sabato 29 agosto 2015

La poesia della domenica - Rainer Maria Rilke, La sera è il mio libro

G. Chiovelli, La sera
Una poesia giovanile di Rilke: venne composta, infatti, nel novembre 1897, a Berlino.
Si regge su una semplice metafora, subito dichiarata nell'apertura: sera-libro.
Questo non pregiudica (anzi, eccita ancor più) l'intensità lirica e la sensazione d'uno struggimento dolcissimo, di quiete ineffabile.



La sera è il mio libro. Risplende
nella rilegatura di damasco rosso
sfiorando l'oro delle cuciture
la apro con le mani, adagio.

E leggo la sua prima pagina
felice di trovare un tono calmo
leggo più sottovoce la seconda,
e la terza già la sogno.

Da Requiem e altre poesie, 1992. Traduzione di Giuliano Donati.

giovedì 27 agosto 2015

RAI5 e una certa, cospiqua eredità

Paolo Stoppa e Tino Carraro
ne 'I corvi'
G. Luca Chiovelli

Il 24 agosto, in occasione del decennale della morte del regista Sandro Bolchi, una delle tante propaggini della RAI (RAI 5, ovvero quella che viene dopo le greppie di RAI1 RAI2 RAI3 RAI4 - fra le altre) ha proposto, in prima serata, lo sceneggiato Miss Mabel (ricompreso in un breve ciclo-revival di quattro sceneggiati chiamato, con smisurata fantasia, "Viva Sandro Bolchi!").
Un'operazione meritoria. Non ci sono dubbi su questo.
Miss Mabel, tratto da una pièce dell'inglese Robert Cedric Sherriff (del 1948), fu originariamente trasmesso nel 1959; vanta come interpreti Evi Maltagliati, Lucilla Morlacchi, Tino Carraro e Angela Cicorelli.
Consueti grandi attori, direzione sobria ed elegante, mirabile bianco e nero.
Gli attori, i registi e l'Italia di mezzo secolo fa.
Questa la trama: "In occasione della morte di Miss Fletcher, sua sorella gemella, Miss Mabel, il suo notaio, Anderson, invitano a casa Peter e Mary, una giovane coppia di fidanzati, il giardiniere, il dottore con sua moglie e il vicario del paese per notificare loro dei lasciti operati dalla deceduta. L'eredità consente al giardiniere Watkins di comperarsi un vivaio dove potrà coltivare tutti i fiori da lui tanto amati, ai due fidanzati di costruirsi un futuro prospero e felice, al dottore di creare un reparto di maternità, al vicario di fondare una colonia marina per i bambini bisognosi della comunità e alla sorella Mabel di trascorrere una vecchiaia serena e tranquilla. La generosità di Miss Fletcher sembra sospetta, presto il notaio scopre che Miss Mabel si è sostituita alla gemella per cambiare le condizioni del testamento in favore delle persone a lei care. Il malinteso viene chiarito e rivelato ai neo beneficiari che vengono a scoprire che la dolce Miss Mabel ha in realtà ucciso la sorella".
Questa trama l'ho trovata su Internet, presso tale sito.
La trama di RAI5, invece, quella che potete leggere digitando il tasto INFO sul vostro telecomando era un pochino diversa. Essa condensava il succo in quattro righe pericolanti, fra cui spiccavano, come uno schizzo di sugo su uno smoking bianco, le parole: "... una cospiqua eredità ..." (o, forse, "... una cospiqua somma ...", cito a memoria).
Ricordiamo che RAI5 trasmette Sandro Bolchi su impulso di RAI Cultura.
E RAI5 (sospinta culturalmente da RAI Cultura) possiede anche un ufficio stampa (un Ufficio Stampa) che licenzia, via Internet, pagine come questa:


