domenica 20 dicembre 2015

La poesia della domenica - Stéphane Mallarmé, Brezza marina

E. Manet - Il bevitore d'assenzio
Vi sono momenti, nella storia, in cui ogni vincolo, ogni religione e tradizione precedente più non tiene.
Tutto disgusta, suona falso, appare scolorito, non induce all'azione; quella congerie di credenze che innervavano il presente e donavano un senso al vivere risultano oramai quale confusa massa di ciarpame.
Gli uomini migliori avvertono da subito questo stato di cose; il loro sguardo diviene, quindi, o rabbioso, oppure disilluso o, semplicemente, stanco. Stanco, sfibrato, sfinito; persino dall'arte.
Si cerca l'evasione. Fuggire diviene la parola d'ordine. Dal conformismo, dalla famiglia, dalla convenzione sociale. Si fugge, all'esterno, nei Mari del Sud, in Africa, in Asia. Into the wild. La natura straniera. O si fugge interiormente, divenendo ubriachi, drogati, scandalosi, eretici o solo bislacchi.
Nell'Ottocento la reazione escapista si formò in opposizione a un mondo tradizionale (religioso, accademico, militare) ancora fiorente e solidamente strutturato: tale reazione, perciò, fu altrettanto fiorente, linguisticamente splendida. Oggi, invece, il mondo tradizionale è talmente sfilacciato, impalpabile e corroso dalla ragione che la reazione ad esso si concreta esclusivamente in un caotico vilipendio, in quel ridicolo gallinaio che i fessi ancora spacciano per libertà ("la libertà, questo nome terribile scritto sul carro degli uragani", diceva quel Tale).
Il decadentismo anticipò la disfatta europea della Prima Guerra; la decadenza e l'anarchia morale attuali anticipano - è inevitabile - altre battaglie, altri conflitti, e nuove ecatombi.  


La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri.
Fuggire! laggiù fuggire! Io sento uccelli ebbri
d’essere tra l’ignota schiuma e i cieli!
Niente, né antichi giardini riflessi dagli occhi
terrà questo cuore che già si bagna nel mare
o notti! né il cerchio deserto della mia lampada
sul vuoto foglio difeso dal suo candore
né giovane donna che allatta il suo bambino.
Io partirò! Vascello che dondoli l’alberatura
l’àncora sciogli per una natura straniera!

E crede una Noia, tradita da speranze crudeli,
ancora nell’ultimo addio dei fazzoletti!
E gli alberi forse, richiamo dei temporali
son quelli che un vento inclina sopra i naufragi
sperduti, né antenne, né antenne, né verdi isolotti…
Ma ascolta, o mio cuore, il canto dei marinai!

da Poesie, traduzione di Luciana Frezza

martedì 15 dicembre 2015

Casal di Principe e la sua dissidente, faticosa bellezza

Elvira Sessa
Possono venti opere d’arte dichiarare guerra alla mafia?
I numeri della mostra “La luce vince l'ombra. Gli Uffizi a Casal di Principe”, svoltasi dal 21 giugno al 13 dicembre scorsi nel feudo del “clan dei Casalesi”, sembrano dire di sì.
Con circa 38.000 visitatori, di cui oltre 20 mila studenti, 50 scuole e 50 partners coinvolti ed 80 giovani volontari - casalesi e dei comuni limitrofi - designati come “Ambasciatori della Rinascita”, ossia come portavoce di un riscatto che parte dalla cultura, Casal di Principe ha lanciato la prima forte sfida contro il suo destino.
Tutto nella mostra - curata da Antonio Natali, Marta Onali, Fabrizio Vona e prodotta da First Social Life - parla di contrasti. A partire dall'allestimento: i capolavori sono stati ospitati in una villa confiscata al boss Egidio Coppola (detto, ironia della sorte, “Brutus”) ora dedicata al concittadino don Peppe Diana, sacerdote assassinato dalla camorra sul sagrato della sua chiesa nel 1994.
Provengono dal Museo di Capodimonte di Napoli, dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, dalla Reggia di Caserta e dal Museo Campano di Capua e recano la firma di artisti che vanno da Artemisia Gentileschi Lomi a Mattia Preti, da Luca Giordano a Battistello Caracciolo, spaziando da Andy Warhol alle sculture precristiane romane delle Madri di Capua.
Il primo dipinto del percorso espositivo, “Il Concerto”, una delle maggiori opere di Bartolomeo Manfredi, irrimediabilmente polverizzata da un ordigno esploso agli Uffizi nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 in un attentato di stampo mafioso, fa venire in mente le parole dell'autobiografia “Prima che sia notte” di Reinaldo Arenas, lo scrittore e poeta cubano che ha combattuto il regime castrista con le armi della penna e del bello, subendo torture e carcere: “La bellezza, in un sistema dittatoriale, è sempre dissidente, perché le dittature sono di per sé antiestetiche, grottesche. Praticare la bellezza è per i dittatori e i loro scagnozzi un atteggiamento reazionario”.
Questa bellezza contrastata e inquieta prorompe nei chiaroscuri delle pieghe del volto della vecchia nel dipinto “Salomè” del Battistello, nella pelle levigata e perlata di Venere contrapposta a quella del ruvido Satiro nell'opera di Pacecco De Rosa, nella sensualità della spalla scoperta della mamma che assiste all'orrore della morte del figlio nell'opera “La Strage degli innocenti” di Stanzione, nella mano che, nella copia dal Caravaggio de “L'incredulità di San Tommaso”, scava feroce nel costato di un Cristo sereno e luminoso.
Con questa iniziativa, il comune di Casal di Principe, “terra di punizione” già nel suo nome – che sembra derivi dal casale dove, sul finire del XV secolo, quando era terra malsana e acquitrinosa, era stato confinato il principe d'Ungheria per punirlo dell' attentato alla vita del padre - si ribella a chi lo vorrebbe affossato per sempre, proponendo un nuovo modello economico della conoscenza che coinvolge banche e imprese (quali Coop Italia, Unipol, Fondazione Unipolis, Banca Monte Paschi di Siena, Aletheia, Centro Commerciale Campania), il mondo della cultura e della politica (dagli Uffizi alla collaborazione con il Soroptimist International d’Italia, l’Associazione Amici degli Uffizi, la Seconda Università di Napoli e del Comitato don Peppe Diana).

