domenica 25 ottobre 2020

Sotto il dominio della voce: la Penelope di Louise Glück



Fiorenza Mormile

Dopo l’attribuzione del Nobel 2020 alla poetessa statunitense Louise Glück sulle principali testate è apparso Penelope’s Song, Il canto di Penelope, uscito nel marzo 2003 sul numero 170 di “Poesia” nella traduzione di Massimo Bacigalupo, che riportiamo di seguito. La coincidenza mi ha spinto a recuperare queste note, frutto di un’antica devozione per questa autrice e degli stimoli offerti proprio da quel servizio (Nel giardino di Louise Glück, a cura di M.B.).

Penelope è un personaggio molto frequentato, specialmente da quando figure e situazioni del mito sono state analizzate da un punto di vista femminile per proporne nuove interpretazioni: citiamo tra tutte Eleanor Wilner, Carol Ann Duffy e in ambito italiano Rosaria Lo Russo e Bianca Tarozzi. Rivisitata sotto un ampio ventaglio di angolature e posizionamenti, tra l’ironico e il risentito, la regina di Itaca continua a offrire moltissimi spunti. In Duffy e Tarozzi, ad esempio, la tessitura della tela diventa metafora della scrittura con i suoi continui rifacimenti, mentre l’attesa esasperante ha un imprevisto risvolto positivo: la conquista di una centratura autonoma e della capacità di concentrarsi sui propri obiettivi. Anche Glück rivisita il mito di Penelope per dare spazio alla propria verità: nella raccolta Meadowlands (Harper Collins, 1996), settima delle dodici pubblicate, sovrappone la triade portante dell’Odissea ai componenti della propria problematica famiglia: il marito, se stessa, il figlio Noah. Ne mette a fuoco i risvolti psicologici con lucidità spietata, non risparmiando nemmeno se stessa. Così la scrittrice Emily Gordon commenta su “The Nation”: “Se l’Odissea è il racconto del ritorno di Ulisse, Meadowlands ne dà i dettagli in negativo: gli stessi dieci anni di viaggio, ma lontano da Itaca, alla volta di acque non segnate nelle carte. Come in Omero, marito e moglie di Glück soffrono separatamente e senza il beneficio della comunicazione. Ma in questa versione devono visitare insieme isole infide: Litigio, Nostalgia, Rimpianto. Invece del disfare la tela nottetempo di Penelope per ingannare i suoi pretendenti, qui è il matrimonio a venire smantellato”. 

Già dal titolo, ironicamente polisemico, vediamo il peso specifico che l’autrice assegna a ogni parola, carica di implicazioni e mai fine solo a se stessa. Meadowlands rimanda infatti tanto a verdi praterie quanto allo stadio di football dei Giants nel New Jersey: la contrapposizione di squadre e tifoserie evoca la guerra tra Greci e Troiani e quella metaforica tra i coniugi in crisi. In un ben orchestrato intrecciarsi di voci Glück alterna testi in cui Penelope e Telemaco (ma anche Circe e la Sirena) si esprimono in prima persona ad altri di taglio narrativo, in cui un io lirico onnisciente lascia affiorare dall’esterno, in camouflage, soprattutto il punto di vista di Penelope. Glück attraverso l’architettura del libro dà ulteriore forma ai problemi di comunicazione familiare che lo permeano: negando all’Ulisse mitico titoli di poesie in prima persona, dissemina quello privato attraverso dialoghi dove non lo si distingue facilmente dalla moglie, o con lacerti di discorso ad hoc riportati in corsivo nelle poesie in terza persona. Determinanti per la costruzione dei personaggi anche i severi ritratti genitoriali delineati da Telemaco, che razionalizza a posteriori il disagio di essere cresciuto tra tensioni e assenze sia fisiche che emotive, con il padre lontano e la madre presente ma distante, perché corrosa dalla gelosia e chiusa in un’attesa non tanto subita quanto scelta, indossata ed esibita come un cilicio.