Qui non vi sono errori cospiqui, ma la consueta, dilagante sciatteria.
Nella trama: "... Miss Mabel, in occasione della morte della sua sorella gemella Miss Mabel ..." e nella foto, che ritrae Paolo Stoppa e Tino Carraro non già in Miss Mabel, ma in un altro sceneggiato bolchiano: I corvi, tratto da Henry Becque, e trasmesso il 7 gennaio 1969.
E torniamo all'errore cospiquo. Un filologo, con acribia filologica, fa anche notare che il termine "cospicuo" deriva dal latino conspicŭus, 'che dà nell'occhio’, da 'conspicĕre ‘scorgere, guardare’: e dire, perciò, cospicua eredità è già una forzatura.
Su questo non metto becco: sono ignorante. Mi sarei comunque accontentato, in una trasmissione di RAI5 aizzata nientepopodimeno che da RAI Cultura, di leggere "una cospicua eredità" in luogo di "una cospiqua eredità".
Converrete che l'errore è cospiquo, in qualunque accezione vogliate soppesarlo.
Ed è errore che non deriva da svista. 'Cospica' è una svista. 'Copicua'. 'Cosicua'. Non 'cospiqua'.
Chi ha scritto 'cospiqua' (sia egli/ella lavoratore/trice di RAI5 o RAI Cultura) non ha la minima idea di cosa significhi cospicuo. Azzardo, inoltre, che egli/ella non ha la minima idea di chi sia Sandro Bolchi, Paolo Stoppa, Tino Carraro, il teatro, la cultura, il cinema e la vita; o se ne frega altamente dei suddetti.
E pensare che quel bianco e nero mi aveva così bendisposto.
E invece questo fattarello mi ha sospinto, culturalmente, a una depressione suicida. La vitalità è colata via da un invisibile ferita dell'anima.
Certi giorni vien proprio voglia di piantarsi una pallottola nel palato.
Per così poco, direte voi. Certo, questo fattarello è solo un fattarello. Ma a chi passeggia sul ciglio di uno strapiombo basta un ciottolo per sprofondare in basso e perdersi.
Non so quanti di voi abbiano a cuore l'Italia.
Vedere una nazione e un paese di tremila anni nelle mani di un branco di cialtroni è moralmente insostenibile.
Potrei ritrarmi a osservare, con gusto macabro, il disfacimento.
Potrei farlo, se non fosse così doloroso, troppo doloroso.

mercoledì 12 agosto 2015

La poesia del giovedì - Guilhelm Figueira, Roma ingannatrice di tutti i mali guida

Un sirventese provenzale (occitanico) scritto nel clima antiromano, anticlericale e antifrancese seguito ai massacri delle crociate contro gli Albigesi (a Bezier, il 22 luglio 1209, furono uccisi fra i 7000 e i 20000 eretici).
L'invettiva contro il covo di vipere romane è dura e giustamente celebre, ma non è questo che ci interessa.
Ciò che interessa è che, fra il 1227 e il 1229, un tolosano, Guilhelm Figueira appunto, potesse già esprimere posizioni nettamente ghibelline (contro il Papa e a favore dell'Imperatore Federico II di Svevia) e un intransigente moto dell'anima, dettato dal disgusto verso la cupidigia e l'odio che originarono le stragi; un moto del cuore (e della ragione filosofica) che, qualche decennio più tardi, si ascriverà ai grandi poeti italiani: fra i sommi, Dante, e il primo amico e iniziatore di Dante, Guido Cavalcanti.
Nel seno dell'Europa, segnato tragicamente da tali eventi, sorgevano, insomma, potentissimi aneliti alla palingenesi spirituale e alla genuinità del primo Cristianesimo.
Da tale punto di vista non sono infondate quelle ipotesi, pur minoritarie, che vedono nei poeti ghibellini italiani una sorta di setta politico-spirituale che ostentava un formale omaggio alla Chiesa, e che invece, al riparo da un linguaggio letterario a doppio taglio, esoterico, la additava al disprezzo, auspicando, al contempo, l'avvento d'una figura in grado di restaurare la purezza del messaggio evangelico.
Queste interpretazioni furono sempre rigettate come bislacche; per me non lo sono. Anzi, mi colmano di gioia; e di felicità; seppur fossero false. Leggendo di questi uomini, persi nei cunicoli folli della storia:  uomini a volte meschini, a volte nobili; ora traditori e servili, altre solitari e tetragoni contro il vento delle epoche; di fronte a tali sofferenze, a tali pensieri smisurati, a tali incroci di mondi, filosofie e passioni, non posso che provare il sentimento vertiginoso e smisurato della meraviglia. E non è la sempre risorgente meraviglia l'origine dell'amore per la conoscenza?