Il percorso di rinascita è tutto in salita, come sottolinea Alessandro De lisi, responsabile culturale di "R-Rinascita", il progetto di start up sociali in cui si inserisce l'iniziativa: "Il un comune di ventimila abitanti, ben ottomila casalesi sono venuti a vedere la mostra" e poi aggiunge con ramamrico: "Siamo soddisfatti, si, ma solo parzialmente. Si vergognino quelli che non ci sono!".

Già Calvino ne “Le città invisibili”, invitava a non abbassare la guardia: “Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”


sabato 12 dicembre 2015

La poesia della domenica - Georg Trakl, La canzone di Kaspar Hauser

In un quieto pomeriggio del 1828, Norimberga è teatro di un'apparizione inopinata: un ragazzo, con vesti da contadino, si trascina con passo incerto sulla pubblica piazza. Non sa dire da dove viene, farfuglia pochi vocaboli, incongrui ("Diventare cavaliere!"), si trova a suo agio solo col buio, rifiuta il cibo, che lo disgusta, a meno che non sia o pane o acqua; dimostra una naturale benevolenza, un candore disarmante; forse si chiama Kaspar Hauser.
Più tardi, affidato alle cure del professor Georg Daumer, Kaspar rivelerà d'aver passato la propria breve vita da prigioniero, in una cella oscura, seviziato al minimo cenno di ribellione.
La sua origine rimane, però, un mistero; chi è davvero il "Fanciullo d'Europa", come è stato ribattezzato? Un trovatello o, come suppongono alcuni, un membro della casa reale del Baden, vittima di oscuri intrighi dinastici?
Nell'ottobre del '29 Kaspar è oggetto di un'aggressione; quattro anni più tardi, mentre passeggia nei giardini del palazzo di Anspach, viene pugnalato a morte.
E la morte, come sempre, cancella l'individuo, e pone le basi per il simbolo Kaspar Hauser; un simbolo potentissimo poiché lascia intravedere, al di là della facile aneddottica temporale, un sottofondo profondo e terribile (Rudolf Steiner ha dato della vicenda un'affascinante interpretazione esoterica).
Werner Herzog, l'ultimo dei grandi romantici tedeschi, ha tratto da tale esistenza fragile e commovente uno dei suoi film più belli (L'enigma di Kaspar Hauser, 1974).  

Egli veramente amava il sole, che purpureo il colle scendeva.
Le vie del bosco, il canoro uccello nero
e la gioia del verde.

Serio era il suo sostare all’ombra dell’albero
e puro il suo volto.
Dio parlava con soave fiamma al suo cuore:
oh, uomo!

Silenzioso il suo passo trovò la città di sera;
l’oscuro lamento della sua bocca:
voglio diventare un cavaliere.

Ma lui seguivano cespuglio e animale,
casa e giardino crepuscolare di uomini bianchi
e il suo assassino lo cercava.

Primavera ed estate e bello l’autunno
del giusto, il suo passo lieve
lungo le stanze oscure di sognanti.
Di notte egli rimaneva solo con la sua stella;

vide la neve cadere fra i rami nudi
e sulla soglia crepuscolare l’ombra dell’assassino.

Argenteo cadde il capo del non nato.

Da Sebastian in sogno, traduzione di Gilberto Forti.

sabato 28 novembre 2015

La poesia della domenica - Iacopone da Todi, Donna de Paradiso

Una composizione interamente dialogata, matrice della futura lauda drammatica in volgare.
La scena è ambientata sul Golgota: Cristo è sulla croce, agonizzante, la Madonna piangente ai suoi piedi; altri attori sono il popolo, che inneggia al martirio, e Giovanni Evangelista (sullo sfondo la Maddalena, Pilato, Giuda).
Il dialogo fra la madre e il figlio, in un volgare colloquiale e familiare, è una delle creazioni più potenti e toccanti della letteratura religiosa di tutti i tempi. 

Figlio, occhi giocondi,
figlio, co' non respondi ?
figlio, perché t'ascondi
dal petto o' se' lattato?

si lamenta la Madonna, come una madre. E il Figlio (che, per tre volte, la chiama 'mamma'), semplicemente un uomo che soffre, le intima di non preoccuparsi, e di affidarsi alle cure di Giovanni:

Mamma, o' sei venuta ?
mortal me dài feruta,
ché 'l tuo pianger me stuta
....
Mamma col core affetto,
entro a le man te metto
de Joanne, mio eletto 
...
Joanne, esta mia mate
tollela en caritate
aggine pietate
ca lo core ha forato.

