Scorrendo le pagine di Furore (1939, prima ed.– Bompiani 2011, pp. 474) ho scoperto che il suo autore, John Steinbeck, ha vinto il Nobel per la letteratura nel ’62. Nello stesso secolo questo prestigioso riconoscimento è andato ad altri suoi connazionali: Sinclair Lewis (’30), O’Neill (’36), Pearl S. Buck (’38), Faulkner (’49), Hemingway (’54). Sei premi Nobel in poco più di trent’anni e in parallelo con le pubblicazioni di autori come Caldwell, Fante, Dos Passos, Capote, Mailer, Scott Fitzgerald e, poco oltre, Bellow, Salinger, Chandler,Henry e Arthur Miller. . . Tutti insieme – e chissà quanti ne dimentico - sono nomi da capogiro, le loro opere costituiscono l’anima letteraria statunitense della prima metà del ‘900. Con le loro narrazioni hanno riempito l’immaginario di tutti coloro che hanno conosciuto gli Stati Uniti grazie a pagine dense di ‘realismo’, prima di poter vedere in tv o al cinema sprazzi di vita reale nel ‘Grande Paese’, meta di sogni, ambizioni, desideri, di grandi successi e di penosi fallimenti.
Monteverdelegge ha scelto The Grapes of Wrath (alla lettera, "I frutti dell’ira") per ricordare il racconto di un memorabile viaggio dall’Est all’Ovest USA, epicamente rappresentato nel 1940 dall’omonimo film di John Ford, vincitore di due Oscar. Ma qui desidero ricordarlo anche come la descrizione di un passaggio: dalla depressione alla ricostruzione; dall’economia basata sull’agricoltura diffusa a quella concepita nei contesti urbani; dalla miseria locale a quella su scala nazionale e così via. “Se nel romanzo tipico degli anni ’20 – scrive W. Leuchtenburg in Roosevelt e il New Deal – l’eroe va alla stazione ferroviaria della cittadina di provincia per salire sul treno che dovrà portarlo alla metropoli piena di promesse, nel romanzo tipico degli anni ’30 egli è lasciato solo su una strada di grande comunicazione a chiedere un passaggio per una destinazione sconosciuta”.
Da qui prende corpo quel viaggio nell’intimo, nell’autocoscienza e nel dubbio che si affianca al viaggio vero e proprio on the road, celebrato da grandi autori americani, testimoni del vagabondaggio su strada e nella psiche come Kerouac, Bukowski, Ginsberg, Burroughs e altri. A distanza di un paio di decenni, scrittori così apparentemente lontani da quelli della generazione di Steinbeck – nato in California nel 1902 e morto a New York nel ’68 – hanno in comune con essi non solo l’amore per la strada ma anche quello per la natura. Ed ecco apparire subito nel nostro immaginario americano le grandi nuvole spostate dal vento, le nubi rosse di polvere e quelle grigie cariche di pioggia, oppure i rigagnoli d’acqua che solcano la terra arida e con il fango disegnano le orme e le tracce di tanti passaggi ripetuti nel tempo.
G.M.
L'OPERA
RispondiEliminaStile letterario molto datato, situazioni descritte rozzamente, tagliate con l'accetta. Inverosimili forzature, sceriffi che assomigliano ai bravi di don Rodrigo, alluvionati lasciati annegare sui tetti delle loro baracche, nell'assenza di esercito e protezione civile. ingenuità dei proclami ideologici.
LA TRADUZIONE
Ancora quella della prima edizione italiana del 1939. Si usano termini come trattrice, secchia, ciarlare e cricco (cioè martinetto per sollevare una vettura, cric). Frasi del tipo "se mi pescan mi mandan via". Se l'opera è per certi versi datata, la sua traduzione lo è al quadrato.
CITAZIONE VALIDA PER I NOSTRI TEMPI
"Casy says, a fella ain't got a soul of his own, but only a piece of a big one, the One Big Soul That Belongs To Everybody" La grande anima che appartiene a tutti. Questa frase che Tom Joad ricolge alla madre mi sembra molto attuale: non è forse vero che l'anima collettiva è molto malata, ai tempi nostri? Come curarla? Esiste una terapia del Big Soul?
RECENSIONE DI ROGER EBERT 31 marzo 2002 http://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/20020331/REVIEWS08/203310301/1023
"Mi chiedo se il pubblico americano sarà mai nuovamente in grado di comprendere l'impatto originale di questo materiale, sulla pagina e sullo schermo. Il centenario della nascita di Steinbeck viene oggi celebrato con articoli che insinuano che esso non sia poi tutto quel capolavoro, che Steinbeck non meritava il Nobel, che il romanzo è troppo datato. Ma tuttavia non si vorrebbe che "The Grapes of Wrath" fosse stato scritto in modo diverso, lo indebolirebbero l'ironia, la sperimentazione stilistica e il "modernismo".