Traduzione e note di Francesco Zambon.

* * * * *

Non voglio più tardare né esitare ancora
a comporre un sirventese su questa melodia che mi piace;‎
eppure non ho dubbi che mi procurerà sentimenti ostili
perché questo sirventese tratta
dei falsi e dei perfidi
di Roma, che è alla testa della decadenza
in cui degenera ogni bene.‎

Non mi stupisco, Roma, se la gente cade in errore,‎
perché hai gettato il mondo in tormento e in guerra
e pregio e pietà muoiono a causa tua e sono sotterrati,‎
Roma ingannatrice,‎
di tutti i mali guida,‎
cima e radice: tanto che il nobile re d'Inghilterra
è stato da te tradito.‎

Roma bara, la cupidigia ti acceca:‎
alle tue pecorelle tondi troppo la lana.‎
Lo Spirito Santo che assunse carne umana
ascolti le mie preghiere
e spezzi il tuo becco.‎
Roma, non ti darò tregua: perché sei falsa e perfida
con noi e con i Greci.‎

Roma, ai deboli di mente tu rodi la carne e le ossa
e guidi i ciechi con te dentro alla fossa;‎
trasgredisci i comandamenti di Dio, tanto grande
è la tua cupidigia:‎
in cambio di denaro
perdoni i peccati. Roma, di un pesante fardello
di male ti carichi.‎

Roma, sappi che il tuo vile mercato‎
e la tua follia hanno causato la perdita di Damietta.‎
Male ti comporti, Roma; Dio ti abbatta
e ti mandi in rovina,‎
perché ipocritamente
ti comporti per denaro, Roma di vile razza
e violatrice di patti.‎

Roma, davvero io so con assoluta certezza‎
che sotto parvenza di falso perdono
hai mandato al supplizio la nobiltà di Francia,‎
lontano dal paradiso,‎
e che hai ucciso,‎
Roma, il nobile re Luigi: perché con false prediche
lo hai attirato fuori di Parigi.‎

Roma, ai Saraceni fai ben poco danno,‎
ma Greci e Latini li mandi al massacro.‎
Nel fuoco dell'abisso, Roma, hai eletto dimora,‎
nella perdizione.‎
Dio non mi faccia mai partecipe,‎
Roma, del perdono e del pellegrinaggio
che hai fatto ad Avignone.‎

Roma, senza ragione hai ucciso molta gente
e non mi piace affatto la via tortuosa che segui,‎
perché alla salvezza, Roma, sbarri la porta.‎
Ha una pessima guida
in estate come in inverno
chi segue le tue orme, perché il diavolo lo trascina
nel fuoco dell'inferno.‎

Roma, è facile dirti il male che meriti,‎
dato che per scherno martirizzi i cristiani;‎
ma in quale libro trovi scritto che si debbano uccidere,‎
Roma, i cristiani?‎
Dio, che è il pane vero
e quotidiano, mi conceda di veder capitare
ciò che desidero ai Romani.‎

Roma, sei stata veramente assai sollecita
negli ipocriti perdoni che hai concesso a danno di Tolosa:‎
ti rodi le mani alla maniera di una rabbiosa,‎
Roma seminatrice di discordia.‎
Ma se il valoroso conte
vive ancora due anni, la Francia avrà motivo di dolersi
dei tuoi inganni.‎