La concitata disperazione della madre, la solitudine di fronte alla morte, la rassegnazione che si scioglie, infine, nella speranza: mai fu rappresentato con più vivezza e popolare spontaneità il nucleo fondante del Cristianesimo delle origini. 

* * * * *

Nunzio:
Donna del paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.
Accurre, donna, e vide
che la gente l'allide !
credo che 'llo s'occide,
tanto l'on flagellato.

Madonna:
Como esser porrìa
che non fece mai follia,
Cristo, la speme mia,
om' l'avesse pigliato ?

Nunzio:
Madonna, egli è traduto,
Juda sì l'ha venduto
trenta denar n'ha 'vuto,
fatto n'ha gran mercato.

Madonna:
Succurri, Magdalena,
gionta m'è adosso piena !
Cristo figlio se mena,
como m'è annunziato.

Nunzio:
Succurri, Donna, aiuta !
ch'al tuo figlio se sputa
e la gente lo muta,
hanlo dato a Pilato.

Madonna:
O Pilato, non fare
lo figlio mio tormentare,
ch'io te posso mostrare
como a torto è accusato.

Popolo:
Crucifige, crucifige !
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contradice al senato.

sabato 21 novembre 2015

Le poesie della domenica - W.Shakespeare/P.B. Shelley, La Regina Mab

La figura della Regina Mab appare per la prima volta in Giulietta e Romeo (atto I, scena IV). Essa spiega Shakespeare molto più d’un Amleto o d’un Riccardo III.
E spiega la vera fascinazione dei suoi versi.
Shakespeare fu un analista eccezionale del potere e dei suoi meccanismi; la formidabile padronanza della terminologia giuridica e diplomatica testimonia in lui il rango altissimo dello storico. Ma questo magistero (che si ritrova anche nei sonetti) non basta a esaurirlo. In tal caso, infatti, Shakespeare rileverebbe come artista pari a John Donne, ad esempio, o ai barocchi spagnoli. In lui avvertiamo altro: come l’agitarsi d’una forza occulta.
Ogni personaggio delle tragedie shakespeariane, infatti, si muove, uccide, parla e decade agito da una potenza oscura, assolutamente irrazionale (nonostante i loro gesti siano considerati razionali, e cristallini, a un esame superficiale, politico). E tale fondo insondabile non è psicologico, e men che meno individuale, bensì mitico: è il retaggio pagano, precristiano, germanico, che opera celato dietro l'umano trapestio della temporalità; è la matrice limacciosa dell’Inghilterra, quando l’Inghilterra non era ancora tale. In questo mondo primitivo è ancora la magia a vigere, così come il presagio, la credenza sovrannaturale, il sogno premonitore – tutte emanazioni di un Destino implacabile superiore a qualsiasi eroe, o deità. Macbeth, ad esempio, è un uomo divorato dall’ambizione, e Shakespeare lo mostra nella sua scalata al potere supremo, a qualsiasi prezzo (questo il lato ‘politico’, in piena luce); e però tale ascesa è spinta non dall’avidità individuale, ma dalle tre fatidiche sorelle (Weird Sisters), le preveggenti; e le tre streghe, sputate dalle profondità ancestrali d’un Inghilterra remota e brutale, appartengono a regioni in cui la nozione di causa ed effetto non vale. Lì sono la maledizione, la dannazione, il sortilegio a vantare realtà; o una visione fantasmatica (lo spettro di Banquo); o un sogno ingannatore; è quel recesso a imporre la sua legge all’uomo e non viceversa; alla fine Macbeth sarà costretto ad ammettere ch’egli stesso è un nulla, un guitto diretto da burattinai beffardi, uno sbuffo di fumo; e invece ciò che appariva quale fuggevole visione (le Weird Sisters) sono l’autentica radice del reale, i fenomeni di quel Destino inesplicabile (Wyrd) a cui necessariamente soggiace l’umanità.
E così è per Giulietta e Romeo. Alla luce è una storia d’amore, purissima; ma tale alone caldo e splendido è attorniato da un oceano d’ombre; e la Regina Mab nuota in tale oscurità. Ed ecco che vien meno la razionalità: Romeo è assillato da un sogno, da un presagio; chiede conforto a Mercuzio e questi, pur nel tentativo di recargli conforto, non può che evocare sinistramente - confermandolo - quel mondo superstizioso, gelido e obliquo, umido d’un folclore barbarico, in cui il male germina senza motivo, maligno e irridente come il convoglio dispettoso e folle di Mab.
Un dio inconoscibile e onnipotente attende alle vite di Macbeth e Romeo e Giulietta come alle nostre; egli si manifesta nelle visioni e nei sogni, che sono reali; siamo noi (e Macbeth, Giulietta e Romeo) a essere nulla, un veloce delirio, una battuta dimenticata su di un palcoscenico che non esiste più.

ROMEO. Ho fatto un sogno, stanotte.

MERCUZIO. Anch’io ho sognato.

ROMEO.E che hai sognato?

