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sabato 5 luglio 2014

mvl Teatro, la Siberia a Rebibbia


Elvira Sessa
Bianco era il colore della farina che allegra gli si attaccava alle dita mentre infornava i biscotti. Quel bianco nasceva dalla tavolozza di libertà con cui affrescava le sue giornate.
Bianco è, ora, il colore delle sue lacrime e di una mente prosciugata dagli arcobaleni.
Bianco è tutto ciò che vedono le sue pupille.
Un bianco accecante.
Salvatore sorride e piange mentre lo racconta. La sua storia è quella di tutti gli abitanti dell'isola di Sakhalin.
Si dice che chi arriva su questa isola dell'estremo oriente russo, all'inizio vede bene poi cade vittima di una epidemia chiamata acromatopsia, che fa confondere i colori.
Come è successo all'artista, il "signor B", che sulla tela voleva far brillare la bellezza della sua donna ma le tinge i fluenti capelli di color rosa scambiandolo per il giallo.
Chi arriva sull'isola viene portato nella cosiddetta "sezione A", dove mischia il colore della sua storia, dei suoi capelli, dei suoi occhi, della sua pelle, con quello di tanti altri. Finchè la sua storia si stinge, i suoi capelli, la sua pelle e i suoi occhi, diventano bianchi e inizia a vedere tutto bianco. Allora viene portato nella "sezione B", quella dei ciechi che vedono solo bianco, quella del candore dell'isola di ghiaccio, uguale per tutti, senza sfumature, senza zone d'ombra. Un bianco che è, allo stesso tempo, senza intimità e senza affetti.
Non c'è scampo.
Un medico, venuto a fare ricerche sull'isola per capire l'origine di questo male, scopre che è una cecità che non dipende dagli occhi. Gli occhi sono organi passivi, come l'obiettivo di una macchina fotografica. A guidarli è il cervello, la regia che ordina all'obiettivo fotografico di ingrandire, ridurre o semplicemente fissare, l'immagine. La vista del bianco è il riflesso dell'anemia mentale.
Queste vite, condannate a rimanere sull'isola per dieci-venti-trenta anni-per tutta la vita, sono raccontate nello spettacolo teatrale dal titolo "Viaggio all'isola di Sakhalin".
Ad interpretare l'opera è una trentina di detenuti della Compagnia del Reparto G8 del carcere di Rebibbia che scontano pene di lunga durata, alcuni l'ergastolo. Attraverso il copione teatrale, i detenuti ritinteggiano le loro giornate "di fuori", conservando i loro nomi, quelli delle loro mogli, dei figli; assumono la responsabilità di "un ruolo" e, con l'immaginazione, travalicano le sbarre.
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