Roma, è così grande il tuo tradimento
che provochi il disprezzo di Dio e dei suoi santi;‎
ti comporti cosi male, Roma falsa e perfida,‎
che per te sparisce,‎
diminuisce e si dissolve
la gioia di questo mondo. E fai un grave oltraggio
al conte Raimondo.‎

Roma, Dio aiuti e dia potere e forza
al conte che tonde i Francesi e li scortica,‎
calpestandoli sotto i suoi piedi quando li affronta:‎
che gioia per me!‎
Roma, Dio si ricordi
dei tuoi grandi torti; e gli piaccia sottrarre il conte
a te e alla morte.‎

Roma, mi consola il fatto che tra poco‎
andrai a finire male se il giusto Imperatore
segue senza deviare il suo destino e fa quello che deve.‎
Roma, in verità lo dico,‎
vedremo decadere
la tua potenza: Roma, il vero Salvatore
mi conceda di vederlo presto.‎

Roma, per denaro tu compi molte azioni spregevoli,‎
molte insolenze e molte vigliaccherie.‎
Tale è la tua smania di dominare il mondo
che nulla temi,‎
né Dio né i suoi divieti:‎
anzi vedo che fai dieci volte più male
di quanto io non sia in grado di dire.‎

Roma, tu stringi cosi forte i tuoi artigli,‎
che ciò che puoi afferrare difficilmente ti sfugge;‎
se al più presto non perdi la tua potenza, in trappola
sarà caduto il mondo:‎
sarà morto e sconfitto
e il pregio distrutto. Roma, il tuo papa
fa di questi miracoli.‎

Roma, Colui che è Luce del mondo, vera vita
e vera salvezza, ti mandi in malora,‎
perché tanti e cosi risaputi sono i tuoi misfatti, da far
gridare il mondo.‎
Roma sleale,‎
radice di ogni male,‎
nel fuoco infernale brucerai senza scampo,‎
se non cambi rotta.‎

Roma, meriti biasimo a causa dei tuoi cardinali
per i criminali peccati di cui fanno parlare,‎
perché non pensano se non a come poter rivendere
Dio e chi lo ama;‎
e a nulla serve correggerli.‎
Roma, è disgustoso ascoltare e sentire
le tue prediche.‎

Roma, sono indignato perché il tuo potere aumenta
e grande angoscia per causa tua ci opprime tutti:‎
sei rifugio e fonte di inganno, di vergogna
e di disonore.‎
I tuoi pastori
sono impostori e falsi, Roma, e chi li frequenta
fa davvero una cosa insensata.‎

Roma, male agisce il papa quando contende
all'imperatore il diritto alla corona,‎
lo dichiara in errore e concede il perdono ai suoi nemici:‎
un simile perdono
non conforme a ragione,‎
Roma, è ingiusto; e chi lo giustifica
si copre di vergogna.‎

Roma, il Glorioso, che per noi soffrì mortale dolore‎
sulla croce, ti dia cattiva sorte,‎
perché vuoi sempre portare la borsa piena,‎
Roma di malaffare,‎
che hai il cuore tutto‎
volto al guadagno: per questo la cupidigia ti trascina
nel fuoco inestinguibile.‎

Roma, dal rancore che porti nella gola
nasce il succo di cui muore e si strangola lo sventurato
sentendo in cuore dolcezza; perciò il saggio trema
quando riconosce e distingue
il mortale veleno
‎(e da dove viene: Roma, dal cuore ti cola!)‎
di cui sono colmi i petti.‎

Roma, si è sempre sentito raccontare‎
che la tua testa è vuota perché la fai spesso rasare.‎
Per questo penso e credo che bisognerebbe strapparti,‎
Roma, il cervello
perché un cappello d'infamia
portate tu e Cìteaux, che a Béziers avete ordinato
uno spaventoso massacro.‎