MERCUZIO. Che spesso i sognatori mentono.

sabato 14 novembre 2015

La poesia della domenica - Dusan Vasiljev, Un uomo canta dopo la guerra

Un nostro nemico, antico di un secolo.
Dusan Vasiljevic (1900-1924) nacque in Serbia, nella regione del Banato, allora parte dell'Impero d'Austria e Ungheria. Nel 1918, a guerra perduta, quando i ragazzi tornano buoni per fornire carne da cannone, fu chiamato alle armi; servì lungo la linea del Piave, contro l'esercito italiano.
La discesa infernale nelle tempeste d'acciaio ne mutò inevitabilmente e profondamente l'animo, dapprima imbevuto d'un focoso interventismo.
La seguente lirica è, quindi, il resoconto di tale disillusione: in un tono lieve eppur definitivo egli proclama: m'importa poco dell'onore e della vergogna e delle voglie borghesi, datemi aria e rugiada e latte: questo sarà il mio bastevole bottino.
Dai tempi d'Archiloco (che preferiva gettar via lo scudo - onta suprema - e fuggire verso le gioie minute della vita) tutti i sopravvissuti si rassomigliano:

Qualcuno dei Sai si fa bello del mio scudo, arma perfetta,
che io abbandonai a malincuore presso un cespuglio;
però mi sono salvato. Che m'importa dello scudo?
Al diavolo: me ne procurerò un altro, e anche meglio.

L'alito della morte ingenera quasi sempre un registro fra beffardo e testamentario. Si ride del pericolo scampato, dell'onore idiota, delle ridicole vanaglorie, ma si è oramai diversi fra gli uomini, né vivi né morti (Nè vivi né morti è, infatti, il titolo d'un bel libro di Fidia Gambetti, reduce dell'Armir, nella Seconda Guerra).
Da tale punto di vista Vasiljev è affine ai coevi lirici tedeschi dell'espressionismo, molti dei quali conobbero trincee e persecuzioni e, come per maledizione d'un dio laido e cruento, ebbero esistenze brevi e travagliate. Basta leggere questo estratto dalla Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner: "Presi in blocco, i lirici dell'espressionismo ci sembrano oggi non tanto poeti precocemente maturi, quanto poeti indubbiamente precoci, a molti dei quali il destino, in particolare la guerra, non permise di raggiungere la maturità. Kurt Pinthus, editore della famosa antologia Menschheitsdämmerung. Symphonie jüngster Dichtung [Tramonto dell'umanità. Sinfonia della più recente poesia] del 1919, dovette constatare, nel 1922, che dei ventitré poeti da lui inclusi nel suo volume sette non erano più in vita".
Non rimangono che due cose da dire. La prima: sappiamo molto poco - almeno in Italia - di tale panorama lirico a cavallo della Prima Guerra: a parte Trakl, le figure Stramm, Klemm, Heynicke, Rubiner, Heym, Stadler, Lasker-Schüler, Becher (e Werfel, come poeta) sono poco o nulla indagate; per tacere dell'area serbocroata, russa et cetera. Rimedieremo?
La seconda: Vasiljev è un nobile poeta che depreca la guerra, ma senza la guerra sarebbe esistito il poeta Dusan Vasiljev? 
Questa la micidiale contraddizione.
Impossibile uscirne. La pace perpetua uccide l'arte; l'arte nasce dal sangue e dalla sofferenza, o da una grande tradizione nazionale che di sangue e sofferenza è già stata avida.
Tutti scelgono la pace, eppure se viene a mancare il sentire ultimo e profondo che l'arte evoca ci si strugge in un lento declino, crasso e autodistruttivo. Privi dell'arte si diviene cinici e torpidi, stupidi e assassini; una cultura può spegnersi in tale neghittosità.
E c'è una salvezza, certo, ma è la guerra. 


Col sangue alle ginocchia ho camminato
e sogni non ho più.
Mia sorella si è venduta
e la bianca chioma a mia madre hanno tagliato.
E in questo torbido mare di lussuria e melma
io non chiedo un bottino:
oh, io di aria ho sete! E di latte!
E di bianca rugiada del mattino!

Col sangue alle ginocchia io ridevo,
e non chiedevo: perché?
Nemico giurato mio fratello chiamavo,
ed esultando nel buio all’attacco mi scagliavo,
quando al diavolo va Dio, e l’uomo, e la trincea!
Ma oggi osservo tranquillo il lebbroso bottegaio
che abbraccia la mia donna amata,
e il tetto dalla testa via mi strappa;
e volontà non ho – o forza – di vendetta.

Fino a ieri io docile la testa chinavo
e la vergogna con rabbia baciavo.
E fino a ieri la vera sorte mia non conoscevo –
ma oggi la conosco!

Oh, ma io sono un Uomo! Un Uomo!
Non mi duole di aver camminato col sangue alle ginocchia
e di essere sopravvissuto ai rossi anni di macello,
per questa sacra consapevolezza
che mi ha portato la rovina.

E io non chiedo un bottino:
oh, datemi solo ancora un pugno d’aria
e un po’ di bianca rugiada del mattino –
il resto a voi, alla salute!

Traduzione di Alice Parmeggiani

sabato 7 novembre 2015

La poesia della domenica - Ernst Jünger, Ti saluto, incantatrice ...

