sabato 3 febbraio 2018

Gruppo di lettura: La Morte di Ivan Il'ic di L.N.Tolstoj




Maria Vayola

Nella mole narrativa di Tolstoj, La morte di Ivan Il'ic  si incastona come un gioiello in miniatura, costruito con materiale prezioso e in una forma magistrale.

"La storia della vita di Ivan Il'ic era la più semplice, la più comune, la più terribile". Così inizia il secondo capitolo del lungo racconto di Tolstoj. Nel primo, cronologicamente successivo a tutti gli altri, la morte di Ivan è già avvenuta, e all'interno del Palazzo di Giustizia, regno professionale di Il'ic, un suo collega ne legge notizia da un quotidiano e la rende nota agli altri presenti. E' in questo capitolo che l'ambiente di lavoro e anche familiare del protagonista viene delineato con scanzonato cinismo e una giusta dose di ironia: "tutti gli volevano bene" ma tutti traducono la morte di Il'ic e, quindi, il posto da lui lasciato vacante, in potenziali vantaggi professionali e tutti, dopo un primo attimo di costernazione, tirano un sospiro di sollievo perché l'evento non è accaduto a loro ma a un altro e iniziano a percepire il fastidio delle ritualità sociali che una tale situazione si porta dietro, il disturbo che arreca al normale svolgimento della loro quotidianità; persino la moglie si preoccupa, prima ancora della sepoltura, di come sfruttare al massimo, economicamente, la morte del marito.
Tolstoj, da subito ci apre il velo dell'ipocrisia per lasciarci entrare nei più reconditi pensieri dei personaggi, modalità stilistica che userà anche nella descrizione della vita e della morte dello stesso Il'ic, rendendo la percezione del narrato così incisiva da farci cogliere le sensazioni del protagonista in modo diretto quasi annullando l'opera di mediazione dello scrittore.

Ivan, figlio di un burocrate con un impiego fittizio il cui unico scopo è percepire uno stipendio a cui non corrisponde un effettiva attività lavorativa,  intraprende gli studi di giurisprudenza e poi la carriera nello stesso ambito istituzionale. "...intelligente, vivace, simpatico, ammodo" così risultava durante gli studi ma anche dopo come funzionario statale: " una persona capace, gioviale e socievole, ma che seguiva coscienziosamente tutto quello che riteneva suo dovere; ed egli riteneva suo dovere tutto quello che era considerato tale dalle persone altolocate......sin dagli anni più giovanili si era manifestata in lui un'irresistibile attrazione, pari a quella delle mosche per la luce, verso la persone più altolocate della società: aveva cercato di appropriarsi delle loro maniere e delle loro idee e di stringere con loro relazioni amichevoli".
"Altolocate" una delle parole insieme a "piacevolezza e decoro" che ricorrono più spesso e quasi scandiscono l'esistenza di Ivan, intorno ad esse egli organizza la propria vita: il lavoro, le relazioni sociali, il matrimonio, il suo stesso pensiero.
Questa artificiosa costruzione rende la sua vita priva di autentici rapporti relazionali a tutti i livelli, inaridisce i suoi sentimenti verso gli altri e quelli degli altri verso di lui, le sue scelte non sono animate da profonda e sincera consapevolezza di sé ma da una preordinata aderenza a schemi convenzionali.
Ma di questo non si renderà conto fino a quando la malattia non lo metterà di fronte al tragico preannunciarsi della sua fine.

A circa metà del racconto, Tolstoj inizia a narrarci la sua morte in un crescendo narrativo di drammatica intensità, mantenendo sempre una scrittura equilibrata e mai enfatica.
Il presentarsi di un dolore prima sporadico e poi sempre più presente e intenso induce Il'ic a una instabilità emotiva che lo rende insofferente a tutto. Inizia un andirivieni di visite mediche, fino a quando l'uomo non vedrà nei dottori lo stesso atteggiamento di circostanza, quel misto di condiscendenza, superficialità e menzogna con cui lui stesso, nell'ambito del lavoro, trattava gli altri.
L'alternarsi di paura e speranza, di voglia di distrarsi dal pensiero della malattia e dell'ineluttabile ricaderci dentro, lo portano a un parossismo in cui di decoroso rimane ben poco. Ivan stenta a credere che quell'assurda cosa, la morte, si stia avvicinando a lui, inizia a leggere trattati di medicina, a origliare discorsi su malattie simili alla sua, ad ascoltare con attenzione il suo stesso corpo per carpire il benché minimo segno di miglioramento. Lo sconforto diventa terrore verso qualcosa di inconcepibile, e trasporta la mente verso un baratro oscuro senza alcun appiglio con cui salvarsi.
Si sente solo, la famiglia sembra evitarlo infastidita dalla sua malattia; al posto di una reale vicinanza quello che riesce ad avere dai suoi familiari è solo una menzogna edulcorata sul suo stato dalla quale si ritrae perché di nessun conforto. Ripercorre la sua vita a ritroso e trova solo una parvenza di vita, piegata a imitazione di altre, senza reale veridicità neanche nel rapporto con se stesso. L'unica persona con cui si trova a suo agio è il servitore, Gerasim, che, privo di sovrastrutture culturali, lo assiste, anche nelle incombenze più sgradevoli, con naturalezza e vitale praticità, semplicemente perché è quello che si deve fare, quello che richiede la realtà delle cose; è l'unico a possedere quell'autenticità che Ivan ha escluso dalla sua vita ed è l'unico verso il quale non prova una sorta di odio per il suo buono stato di salute.
La sua prostrazione aumenta con lo scorrere del tempo, con la persistenza e l'accrescersi del suo dolore, si rifugia nel suo passato, nella sua infanzia dove trova gli unici momenti di vera gioia, ma nella vita "le sofferenze si fanno sempre peggiori, più si va avanti, e così tutta la vita, è andata avanti diventando sempre peggiore. Soltanto laggiù, lontano, all'inizio della vita, c'era un punto luminoso poi le cose diventavano sempre più nere..." " la vita, una serie di sofferenze accelerate, precipita sempre più velocemente verso la fine, verso l'ultima sofferenza".
Ormai è in preda al terrore, e la sua mente ne è avvolta, scoppia a piangere come un bambino. "Piangeva sulla propria impotenza, sulla propria orribile solitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di Dio, sull'assenza di Dio".
Vive sul suo divano, con il volto rivolto verso lo schienale, si dibatte , urla, non troverà pace se non quando scenderà fino in fondo all'abisso in cui è trascinato, quando comprenderà se stesso e la sua vita, e in questa consapevolezza si sentirà libero e vero, la morte non lo spaventerà più, "la morte è finita".

La scrittura di Tolstoj è eccellente, la capacità dell'autore è quella, pur narrando in terza persona, di metterci in contatto con i pensieri di Ivan, di farci conoscere direttamente le sue sensazioni più intime, la percezione del dolore, della malattia, della paura, della morte, di seguire il suo percorso emotivo di fronte all'assurdità della vita. Mette il suo protagonista e il lettore di fronte al dilemma di dare un senso all'esistenza, di annullare il tempo della vita per trovarne l'essenza, di capire che solo instaurando rapporti autentici con sé e con gli altri, al di là e al di sopra di formali costruzioni di facciata e di comodo, si può trovare la pacificazione di fronte alla morte. E tutto questo lo fa con una scrittura semplice, disincantata e venata di una elegante ironia.

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