Roma, con esca ingannatrice tu tendi la tua rete
e mangi molti bocconi maledetti, chiunque ne sia vittima,‎
perché sotto il tuo innocente aspetto di agnello
si nascondono lupi rapaci,‎
serpenti coronati
nati da vipera: per questo il diavolo li accoglie
come suoi intimi.‎

Note


[Guilhelm Figueira], tolosano di origine e sarto di professione, secondo la vida antica Guilhem Figueira avrebbe abbandonato la sua città quando essa cadde in mano ai Francesi (11 aprile 1229) e si sarebbe trasferito in Lombardia; a Tolosa compose questo celebre sirventese fra il 1227 e il 1229. 

1-2: Lo schema metrico della poesia e con ogni probabilità anche la sua melodia sono quelli della canzone mariana Flors de paradis, regina de bon aire.

9: Si allude naturalmente alla Crociata contro gli Albigesi.

13-14: Giovanni Senzaterra, il cui nipote Ottone di Brunswick era stato scomunicato e deposto dal trono di Germania a favore di Federico II.

17: La definizione di Cristo come Spirito Santo incarnato potrebbe rivelare un influsso della dottrina catara.

37: Riferimento all'indulgenza concessa dalla Chiesa ai nobili francesi che prendevano parte alla Crociata albigese.

40-42: Il trovato re allude a Luigi VIII, che morì a Montpensier il 2 novembre 1226, subito dopo la presa di Avignone.

68: Raimondo VII di Tolosa.

78-81: Quando Guilhem Figueira scriveva, il conte Raimondo non si era dunque ancora arreso ai Francesi (11 aprile 1229).

86: L'imperatore Federico II, dal quale il trovatore spera sostegno alla causa tolosana.

127-128: Nel conflitto tra Federico II e il papa Gregorio IX, Figueira - su posizioni che si potrebbero definire "ghibelline" ante litteram - si schiera decisamente a favore dell'imperatore.

152: Il senso è: "avete una pessima reputazione", con allusione ai cappelli infamanti che erano obbligati a portare alcuni condannati.

153-154: La responsabilità del massacro compiuto a Béziers il 22 luglio 1209 (le fonti indicano tra le 7.000 e le 20.000 vittime) ricade essenzialmente sulle spalle dell'abate cistercense Arnaut Amalric, che comandava l'esercito crociato e che, secondo il cronista tedesco Cesario di Heisterbach, non potendo distinguere fra eretici e cattolici, avrebbe pronunciato la terribile frase: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi".

157-158: Questa immagine (che risale a luoghi evangelici come Mt 7,15 e Lc 6,44) era corrente nel medioevo. I Catari la usavano nella loro polemica antiromana; cfr. per esempio il trattato apologetico La Chiesa di Dio: ,,[La Chiesa romana] perseguita e assassina chiunque non voglia acconsentire ai suoi peccati e alle sue azioni. Essa non fugge di città in città, ma domina le città, i borghi e le province e siede maestosamente nelle pompe di questo mondo; ed è temuta dai re, dagli imperatori e dagli altri signori. Non è affatto come le pecore fra i lupi, ma come i lupi fra le pecore e i capri [ ... ]. Soprattutto, perseguita e assassina la santa Chiesa di Cristo, la quale sopporta tutto con pazienza, come fa la pecora che non si difende dal lupo. Eppure, in contrasto con tutto ciò, i pastori della Chiesa romana non si vergognano di dire che sono loro le pecore e gli agnelli di Cristo; e dicono che la Chiesa di Cristo, quella che perseguitano, è la Chiesa dei lupi. Ma questa è una cosa assurda, perché una volta i lupi perseguitavano e uccidevano le pecore.
Bisognerebbe che oggi tutto andasse alla rovescia perché le pecore fossero diventate tanto feroci da mordere, inseguire e uccidere i lupi".