Canto di Penelope

Animuccia, piccoletta perpetuamente svestita,

ora fa’ come ti dico, monta

i rami scalati dell’abete;

aspetta in cima, attenta, come

una sentinella o vedetta. Lui sarà presto a casa;

ti conviene essere

generosa. Non sei stata completamente

perfetta nemmeno tu; col tuo corpo assillante

hai fatto cose che non si dovrebbe

discutere in poesia. Pertanto

chiamalo sulla distesa dell’acqua, sulla luminosa

acqua

con la tua canzone scura, con la tua canzone rapace,

innaturale: appassionata,

come Maria Callas. Chi

non ti vorrebbe? A quale più demoniaco appetito

saresti mai incapace di rispondere? Presto

lui tornerà da dovunque vada nel

frattempo,

abbronzato dalla lontananza, reclamando

il suo pollo arrosto. Ah, devi salutarlo,

devi scuotere i rami dell’albero

per ottenere la sua attenzione,

ma piano, piano, caso mai

la sua bella faccia sia guastata

da troppi aghi caduti.

Dalla sua posizione di apertura il testo assume valore programmatico, contenendo temi e tratti salienti della raccolta. Prima di tutto vi appare il tema dell’amore tormentato e asimmetrico: lei vuole lui più di quanto lui non voglia lei, che per recuperarlo deve ricorrere a caute strategie paramilitari, collocando la propria “animuccia” di vedetta su un abete per spiarne l’imminente ritorno, pronta a “scuotere i rami dell’albero per ottenere la sua attenzione,/ma piano, piano, caso mai/la sua bella faccia sia guastata da troppi aghi caduti”. Si notano subito la divaricazione tra anima e corpo e la grande ambivalenza verso Ulisse, i confini incerti tra amore e ostilità, seduzione e aggressione, eros e cibo, visto che Penelope afferma che il canto della sua animuccia sarebbe in grado di rispondere “al più demoniaco appetito” e che Ulisse “presto tornerà (…) abbronzato (…) reclamando il suo pollo arrosto” e nel contempo, probabilmente, la sua pollastra ben rosolata. Il riuso di materiali letterari è altro elemento caratterizzante del testo: oltre all’Odissea compaiono anche altri riferimenti: l’incipit riprende un secondo celebre testo classico, l’addio all’anima di Adriano, imperatore raffinato, viaggiatore e poeta, noto tanto per le campagne militari quanto per la romantica e tragica storia d’amore. Qui però l’“animuccia”, a differenza dell’ “animula vagula blandula” non vaga “in una landa nuda”, insieme ai morti, ma “piccoletta perpetuamente svestita” si stanzia di vedetta su un albero. Ecco quindi Glück trasformare maliziosamente per spostamento la nudità dei luoghi Inferi in prerogativa sexy da utilizzare per la riconquista del vivo e vegeto Ulisse. Si può cogliere un’allusione anche ai versi di apertura di The World as Meditation di Wallace Stevens, dove Penelope scruta dall’alto se arrivi Ulisse, in un paesaggio di alberi resi nudi e mondi dall’inverno. Dopo tanti anni di lontananza, per riconquistare lo sposo Penelope si sdoppia, incaricando l’“animuccia” disincarnata di fare leva sull’elemento più immateriale del suo corpo, le qualità sensuali della voce e della sua canzone: “scura (…) rapace/ innaturale: appassionata,/ come Maria Callas”. Nulla è lasciato al caso in questa poesia: la citazione della grande cantante dilata la serie di corrispondenze tra mito e rispettive vicende personali. Greca la Callas, greco il suo grande amore Onassis, al tempo “re” degli armatori navali da cui la cantante fu infine lasciata, a riprova di quanto neanche le grandi artiste siano al riparo da un destino di abbandono. Ulteriore rilevante punto di contatto l’anoressia giovanile della Glück e le diete drastiche della cantante, che pur esaltandone la presenza scenica ne avevano minato la salute e la stessa celebrata voce di soprano dal timbro scuro. Volutamente velato è quanto spinge Penelope a perdonare Ulisse per le sue mancanze: “ti conviene essere / generosa: non sei stata completamente/ perfetta nemmeno