In margine all’incontro sulla Lettera al padre di Kafka, dopo avere ascoltato chi si è sentito di intervenire sull’argomento, ho partorito qualche piccola riflessione-domanda, che prende il via dalle parole della irriverente lettrice, di cui non ricordo il nome (Cristina, per caso?), che si è dichiarata terribilmente irritata dagli argomenti messi in campo dall’autore.
Come la lettrice in questione anch’io avevo avvertito una certa irritazione (detto terraterra: mio dio quanto sei palloccoloso!!), appena corretto dal timore reverenziale per la grandezza dello scrittore, in memoria della meraviglia provata di fronte ai suoi capolavori.
Dentro un angolo della mia mente (?) c’era una domanda: se io non sapessi che questo testo l’ha scritto Lui, che cosa me ne sembrerebbe? La risposta era spietata, come già la domanda, del resto.
Mi sembrerebbe il testo di una persona malata di protagonismo narcisistico, di un vittimismo urtante, piagnucoloso, autogiustificante, …….ecc. ecc. E ciò nonostante la verità della sofferenza narrata provocasse identificazione, empatia.
Il testo è davvero splendido nella sua capacità di analizzare ogni minimo dettaglio, nella costruzione stessa del “racconto”, nel suo saper dipanare in successione gli avvenimenti, e i risultati psichici.
Perché allora quella domanda impertinente? Perché non mi ero fatta quella domanda leggendo Il Castello, o Il Processo, o….?
Mi sono risposta che solo qui, nella lettera al padre, emerge tanto il dato biografico nella sua crudezza, tale da avere suggerito ad un’altra lettrice (chiedo perdono per non ricordare nemmeno il suo nome) la sensazione di guardare dal buco della serratura.
Ecco, allora è forse questa la differenza: la biografia, che irrompe, disturbandola, la costruzione letteraria che trasforma e supera il dato biografico, inventando altro da sé? Che poi questo sia, a sua volta, un “racconto”, come diceva Silvia, (un nome, finalmente!) sta nella sua qualità di scrittura, forse?
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