159: I serpenti coronati sono i vescovi e i prelati che portano la corona, cioè la mitria; per il riferimento alla "razza di vipere", cfr. Mt 3,7 e Ld,7.

sabato 8 agosto 2015

La poesia della domenica - Muhammad Ibn Arabi, La mia Anima è tutta presa di Lei

Ibn Arabi (Murcia 7 agosto 1165 - Damasco 16 novembre 1240) fu un filosofo e poeta mistico dell'Islam.
Una figura gigantesca (è detto "sommo maestro") di cui, in Europa, si sa poco o nulla (fanno eccezione gli studi di Henry Corbin e poco altro; alcune traduzioni italiane sono, invece, disponibili, ancorché rapsodiche).
Ibn Arabi viaggiò molto, avido di verità e conoscenza: Arabia, Nord Africa, Medio Oriente e, infine, la Siria, Damasco. Da giovane incontrò Averroè, il più importante filosofo arabo medioevale; non più giovane conobbe, invece, Rumi, il grande poeta mistico della Persia. Tali notazioni biografiche non sono oziose: servono a far capire all'ascoltatore disattento che, nel secondo secolo del secondo millennio, l'influenza dottrinale e filosofica dell'Islam si estendeva dalla Cina sino alla Spagna. Studiare la cultura del Medioevo europeo significa necessariamente far riferimento a tale cultura. 
In Ibn Arabi tutto è  simbolo. Il volto dell'amante, le sopracciglia, la bocca; l'alba il giorno la notte.
La Donna, qui, è la Divina Sapienza. Dio. L'Amore è estinzione del proprio sé a favore dell'annullamento in Dio. Dove è il corpo non è Dio, dove è Dio non esiste il corpo.
La selva di simboli mistici è spesso impenetrabile, ma anche una lettura superficiale, che non ne tenga conto, è egualmente appagante.
Anche la Vita Nova di Dante è tale, se pur se ne ignori il significato profondo.
Alcuni temerari hanno messo in connessione tale misticismo con quello dello stil novo italiano. Sono stati respinti con perdite. Anch'io ero scettico, poi ho mutato parere. Laddove inizia la prima poesia europea vi è, infatti, l'Islam: in Provenza (sottoposta alla pressione culturale della Spagna moresca; non dimentichiamo che il liuto è arabo: al' ud); e in Sicilia (araba per un secolo) quando, presso la corte la corte di Federico II, si sviluppò la radice possente della letteratura nazionale. Come poteva il misticismo di Guido Cavalcanti, Dante, Guinizelli essere immune da tali condizionamenti? Immune da una tradizione mistica soverchiante che avviluppava l'Europa dalla Turchia sino all'Africa e alla Spagna e che, proprio allora, nei suoi celeberrimi centri di traduzione, stava recuperando alla comprensione occidentale i capolavori della filosofia e della scienza classiche? Lo ritengo impossibile. Con ciò non si vuol certo significare che Donna me prega o Donne ch'avete intelletto d'amore siano poesie di ascendenza islamica. Si vuol significare, più modestamente, ma non con minor importanza, che il nucleo ideologico di tale visione metafisica aveva la propria scaturigine nel pensiero mistico dell'Islam (o meglio: in una parte d'esso, quello sufi, di respiro universale; eretico, quindi, rispetto all'ortodossia sunnita) proprio di alcuni pensatori d'eccezione: fra questi, Ibn Arabi.
Stupiti?
"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quanto ne sogni la tua filosofia".