Questa non è una poesia, ma la parte iniziale di una prosa (adeguatamente troncata per simulare il verso) di Ernst Jünger, Lettera dalla Sicilia all'uomo nella luna (del 1930).
Lo stralcio possiede, della poesia, il respiro e la forza; lo scrittore tedesco ha il potere, infatti, di ricreare, con parole ordinarie, e per di più su un tema già ampiamente suonato da tutti i lirici di ogni tempo, la meraviglia arcaica dell'uomo di fronte al firmamento (non rinunciando, al contempo, a moderne notazioni espressioniste: città formicaio, uomini crisalide; cfr. il post su Georg Heym).
Una prova ulteriore che non sono mai le parole a sfiorire, ma solo l'anima di chi le evoca.


Ti saluto, incantatrice e amica degli incantatori!
Amica dei solitari, amica degli eroi, amica degli amanti!
Amica dei buoni e dei malvagi.
Complice dei misteri notturni,
dimmi: dove c'è complicità non c'è forse già qualcosa
che va al di là del semplice 'sapere'?
Ricordo bene le ore in cui il tuo volto appariva,
grande e terribile, alla finestra.
La tua luce cadeva nella stanza come quella spada
che, appena sguainata, paralizza spettrale ogni movimento.
Quando ti levi sulle vaste pietraie
ci vedi intorpiditi nel sonno, stretti gli uni agli altri,
cerei in volto, simili alle infinite crisalidi bianche
sopite negli angoli e nei cunicoli di città formicaio
mentre il vento notturno vaga per le grandi foreste di abeti,
Non siamo per te come creature sperdute
negli abissi marini,
e ancora più remote di esse?

Lettera dalla Sicilia all'uomo nella luna, da Foglie e pietre, 1997 (traduzione di Francesco Cuniberto)

mercoledì 4 novembre 2015

Coraggio, ancora pochi mesi e pure Dante ce lo siamo tolto dai piedi

G. Luca Chiovelli

Dante Alighieri, nacque sotto il segno dei Gemelli:

"... io vidi ’l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva ..." (1)

probabilmente nel 1265, a cavallo fra maggio e giugno.
Nell'anno 2015, quindi, ricorre(va) il 750esimo anniversario della sua nascita.
Qualcuno se n'è accorto?
Tanto per dire.
Tale momento epocale (pensate: c'erano voluti 750 anni per celebrarlo) è passato, per usare un eufemismo, sotto una discreta coltre di silenzio.
Certo, non era nato sotto i migliori auspici: a maggio, infatti, s'era iniziata la commemorazione, in Senato, con un messaggio del Pontefice gesuita Francesco I, il saluto delle massime cariche istituzionali e una lettura del Paradiso da parte di Roberto Benigni.
Come dire: il saluto del Capo di una potenza straniera, in un'aula prossima alla smobilitazione istituzionale e la lettura del Paradiso eseguita da un tizio che, dopo aver scassato i cabbasisi per un decennio con "la Costituzione più bella del mondo", si guarda bene dal far motto una volta che questa è stravolta e annientata (e, se tanto mi dà tanto, figuriamoci cosa gliene impipa di Dante e del Paradiso).
I capoccioni hanno naturalmente attivato una serie di iniziative accademiche e diplomatiche (coinvolti gli istituti per la cultura italiana all'estero), eppure di tutto questo formalissimo indaffararsi cosa è trapelato nell'opinione pubblica?
Niente.
E perché?
Primo: perché a tutti i capoccioni nazionali di Dante e dell'Italia importa poco o zero. Sono dei traditori della Patria, satolli e ignoranti.
Secondo: perché l'attuale Spirito dei Tempi, l'edonismo economico, turistico e usuraio, ridanciano e irresponsabile, ha due soli nemici: il passato e la bellezza. Dante li riunisce entrambi e quindi deve finire nella Gehenna della dimenticanza.
Il passato è passato: Petrarca, Dante, Tasso, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, tutto ciò che costituisce la bellezza diuturna, tutto ciò che forma l'Italia, tutto ciò che, secondo un memorabile verso di Percy Shelley:

"dà grazia e verità al sogno inquieto della vita" (2)

dev'essere essere ignorato; se possibile, seppur con cautela, dev'essere distrutto.
Non stupisce allora che l'anniversario di Dante sia stato liquidato da convenzionali adempimenti istituzionali.
Un modo perfetto di autoassolversi, crearsi un alibi, e dedicarsi al proprio passatempo favorito: fare i nababbi.
Coraggio, fra un po' è Capodanno (2016!) e di Dante non correremo più il rischio di sentir parlare.
Almeno sino al 2021, 700esimo anno dalla sua morte.
Tranquilli, però, per quella data sono sicuro che ci saremo pur inventati qualcosa capace di liberarci dall'ennesimo, molesto, anniversario.

