Elvira Sessa
Bianco era il colore della
farina che allegra gli si attaccava alle dita mentre infornava i
biscotti. Quel bianco nasceva dalla tavolozza di libertà con cui
affrescava le sue giornate.
Bianco è, ora, il colore
delle sue lacrime e di una mente prosciugata dagli arcobaleni.
Bianco è tutto ciò che
vedono le sue pupille.
Un bianco accecante.
Salvatore sorride e piange
mentre lo racconta. La sua storia è quella di tutti gli abitanti
dell'isola di Sakhalin.
Si dice che chi arriva su
questa isola dell'estremo oriente russo, all'inizio vede bene poi
cade vittima di una epidemia chiamata acromatopsia, che fa confondere
i colori.
Come è successo
all'artista, il "signor B", che sulla tela voleva far
brillare la bellezza della sua donna ma le tinge i fluenti capelli di
color rosa scambiandolo per il giallo.
Chi arriva sull'isola viene
portato nella cosiddetta "sezione A", dove mischia il
colore della sua storia, dei suoi capelli, dei suoi occhi, della sua
pelle, con quello di tanti altri. Finchè la sua storia si stinge, i
suoi capelli, la sua pelle e i suoi occhi, diventano bianchi e inizia
a vedere tutto bianco. Allora viene portato nella "sezione B",
quella dei ciechi che vedono solo bianco, quella del candore
dell'isola di ghiaccio, uguale per tutti, senza sfumature, senza zone
d'ombra. Un bianco che è, allo stesso tempo, senza intimità e senza
affetti.
Non c'è scampo.
Un medico, venuto a fare
ricerche sull'isola per capire l'origine di questo male, scopre che è
una cecità che non dipende dagli occhi. Gli occhi sono organi
passivi, come l'obiettivo di una macchina fotografica. A guidarli è
il cervello, la regia che ordina all'obiettivo fotografico di
ingrandire, ridurre o semplicemente fissare, l'immagine. La vista del
bianco è il riflesso dell'anemia mentale.
Queste vite, condannate a
rimanere sull'isola per dieci-venti-trenta anni-per tutta la vita,
sono raccontate nello spettacolo teatrale dal titolo "Viaggio
all'isola di Sakhalin".
Ad interpretare l'opera è
una trentina di detenuti della Compagnia del Reparto G8 del carcere
di Rebibbia che scontano pene di lunga durata, alcuni l'ergastolo.
Attraverso il copione teatrale, i detenuti ritinteggiano le loro
giornate "di fuori", conservando i loro nomi, quelli delle
loro mogli, dei figli; assumono la responsabilità di "un ruolo"
e, con l'immaginazione, travalicano le sbarre.