La mia Anima è tutta presa di Lei
benché io non possa vedere il Suo Volto;
se potessi vedere il Suo Viso,
sarei ucciso dalle Sue Sopracciglia scure;
e quando il mio sguardo cadesse su di Lei,
cadrei prigioniero di ciò che vedrei,
e passerei la notte stregato da Lei,
e delirerei ancora quando l’Alba si fa luminosa.
Ahimè! Per la mia grande risolutezza!
Io dico che se la grande risolutezza giovasse,
la Bellezza di quella timida Incantatrice,
non mi avrebbe reso così smarrito.
È per Bellezza come una tenera Gazzella,
il cui pascolo conoscono gli Asini Selvatici,
il cui sguardo timido, col capo a metà distolto,
rende schiave le Anime degli Uomini!
Il sue respiro è  così dolce che sembrerebbe
deliziante profumo di muschio odoroso,
lei è radiosa come il Sole di mezzogiorno,
lei brilla come la Luce della Luna.
Se appare, rivela
lo Splendore incantato del Mattino;
se scioglie le Sue trecce, la Luna
è nascosta dai Suoi Capelli neri come la notte.
Prendi il mio cuore ma lasciami, ti prego, i miei occhi,
o Luna, attraverso la Notte più scura,
che io possa guardarti.
Perché tutta la mia gioia è in ciò che vedo!

Traduzione di S.A.Q. Husaini

domenica 2 agosto 2015

A Montemario, Roma, ho visto l'orrore


G. Luca Chiovelli

Il guidatore che scivoli lungo la via della Pineta Sacchetti in direzione Montemario, si troverà, oltrepassato l'ospedale Gemelli, a un bivio: a destra proseguirà per il detto quartiere o per la via Cortina d'Ampezzo e Camilluccia; a sinistra verrà inghiottito dai tunnel della galleria Giovanni XXIII.
Se il nostro viaggiatore è un tipo curioso, o attento ai particolari o, semplicemente, gli sarà sfuggita un occhiata casuale, potrà avvedersi di uno strano manufatto, proprio al di sopra degli imbocchi della succitata galleria, situato su una sorta di terrazzino; un monumento postmoderno, di quelli che il Comune si compiace a inaugurare ogni tanto e che, oggi, da tutti dimenticato, si rivela per quello che è: un rugginoso lascito della stupidità e dell'insensatezza.
Negli anni addietro l'avevo notato molte volte, rimandando, però, la perlustrazione.
Ora, alle soglie dell'agosto, improvvisamente, decido l'avventura.
Lascio l'automobile alle spalle della struttura di cemento sovrastante la galleria; qui, infatti, s'aprono una serie di parcheggi, vasti e deserti. L'asfalto e i marciapiedi sono sbriciolati, il pattume, ereditato da anni d'incuria, si compatta, struggendosi in una nuova entità materica: una sorta d'agente dell'entropia metropolitana, vivo e senziente, e in grado di riprodursi e attaccare ogni organismo ed oggetto che rivendichi un qualsivoglia ordine: ciò che Philip Dick chiamava kipple.


 La vista dalla terrazza: dalle viscere entra ed esce il traffico della galleria Giovanni XXIII


Siamo sulla terrazza, proprio sopra l'imbocco delle gallerie.
Il luogo è fitto di stoppie bruciate dal sole. Un prato di sterpi scarmigliati e spinosi commisto a bicchieri e bottigliette di plastica, confezioni di merendine e gelati, carte luridissime e merde di cane: quasi una nuova flora artificiale. 
Sono circa le quattro del pomeriggio.
Nonostante la vicinanza di due popolosi quartieri, dell'ospedale più grande di Roma nord e di una delle vie più trafficate della capitale, si prova un senso di solitudine schiacciante.
Ma non è la solitudine ristoratrice invocata da Francesco Petrarca nel De vita solitaria, o dal lavoratore che stacca dalla propria occupazione manuale. Questo, al contrario, è un senso di solitudine disperante, che nasce nell'animo dell'uomo quando si rende conto che il luogo in cui vive, il proprio mondo, non è fatto per sé e per i proprio simili.
La canicola smorza ogni suono. Persino i sistri delle cicale ammutoliscono. Si avvertono unicamente due rumori: lo sfrecciare delle auto, poco sotto, incessante, e un cupo bordone sonoro, profondo e cavernoso: probabilmente il borbottio dei macchinari del vicino Gemelli, i cuori meccanici che sorreggono l'intero ospedale, una città nella città.
Questo è davvero un non-luogo: inumano, altro; orribile.