(1) Paradiso, XXII, 110-115
(2) P. B. Shelley, Inno alla Bellezza Intellettuale

lunedì 2 novembre 2015

“Il Prezzo” di Arthur Miller sui palchi del Teatro Argentina

Elvira Sessa
Torna sulle scene italiane “Il Prezzo” di Arthur Miller, opera che debuttò nel nostro Paese nel lontano 1969, ora pubblicata nella sua prima edizione italiana per la Einaudi con la traduzione di Masolino D'Amico.
La pièce, interpretata dalla Compagnia Orsini per la regia di Massimo Popolizio, traccia il quadro di un'America post-crisi del '29, espressione delle incertezze e delle aspirazioni del nostro tempo.
Il sipario si apre su una pila di mobili accatastati alla rinfusa, in cui si distingue una poltrona tappezzata con fiori rossi, un’arpa, un tavolo di legno massiccio in verticale. Appartenevano ad un uomo morto da più di dieci anni, ora devono essere stimati da un perito e venduti, in fretta, dai suoi due figli, Victor e Walter, perché si trovano in un edificio che deve essere demolito.
Sarà la trattativa sul “prezzo” al quale liquidarli a fare emergere a poco a poco i “valori” dei quattro personaggi dell’opera, Victor, Esther, Walter e Solomon.
I protagonisti, che si muovono in una scenografia domestica ridotta all'essenziale (un lavandino, delle sedie, una poltrona, una scala che porta ad un pianerottolo ed una porta che immette in un'altra stanza), sono tutti tratteggiati con grande efficacia dagli interpreti e dal regista.
Victor (un eccellente Massimo Popolizio, che assomma i ruoli di attore e regista) è un poliziotto di mezza età prossimo alla pensione, con più dubbi che certezze, dal tono di voce medio, il passo dinoccolato, testa china, occhi bassi, un po’ di pancetta.
Contraltare di Victor è Esther (una focosa Alvia Reale), moglie dispotica ed esasperata per la vita mediocre che le fa condurre. Sin dalla prima scena, Esther irrompe con il passo deciso, sbraitando e battendo i tacchi, sfoggiando un abito arancione sgargiante, l’abito nuovo, segno del desiderio di una svolta sociale ed economica che tarda ad arrivare: “l’unica cosa che conta è il denaro” dirà più volte, sprezzante, al marito che annuisce a testa bassa. La pensa come lei l’ebreo Solomon (un carismatico Umberto Orsini), antiquario novantenne chiamato da Victor a stimare i beni del padre. Solomon si presenta al pubblico con un soprabito usurato e una busta di plastica con cibarie varie, è arguto, pungente, ironico e si muove con agilità tra i mobili usati, con i quali mostra di avere molta confidenza e distacco professionale, come chiarisce subito a Victor: “con i mobili usati non si può essere sentimentali”.
Quando ormai questi tre personaggi sembrano cristallizzati nei loro ruoli e Victor sta per definire la vendita dei mobili con l'antiquario, irrompe Walter (un impetuoso Elia Schilton), con un colpo di scena che dà una svolta inattesa agli eventi.
Walter viene ritratto come l'arrivista spregiudicato, l’uomo del “sogno americano”, il prepotente che si è fatto da sé recidendo ogni radice e ogni legame affettivo: meno dotato negli studi del fratello, si è lanciato nella scalata per il successo, divenendo un chirurgo primario di tutto rispetto che vede più interessante fare quattrini con gli anziani, divenendo proprietario di tre case di riposo, che accudire il vecchio genitore. Cinico, impeccabile, perfetto, ben ritratto dagli occhiali squadrati con una spessa montatura nera che ne rimarcano la spigolosità del carattere, la giacca nera stretta in vita e lo sguardo torvo e diffidente, calca i passi sulla scena sentendosi una divinità in persona, imponente e pieno di sé. Ripiomba nella vita di Victor, dopo un silenzio decennale, per esprimere un parere sul “prezzo” dei mobili paterni e lo fa per il semplice gusto di esercitare ancora una volta il suo potere sul fratello e ridicolizzarlo per il suo “spirito di apostolica abnegazione”, come lascia intendere la frase che, sprezzante, dice a Solomon, dopo aver saputo a quali svantaggiose condizioni Victor stava vendendo i mobili: “Ruba ai ciechi, tanto loro non se ne accorgono”.
Walter rinuncia subito alla sua eredità su quei beni, privi come sono, ai suoi occhi, di qualunque interesse, come evidenzia la scena, emblematica, in cui Victor recupera entusiasta un vecchio remo di legno, ricordo dell'adolescenza del fratello, per salvarlo dalla vendita e Walter lo rifiuta, con una smorfia di sufficienza, così fotografando due opposte concezioni della vita: per Victor fondata sui “valori”, per Walter sui “prezzi”.
E così, tra i due fratelli, si susseguono feroci duelli verbali di sciabola e fioretto, in un gioco al massacro che travolge il pubblico in un vortice di rivelazioni, menzogne, momenti di ilarità, mentre aleggia l'imminente distruzione dell'edificio, sottolineata dall'incalzare di sinistri boati fuoricampo e dall'affievolirsi delle luci sulla scena.
"Il Prezzo" replica al teatro Argentina fino all' 8 novembre, va poi in tournée nelle maggiori città italiane

Eduardo De Filippo, Pier Paolo


Non li toccate
quei diciotto sassi
che fanno aiuola
con a capo issata
la «spalliera» di Cristo.
I fiori,
sì,
quando saranno secchi,
quelli toglieteli,
ma la «spalliera»,
povera e sovrana,
e quei diciotto irregolari sassi,
messi a difesa
di una voce altissima,
non li togliete più
Penserà il vento
a levigarli,
per addolcirne
gli angoli pungenti;
penserà il sole
a renderli cocenti,
arroventati
come il suo pensiero;
cadrà la pioggia
e li farà lucenti,
come la luce
delle sue parole;
penserà la «spalliera»
a darci ancora
la fede e la speranza
in Cristo povero.

martedì 27 ottobre 2015

Toh, ha chiuso un'altra libreria ...

