Maria Teresa Carbone
Questo articolo riprende in modo più sintetico un testo pubblicato l'8 novembre sulla newsletter Risvolti della piattaforma Substack.
L'attesa è stata lunga decenni, ma finalmente in questo 2024 la Corea del Sud ha realizzato il suo sogno: vincere il Nobel per la letteratura, assegnato dall'Accademia di Stoccolma a Han Kang, autrice di romanzi come La vegetariana e Atti umani, tradotti qui in Italia per Adelphi. Per quanto conosciuta e tradotta all’estero, però, agli occhi del suo paese Han Kang non era una nobellizzanda, tanto è vero che il giorno dell’annuncio nessun giornalista si era appostato davanti alla sua porta per captare le sue reazioni in caso di vittoria. Lo ha raccontato il critico Alex Taek-Gwang Lee in un articolo uscito su e-flux, che ho in parte ripreso nella rubrica Express della settimana scorsa sul quotidiano il manifesto. Anche Lee, comunque, come già nel 2006 il coreanista Maurizio Riotto, scrive che il Nobel era diventato per la Corea del Sud “una missione nazionale per ottenere un riconoscimento culturale globale”. O un’ossessione, forse.Ci ho ripensato qualche giorno fa, dopo avere visto al Teatro Vascello la versione teatrale de La vegetariana di Han Kang diretta da Daria Deflorian e interpretata da lei insieme a Gabriele Portoghese, Paolo Musio e Monica Piseddu. Lo spettacolo faceva parte del cartellone del Romaeuropa Festival, è passato all’Odéon, a Parigi, per il Festival d’automne, poi andrà a Milano e a Torino, e di sicuro altrove. Lunghi, fragorosi, più che meritati, gli applausi l’altra sera.
Confronti con il libro non ne faccio perché il passaggio dalla pagina a una dimensione fisica comporta la nascita di un oggetto comunque diverso, e perché finora il romanzo di Han Kang l’ho solo sfogliato. Amici che lo hanno letto mi dicono che la regista (e autrice dell’adattamento con Francesca Marciano) ha colto molto bene l’essenza del romanzo, il senso di minaccia e di violenza che lo attraversa e a cui ci si può opporre, sembrerebbe, solo con una scelta di radicale sottrazione. Conoscendo un po' il lavoro di Deflorian e la serietà (una parola che, a scriverla, mi suona desueta) con cui costruisce i suoi spettacoli, non ne sono sorpresa. De La vegetariana ho trovato stupendo il modo in cui gli attori, tutti eccezionalmente bravi, si muovono in uno spazio scenico spoglio eppure denso, attraversato da luci oblique, simili ai fantasmi che affollano la mente della “vegetariana” e che la spingono verso un rifiuto della carne intesa come umanità: sempre più sicura, dunque, la traiettoria di lei, a contrasto con le esitazioni, gli andirivieni, i sussulti degli altri che la osservano senza capire, solo - nel caso della sorella, interpretata da Deflorian stessa - accettandola e amandola. Ed è moltissimo.
Leggerò il libro, e anche Atti umani, sul massacro di Gwangju, la città dove Han Kang è nata nel 1970 e dove dieci anni dopo l’esercito sudcoreano ha ammazzato centinaia o migliaia di persone che protestavano contro la dittatura allora al potere (per capire La vegetariana, leggere Atti umani è indispensabile, ha detto Deflorian in alcune interviste). Ma intanto mi colpisce quanto è lontano l’accanimento dell’ufficialità coreana nel perseguire il Nobel dalla scelta di Han Kang di avere come perno del suo romanzo un personaggio che è stato paragonato al Bartleby di Melville nel suo “preferirei di no”. E mi colpisce anche di più il “preferirei di no” della società sudcoreana, dove non nascono bambini (è il paese con il tasso più basso di natalità nel mondo, pare che nel 2024 si sia scesi allo 0,68 per donna, contro lo 0,78 di due anni fa, nonostante abbiano creato un ministero apposta) e dove in tanti scelgono di uccidersi (tra i membri dell’Ocse ha il più alto tasso di suicidi, prima causa di morte nella fascia 10-39 e in alto anche fra i vecchi che non vogliono pesare sui figli).
Vorrei sapere di più, non questi brandelli raccattati qua e là o certi fotogrammi sparsi, la pioggia di Parasite e le campagne incerte di Burning, e nemmeno il tentativo astratto di immaginare cosa significa essere nati in un paese che da tre o quattro generazioni è in guerra permanente e congelata con l’altra sua metà. Apro il libro di Maria Anna Mariani, Dalla Corea del Sud (ExOrma 2017), guida “parzialissima, irrequieta e meteoropatica” di un “paese misterioso che sulla mappa è a forma di tigre e come una tigre balza in avanti col suo PIL che si espande feroce”, e a pagina 17 trovo quella che forse è la scheggia di una lezione nel college non lontano dalla linea di confine con la Corea del Nord, dove Maria Anna ha insegnato italiano per quattro o cinque anni: “Non posso farvi vedere le mie ossa, non posso davvero. Le mie ossa sono bianche e lisce e dure, stanno sotto la pelle. Pibu è pelle, e mi tocco la faccia, mi pizzico le guance e poi gli avambracci. Sotto come si dice? Haré, mi pare si dica haré. E allora pibu haré e trovate le ossa. Capito? Capito cosa sono le ossa? Al singolare è osso, però, attenti, cambia sesso questa parola, è strana, vero? E intorno alle ossa c'è il sangue rosso e poi i muscoli feroci e i nervi che sono sempre un guizzo, sempre”.