Lo straordinario estratto da L’uomo senza qualità, di Robert Musil,
mette a fuoco il problema che ha afflitto con progressiva forza l’uomo moderno:
il controllo del sapere da lei stessa prodotto. Se, prima della stampa, e della
diffusione del libro a livello sempre più capillare, era ancora pensabile un
universo in cui poter comprimere l’intera conoscenza del mondo (la biblioteca),
in seguito tale sogno si è infranto contro la mole incommensurabile dei prodotti
intellettuali (cartacei e sonori; ora digitali e sempre più immateriali).
Il catalogo e il database furono e sono tuttora
la sola arma a disposizione dell’intellettuale per domare la selvaggia
proliferazione della conoscenza. Catalogo che rischia, però, nella propria
onnicomprensività, di sostituirsi proprio all’oggetto catalogato, al libro, e,
quindi, al suo contenuto ovvero alla conoscenza stessa. Gianfranco Contini
lamenterà, nella sua Storia della
letteratura italiana: “La
rappresentazione caricaturale … del dotto che sa tutto della bibliografia su un
autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o non legge compiutamente)
l’autore stesso … è il modello negativo da proporre subito al rifiuto …”.
Nella letteratura moderna, peraltro, non manca
la vertigine della lista, per dirla con Umberto Eco: da Borges a Joyce. Vertigine
o libidine, poiché la lista o il database illudono, infatti, di poter
trattenere lo scibile entro i limiti della pensabilità. L’Ulisse di Joyce, l’opera di Balzac e Zola, dei russi ottocenteschi,
l’idealismo filosofico tedesco, le stesse duemila pagine de L’uomo senza qualità, sono gli ultimi,
titanici tentativi in tal senso. E i bibliotecari di Musil, nella loro meschinità,
non fanno eccezione.
Fermare il tempo, fissare un’epoca, racchiudere
l’essenza dell’uomo, dominare il senso della storia.