G. Luca Chiovelli

A via S. Caterina da Siena, a Roma. Mi pare fosse una libreria antiquaria, attaccata a un'altra, Amore e Psiche, dismessa poco tempo fa.
Non è una gran notizia: durante gli ultimi cinque anni c'è stata una moria epidemica di librerie; e anche di edicole, spesso trasformate in spacci d'oggettistica cinese per turisti: colossei di plastica, calendari idioti, cartoline e così via.
Lo ripetiamo: non è una notizia.
Le notizie, straordinarie, sono invece due.

La prima. È straordinario che non abbiano chiuso tutte le librerie, almeno quelle indipendenti. Fra tasse, imposte, ignoranza diffusa e neghittosità degli amministratori ciò rappresenta un vero miracolo di resilienza.

La seconda. È altrettanto straordinario che tale pestilenza epocale non venga recepita affatto dagli statistici del libro (giornalisti, intellettuali, sondaggisti, ricercatori). Per loro le cose vanno malino. La percentuale dei lettori è in declino: dal 43% al 41,6%. Malino. Maluccio. La parola “disastro” - l’unica che abbia un senso oggi - esita a essere espulsa dalle loro boccucce esitanti. Ma quale 43 e 41! Qui è già tanto che ci sia una quota di lettori al 15-20%! Ma loro fanno i pesci in barile; si lamenticchiano, borbottano, proludono, menano il can per l’aia; poi vanno a conferenze dove discutono del nulla ingozzandosi di qualche tartina e buonanotte.
Dal 43% al 41,6% … ma, insomma, chi diavolo le fa queste statistiche? L’Istat? E come le fa? Sondaggia, telefona, chiede pareri? Che fa l’Istat? Non sarà che tali augusti istituti si fanno infinocchiare come certi antropologi bianchi dagli aborigeni? I grandi ricercatori bianchi (un nome a caso: Margaret Mead) s’inoltrano nelle giungle amazzoniche, nelle distese africane, nei deserti australiani, presso i Cippa Lippa del Borneo: studiano, osservano, registrano; gli aborigeni gli rifilano qualche fregnaccia e loro tornano pimpanti nelle loro linde università a scrivere l’opus della vita. Gli aborigeni - intesi come popoli indigeni -  hanno, infatti, un proprio sense of humor; tipicamente aborigeno vien da dire.
E così l’Istat … telefona a casa dell’Italiano medio e domanda: “Scusi lei, non è che per caso ha letto un libro nell’ultimo anno?”. E l’aborigeno italico medio che fa? Si vergogna, ovviamente. E va giù di fregnaccia: “E come, non l’ho letto … certo, adesso, su due piedi … preso a freddo ... non mi ricordo il titolo …”. E il sondaggiarolo: “Non fa niente, non è questo che ci interessa … io segno lettore, va bene? Buongiorno, e scusi per il disturbo …”. E l’Italianuzzo, che non ha letto manco le Pagine Gialle, con un sospiro di sollievo: “Ma le pare. Nessun disturbo … esequie … di nuovo esequie a lei e al dottore …”.
E le statistiche si gonfiano. Tanto da far dire, ancora, in piena disfatta culturale e morale: le cose non vanno male .. vanno malino, anzi quasi bene … ci si può riprendere, via … con qualche bel finanziamento …
Sì, questa è l’unica interpretazione possibile. Questi tipi (intellettuali, studiosi, Istat, sondaggiaroli e compagnia cantante) non hanno capito nulla della realtà. Sono al di sopra di qualsiasi realtà. D’altra parte che intellettuali, sondaggisti, statistici, giornalai e bibliofili vari siano completamente assorbiti in un proprio mondo di fantasia è un fatto; altrimenti non si giustificano, ad esempio, i seguenti titoli, in disprezzo totale del principio di non contraddizione:

“Crescono i lettori, calano le vendite”
“Boom di visitatori al Salone del libro di Pizzighettone, vendite in calo”

Roba da far rivoltare nella tomba Aristotele. Ecco altre chicche:

“La quota di lettori fra gli 11 e i 19 anni [al netto dei testi scolastici] è superiore alla media, ben oltre il 50%”
“Il 9,8% delle famiglie non ha nessun libro in casa …”

… avete capito? … fra gli 11 e i 19 anni, quando la febbre dello smartphone è al massimo, al netto dei testi di scuola, sono tutti lettori … roba da sbellicarsi dalle risa … e che dire di quel 9,8% di senza libro … mi sa che hanno dimenticato un 4 o un 5 davanti a 9,8 … ecco: un 49,8 sarebbe molto più aderente allo squallore quotidiano … alla reale realtà … che citrullame, ragazzi … e sono questi i condottieri che dovrebbero salvare la cultura in Italia?

