sabato 10 febbraio 2018

"Meccanica celeste" di Domenico Dara. Oggi l'autore dai Trapezisti






 Maria Teresa Carbone

La prima chiave per leggere gli Appunti di meccanica celeste, secondo romanzo di Domenico Dara (dopo il Breve trattato sulle coincidenze, finalista al Calvino e poi insignito di vari riconoscimenti, fra cui il premio Corrado Alvaro), ce la dà l'autore stesso con l'esergo, prima ancora che il testo cominci. Due sono le citazioni che Dara ha scelto di mettere in capo al suo libro, a mo' di segnali per il percorso che il lettore sta per intraprendere. La prima proviene dal Faust di Fernando Pessoa, quando lo scrittore portoghese scrive che “il mistero supremo dell'Universo, l'unico mistero, tutto in tutto, è che ci sia un mistero nell'universo, qualche cosa, è che ci sia l'essere”. La seconda è firmata da un poeta, Francesco Zaccone, scomparso l'anno scorso e pressoché sconosciuto fuori dai confini della Calabria, ma sicuramente noto e caro a Dara, per avere dedicato i suoi versi in dialetto al paese dove sono ambientate le trame del Breve trattato e di questi Appunti, e che di queste trame non è solo fondale, ma protagonista, Girifalco.
Angeli simu è il titolo della poesia di Zaccone citata da Dara, due soli versi: “Angeli simu de mortala crita / ma fumma fatti per l'eternità” (“Angeli siamo di mortale creta / ma fummo fatti per l'eternità”). Da un lato il mistero dell'universo che coincide con l'universo stesso, così come lo ha visto l'autore forse più misterioso del Novecento (e non a caso Tabucchi ha notato che il Faust di Pessoa, abbandonati gli ideali della Conoscenza e del Progresso, canta “l'inanità della vita, l'impossibilità di conoscere”). Dall'altro, la continua tensione fra la povertà della nostra materia e la grandezza delle nostre aspirazioni.

Ed eccoci dunque pronti a immergerci in questo luogo reale e immaginario, a seguire l'intrecciarsi delle traiettorie dei suoi abitanti. Nelle due pagine iniziali Dara ce le mostra per qualche istante dall'alto, come fossero le traiettorie delle megaptere, grandi balene che solcano i mari lungo rotte all'apparenza prestabilite, e poi dentro, negli interstizi, in una lista vertiginosa che non può non ricordarci Borges: “Il capello di don Venanzio impigliato nel pettine, un pezzo d'unghia rosicchiato e sputato da Mararosa, lo spessore della carta con cui Rorò impacchettava i pasticcini, lo stelo di una primula, un lendine secco, una foglia d'origano, un vinacciolo, un grano di pepe nero, un trappeso d'argento, una ciglia perduta, un ago, un filo di broccato, un pelo di coniglio, un'ala di moscone, una trocofora, il punto d'una coccinella, un pizzico di sale, un poro della pelle, un girino, un coccio di grano, un chicco d'uva acerba, uno scrupolo d'oro, una spina di rosa, la vite di un goniometro, un grammo di ruggine, un punto croce, la fuga d'un mosaico, un seme di lino, una scheggia di vetro, una goccia cinese, un bigattino, la larva di una libellula, una staffa umana, un globulo rosso, un tarlo, la punta metallica di un compasso, un polline, la scala di Planck, il nulla tra la trama e l'ordito”.
Tra questi due estremi, l'universale e l'infinitesimale, si svolgono, nell'arco di pochi giorni, gli eventi che cambiano per sempre le esistenze di alcuni fra gli abitanti di Girifalco. Dara ce li presenta a uno a uno, nei capitoli iniziali, altrettanti ritratti di figurine che possono sembrare quelle del presepio, ognuna inchiodata a una, e una sola, caratteristica: il pazzo e la secca (la sterile); la mala e la venturata, l'una triste, trista e invidiosa, l'altra così fortunata da non sapere che anche la fortuna è un dono da accogliere e accudire; il figlio, che figlio è perché non ha un padre, e l'epicureo, così detto per la sua inclinazione a godere in un eterno presente; e infine lo stoico che cerca di sopportare il dolore osservando l'universo da lontano, ed è questo suo sguardo consapevole e dolente, un occhio sempre puntato verso le stelle più lontane, a fare da contrappunto, lungo tutto il romanzo, alle vicende molto terrene dei personaggi, lui stesso incluso. Perché, a dispetto dell'apparente fissità iniziale, qualcosa – anzi molto – accade in questi Appunti di meccanica celeste: e l'elemento che Dara introduce per sovvertire quello che parrebbe l'ordine naturale delle cose, o forse per piegarsi a un ordine più potente e imperscrutabile, è l'arrivo (fortuito?) di un circo che pianta le tende a Girifalco proprio nei giorni della festa patronale, San Rocco, il 16 agosto. Giorni di grande calura, ma anche di piogge torrenziali, di minuscoli incidenti e di avvenimenti clamorosi, in cui si mescolano speranze, desideri e dolori, messi in risalto dalla presenza di queste figure aliene, angeliche o diaboliche, a seconda dei casi.
Come già nel Breve trattato delle coincidenze, Dara si dimostra abile nel tirare i fili che sorreggono le diverse vicende e ricorre senza esitare a intrecci sanciti dalla tradizione, più volte irrorandoli con il filtro dell'ironia. Ma soprattutto fa uso – di nuovo come nel suo libro d'esordio – di una lingua impastata di vocaboli e di costruzioni dialettali, traduzione sonora di un ambiente dove il passato arcaico convive con le serie televisive e i test di gravidanza. Sarebbe inutile qui riassumere i destini dei piccoli eroi, delle piccole eroine, che si muovono sul palcoscenico di Girifalco così come Domenico Dara lo ha allestito per i suoi lettori. Ma vale per loro, come per tutti noi, quello che Shakespeare ha scritto più di quattrocento anni fa: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.


Questa recensione è uscita sull'Indice (gennaio 2017)

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