Solo un grande scrittore fantastico è riuscito a trasmettere la verità di tale sensazione. James G. Ballard ne L'isola di cemento. Nel racconto, il protagonista Robert Maitland, un professionista di successo, ha un incidente: dopo essere sbandato con la propria Jaguar lungo una scarpata, si ritrova in un avvallamento incolto e solitario; un terreno ritagliato da veloci passanti autostradali, una sorta di risulta abbandonata dopo enormi lavori di urbanizzazione.
In quel luogo-non luogo Maitland naufragherà, psicologicamente e materialmente; nonostante sia circondato dalle arterie pulsanti della modernità, che pompano continuamente automobili e vite appena sopra di lui. 


Ma lasciamo le vertigini metafisiche per tornare alla fanga del buon senso e dell'attualità.
Questo accrocco sghembo di metallo cos'è?
Un totem  post-apocalittico? Un Minosse idiota che vigila sul traffico inghiottito da tunnel infernali? Un memento del nulla? O una creazione astratta per invogliare i cani a pisciare?
E cos'era in origine?
Avrà significato qualcosa per alcuni urbanisti, architetti, artisti?
Saranno mai esistiti funzionari comunali che hanno vagliato alternative, inoltrato pareri, proposto ubicazioni, targhe, omaggi?
E ci sarà stato un organismo politico che, infine, ha approvato tutto questo?
Un Abu al-Baghdadi comunale a cui addossare una, pur inutile, responsabilità?
Ancora più difficile: c'è mai stato un romano, fra quelli che hanno vantato potere decisionale, a rendersi conto di tale bruttura? A capire che, in tal modo, si strappava alla storia e alla bellezza una parte della città più importante del mondo per consegnarla irreversibilmente alla degenerazione e al degrado?
C'è ancora qualcuno in grado di sentire nell'animo queste atrocità? 
Se mai dovessi stilare un baedeker romano della follia e della depressione questo luogo comparirebbe di sicuro.


A duecento metri dall'orrore, inopinatamente, un'apparizione miracolosa, insperata.
Un mozzicone della campagna romana d'un tempo; le lacerta d'una entrata fondiaria (si è nei pressi dell'antica tenuta di Sant'Agata) oppure un'edicola mariana,  non saprei.
Un residuo prossimo alla cancellazione: Via Trionfale 8062.
Chissà quando capitolerà questo rudere impertinente!
Pian piano, una breccia alla volta.
Magari, dopo una pioggia intensa, deciderà il suicidio, come è spesso avvenuto: come è stato, per esempio, per lo splendido portale barocco delle Mura dei Francesi a Ciampino (vedi il relativo post). Sì, quando il passato si sente trascurato e vilipeso, esso decide il suicidio. 
Un giorno non lontano queste vecchie ossa rovineranno, in una breve nuvola di polvere e pietrisco; la nettezza urbana provvederà a spolverare via il grosso del materiale; l'area verrà, perciò, circondata dai nastri, sotto gli occhi scocciati di qualche vigile. In seguito, quando i nastri scoloriti dal sole e dalla pioggia fluttueranno brancicando ciechi nell'aria, arriverà l'asfaltatura, sollecitata dai solerti comitati di quartiere: e allora si spianerà pure quel moncone invadente: al suo posto una passata di bitume odoroso.
Di questo minuscolo luogo non rimarrà traccia alcuna, se non in qualche riga zelante sepolta in chissà quale libro che nessuno leggerà, ovviamente, perché chi ha interesse, oggi, a leggere cosa eravamo e cosa siamo diventati? Noioso, pedante; uffa! E porta pure jella.
Avverrà questo, è certo, me lo sento nelle ossa.
E tale sarà per Roma. Inutile accanirsi.