa discreta, sfociano infine nel vero della diretta; il cinema qui reinventa la televisione e questa, a sua volta, lo consacra
cinema; c’è posto ormai solo per le tre stupende inquadrature finali, inquadrature della durata pura, della perfetta liberazione. Tutto il film cresce verso questo istante e si priva poco a poco del tempo per raggiungere la durata: l’idea di lunghezza e brevità, che assilla tanto FT, sembra non avere quasi più senso per lui; o forse, al contrario, un’ossessione tale per la lunghezza, i tempi morti, una tale abbondanza di tagli, di urti, di rotture, erano necessari prima per venire infine a capo del vecchio tempo dei cronometri e ritrovare il tempo reale, quello del giubilo mozartiano (che Bresson ha cercato troppo per poterlo raggiungere). Perché questo è un film come ce ne sono pochi – per quanto molti ci provino più o meno abilmente, a volte troppo abilmente – con un punto di partenza e un punto d’arrivo, e tra i due tutta una distanza percorsa, lunga come quella che separa la Irene Girard alla cena del suo ricevimento dalla Ingrid Bergman alla finestra della cella in Europa ’51; un punto di partenza che prende il tempo già in cammino, ancora costruito e calcolato al minuto, ma già segretamente ferito nella sua stessa fretta e nel suo meccanismo, un punto d’arrivo che non è la conclusione più o meno arbitraria di qualche intreccio più o meno tenuto insieme, ma un tratto piano di strada in cui si riprende fiato, un respiro umano, prima di rituffarsi nel mondo del reale, il cui il senso è stato riconquistato.
Basta con questo tono, mi dispiace parlare con un tono così pomposo di un film così privo di retorica, perché I quattrocento colpi è anche il trionfo della semplicità. Non della povertà o dell’assenza di invenzioni, tutto il contrario; ma per chi si piazza subito al centro del cerchio non c’è bisogno di cercarne disperatamente la quadratura. La cosa più preziosa al cinema, e la più fragile, è anche quella che sparisce per prima di giorno in giorno sotto il regno degli ingegnosi: una certa purezza dello sguardo, un’innocenza della macchina da presa che in questo film è come se non fossero mai state perdute. Forse basta credere che le cose siano quelle che sono per vederle semplicemente sullo schermo così come sono; e una tale convinzione si sarà persa altrove? Ma quest’occhio e questo pensiero che si aprono al centro delle cose rappresentano lo stato di grazia del cineasta: essere per prima cosa all’interno del cinema, essere padrone del centro di un campo i cui confini possono poi estendersi all’infinito: e tutto ciò si chiama Renoir.
Si potrebbe ancora insistere sulla straordinaria tenerezza con la quale FT parla della crudeltà, che può essere paragonata solo alla straordinaria dolcezza con la quale Franju parla della follia; in entrambi i casi dall’uso continuo della litote nasce una forza quasi insopportabile, e il rifiuto dell’eloquenza, della violenza, della spiegazione, danno a ogni immagine un battito, un fremito interno che si impongono bruscamente in certi brevi lampi, lucenti come una lama. Si potrebbe parlare, come si deve, di Vigo, o di Rossellini, o più giustamente ancora di Les Mistons o di Une visite. Tutti questi rimandi alla fin fine non vogliono dire un granché, e bisogna sbrigarsi a farli finché si è in tempo. Volevo dire soltanto, il più semplicemente possibile, che c’è adesso tra noi non più un debuttante dotato e promettente, ma un vero cineasta francese, che è all’altezza dei più grandi, e che si chiama François Truffaut.
(Apparso sul numero 95 dei «Cahiers du cinéma», maggio 1959)
(Traduzione di Andreina Lombardi Bom)
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