tu col tuo corpo assillante”, a suggerire forse un inusitato tradimento di Penelope, rivendicando esigenze sessuali anche nella donna, o piuttosto alludendo ai problemi prima accennati. E comunque l’uso del termine antiquato “it behooves you” (ti conviene) nel contesto disinvoltamente ‘pop’, implica una critica alla condiscendenza tradizionalmente richiesta alle donne verso le scappatelle dei loro mariti. Potremmo dire che la voce – accanto al già citato frequente ricorso al discorso diretto, è tema ricorrente anche in altre poesie. Spesso stabilisce un’antinomia, alla pari delle molte contrapposizioni che sono alla base della raccolta. Nel testo d’apertura la voce è espressione dell’anima versus il corpo che pure rivendica le sue capacità di offrire soddisfazione sessuale, ma è alla voce, definita “grasping”/rapace, che Penelope assegna il ruolo di attaccante, anche per contrapporre la propria malìa a quella di altri seduttivi canti rivali, da quello di Circe a quello delle Sirene. In una delle poesie che danno la parola a Circe (Circe’s Grief) la maga, sapendo di dover rinunciare all’amato, si vendica manifestandosi a Penelope sotto forma di voce dall’origine non individuabile: “A voice/without a body” (dove l’a capo ne rinforza la separazione dal corpo). Infine, sprezzante, dice a Ulisse: “if I am in her head forever/I am in your life forever”. Ma neanche questo fa desistere Penelope dal suo aspettare e dal suo filare, perché, come afferma in Itaca: “L’amato non ha/bisogno di vivere. L’amato/ vive nella testa”. Anche qui l’a capo sigla la lontananza accettata ed eletta a sistema di vita: “ (…) il telaio/ è per i proci, (…) non sanno che quando uno ama in questo modo/ il sudario diviene un abito da sposa”. La contrapposizione ritorna ancora in quel che Penelope dice dello sposo : “Lui era due persone. Era il corpo e la voce, la facile /attrazione di un uomo vivo, e poi/ il sogno o immagine in evoluzione/ creati da una donna intenta al telaio”. Questo tema della voce elemento principe del fantasma che aleggia nella testa contrapposto alla persona in carne e ossa, ritorna, rovesciato, in Quiet Evening, dove la moglie in un raro momento di intimità serale riporta a Penelope il gesto di prendere la mano al marito, per imprimergli nella memoria la quiete perfetta di quell’attimo. Come ogni cosa bella avrà un risvolto amaro, perché, conclude lei: “da adesso in poi, il silenzio che attraversi / è la mia voce che ti insegue”. Metà maledizione, metà constatazione dello strascico doloroso che lascia ogni legame profondo quando si spezza ma anche consapevolezza che la propria voce/scrittura continuerà comunque ad avere un impatto su di lui. In Glück rivisitare il mito significa anche questo: negarne il lieto fine, perché la coppia si separa. Srotolando poi il filo delle piccole ma velenose critiche che il marito le muove in Void e in Ceremony (lei è depressa e non vuole acquistare nuovi mobili, cucina poco e poco variato, non è disponibile a riempire la casa di amici) suggerisce che anche nell’ emancipatissima America una donna per tenersi il marito deve prima di tutto saper perdonare, e conformarsi a un ruolo imposto intriso di accudimento, passi felpati ed eterna disponibilità non poi così lontano dalle decantate virtù di Penelope.

Quanto citato da Il canto di Penelope e da Itaca fa riferimento alla traduzione di Massimo Bacigalupo uscita in Il giardino di Louise Glück, “Poesia” n.170, marzo 2003, pp. 2-21. Ringraziamo lui e la rivista “Poesia” per l’autorizzazione alla riproduzione. I passi di Adriano citati sono ripresi da L’addio all’anima, in La letteratura latina. Storia letteraria e antropologia romana a cura di Maurizio Bettini, vol. 3, p. 428. Un recente link offre molte interessanti informazioni su Louise Glück e sul suo modo di lavorare.




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