Il romanzo e il film continuano a durare, credo, perché fondati su un'autentica esperienza e sensibilità. I miei genitori sono rimasti segnati dalla depressione, è stata una memorabile devastazione che io ho percepito nei loro stessi toni di voce. "The Grapes of Wrath" mostra mezza nazione privata dei mezzi di sussistenza. La storia, che sembra raccontare la resilienza e il coraggio di un "popolo", è in realtò costruita su fondamenta di paura: paura di perdere il lavoro, paura di perdere la terra, paura di perdere il rispetto di sé. Per coloro che hanno provato quella paura, che hanno patito la fame o sono rimasti senza tetto, non diventerà mai datato. E il suo senso della ingiustizia, io credo, è ancora rilevante. Le banche e i latifondisti del 1930 sono state oggi sostituite da piramidi finanziarie così grandi e conniventi con il governo che Enron, per esempio, ha dovuto tirarsi fuori dal suo stesso terreno.
A me piacerebbe molto che fosse più "datato", non fosse che per considerarci lontani dal contesto drammatico e angosciante che costituisce l'argomento del romanzo, e che invece mi sembra orribilmente attuale. Se non ancora nelle nostre immediate vicinanze, certamente nelle carrette del mare(e anche di terra...) che giornalmente scaricano sui territori dell'Europa meridionale (e non solo) la quasi assoluta povertà di altri continenti (quasi, perché la povertà assoluta non ha nemmeno i mezzi per muoversi!).
RispondiEliminaDecisamente mi piacerebbe che fosse più datato ancora.
Agli amici del gruppo di lettura chiedo:secondo voi come mai Bompiani non ha pensato finora di far ritradurre in maniera più corretta, e in integrale, questo testo? I profitti sulle vendite avrebbero ben pagato una migliore traduzione di uno scrittore premiato oltretutto col Nobel.
Ancora: quando un'opera viene tradotta nello stesso periodo della sua stesura originale, ha senso dopo tanti anni ritradurla in una lingua più accettabile nel presente? Non equivarrebbe, la nuova traduzione, a un riscrivere l'opera, un po' come se si volesse ritradurre Manzoni, o Pirandello?
Come risposta a Marta sul problema delle traduzioni riscritte, una gustosa pagina web nella quale sono incappato alle ore 3 di un'insonnia qualunque, dal titolo: Tradire & tradurre.
EliminaAncora una nota su Furore
RispondiEliminaL'ultima scena del romanzo mostra l'allattamento di un vecchio da parte di una giovane donna che ha appena partorito un bambino morto. Una scena forte, che rimane impressa a distanza di decenni.
Dico "un vecchio" e non il nome del personaggio, come "una giovane donna" e non Rosa Tea, perché forse quella scena fa affiorare immagini entrate consapevolmente o subliminalmente nel patrimonio iconografico di noi occidentali, scatenando associazioni. E non è un caso che quell'immagine la viva come un déjà vu, come un motivo che risuona noto, e mitico.
Infatti mentre leggo, dopo un po' ecco che rammento confusamente le Sette opere di Misericordia, Caravaggio, già, è vero, lì appunto una giovane donna allatta un vecchio (Dar da mangiare agli affamati è l'Opera in questione).
Vorrei dirlo all'incontro, ma poi taccio, non si può dire qualsiasi cosa ti salti in testa. E poi chissà quanti critici si sono esercitati sull'argomento...fiumi d'inchiostro saranno stati impiegati per spiegare il come e il perché.
Poi oggi sulla Stampa di Torino leggo un articolo di Elena Loewenthal sull'ultimo romanzo di Yehoshua e nell'articolo è presente la riproduzione di un quadro, la Caritas Romana di M. Meyvogel, quadro che nel romanzo gioca una parte di rilievo. La scena è esattamente la stessa, un vecchio beve al seno di una giovane donna.
Mi chiedo: conosceva Steinbeck quell'opera di Caravaggio o le altre contemporanee, o quelle che ne derivarono in seguito per tutto l'800?
Tenderei ad azzardare che sì: è troppo suggestiva e "mitica" quell'immagine perché un uomo del XX° sec. l'abbia potuta inventare dal nulla. E forse anche su questo si saranno sprecati fiumi d'inchiostro. E ciò nonostante ho voluto parlarne, soggiogata dall'aver ritrovato quell'immagine su un quotidiano: m'hai provocato e io rispondo, come Alberto Sordi con gli spaghetti....
07 gennaio 2012 19:07