sabato 24 ottobre 2015

La poesia della domenica - Tristan Corbière, Insonnia

Decadente, umido di tutti gli umori della decadenza ottocentesca: malaticcio, scalcagnato, malato d'amori immedicabili (micidiale il suo ménage a trois con l'attrice parigina Cuchiani, la Marcelle delle poesie, e il suo compagno), riottoso all'insegnamento scolastico, malsano nei rapporti con gli ascendenti (Edouard Corbière, scrittore di feuilleton di successo, ha trent'anni più della madre), naturalmente eccentrico (ama travestirsi: da donna, da galeotto), infelice, perfido, bugiardo, povero, straccione, brutto (brutto come un rospo: come quel rospo, essiccato, ch'egli teneva appeso sopra il caminetto e a cui si paragonava) e già consapevole della Morte tanto da sentirsi nato morto (se ne andrà a trent'anni).
Di un decadentismo, però, senza retorica, privo di fulgori, languori, aristocratiche ricercatezze e citazionismi; un decadentismo crepuscolare, beffardo, colloquiale, irto di esclamazioni, ricco di punteggiature e autocommiserazioni: fra Laforgue e Céline.
Morì sconosciuto, autore di una sola raccolta. 
Poi arrivò Paul Verlaine a dedicargli un capitolo dell'opera sui poeti maledetti; e fu la gloria letteraria; quindi, a babbo morto, altri laudatori s'aggiunsero: Huysmans, Eliot, e Pound e tutta l'eletta compagnia.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Tristan, che scrisse: "L'arte non mi conosce, io non conosco l'arte".

Insonnia, impalpabile Bestia!
Hai l’amore solo nella testa?
Per correre a vedere sino a svenire,
sotto il tuo occhio perverso, l’uomo mordere
le sue lenzuola, e torcersi nella noia! …
Sotto il tuo sguardo di diamante nero.

Dimmi: perché, nella notte bianca,
piovosa come una domenica,
venire a leccarci come un cane:
Speranza o Rimpianto che veglia,
al nostro orecchio palpitante
bisbigliare … e non dire niente?

Perché, davanti alla nostra gola arida,
porger sempre la tua coppa vuota
e lasciarci con il collo stirato,
Tantali noi, assetati di chimera:
– filtro d’amore o amaro fiele,
fresca rugiada o piombo fuso! —

Insonnia, ma non sei bella?…
E perché, lubrica pulzella,
stringerci tra le tue ginocchia?
Perché rantolare sulla nostra bocca,
perché disfare il nostro letto,
e … non coricarti con noi?

Perché, Bella-di-notte impura,
quella maschera nera sul tuo viso? …
— per intrigare i sogni d’oro?…
Non sei l’amore nello spazio,
alito di Messalina stremata,
ma non ancora appagata!

Insonnia, sei tu l’Isterìa…
tu l’organetto di barberia
che macina l’Hosannah degli Eletti?…
— o non sei tu il plettro eterno,
sui nervi dei dannati alle lettere,
che strimpellano versi — che solo loro hanno letto.

Insonnia, sei l’asino in pena
di Buridano — o la falena
dell’inferno? — II tuo bacio di fuoco
lascia un gusto freddo di ferro infuocato …
oh! vieni a riposarti nella mia tana! …
dormiremo insieme un poco.

Da Amori gialli, 2004 (traduzione di Renzo Paris)

giovedì 22 ottobre 2015

MVL alla "Crispi", tempo donato alla lettura

Enza Bertoni
La collaborazione dell'associazione Monteverdelegge per la promozione alla lettura e la scuola elementare Francesco Crispi, continua anche quest'anno. L'incontro avuto con alcune insegnanti, che intendono avvalersi di questo servizio volontario per migliorare le potenzialità di ciascun allievo, è stato positivo e favorevole. E' un segnale significativo ed innovativo nell'utilizzo delle risorse del territorio. Tutto ciò non "porterà via tempo" ma rafforzerà la lettura.
Noi di Monteverdelegge ci crediamo.

martedì 20 ottobre 2015

La meraviglia di legger libri

Holbein il Giovane, Gli ambasciatori
G. Luca Chiovelli

Credetemi, leggere tanto per leggere mi disgusta. Come offrire dolci a chi ha fatto indigestione di cioccolata. Leggere come terapia, leggere l'ultima novità, leggere il libro dell'amico ... tutto ciò mi ripugna irresistibilmente ... per tacere dell’orrore che ispirano ormai i libri ... con quella carta crocchiante … un olezzo acido da sbrigativa cartiera fordiana … edizioni inutili di autori inutili, che presentono già il macero, fetenti d'effimero, con risvolti allucinati e copertine d'un kitsch lisergico ... no, tutto questo non è il mio regno di lettore.
Solo l'avidità della conoscenza m'ispira il desiderio bruciante della lettura, non altro.
Se tale brama manca preferisco poltrire nell'ignavia.
Non leggere niente, in tali condizioni, è più nobile del leggere qualcosa – una cosa qualsiasi, a caso.
Rassomiglio insomma a Sherlock Holmes che, in mancanza d'uno stimolo intellettuale, si abbandona a una letargia melanconica, alleviata appena dalla cocaina (in vena una soluzione 7%) o dagli spettrali accordi del violino, che inseguono i saliscendi tartiniani del Trillo del diavolo ... nel salottino a Baker Street, mentre il reduce dall'Afghanistan John Watson, in poltrona, davanti al fuoco inglese d'un caminetto inglese, serrato fuori l'umido lividore dei pomeriggi invernali di Londra, segue con occhio ansioso e clinico tali manifestazioni depressive, da umor nero.
E cosa ci strappa dalla depressione, a me e Sherlock?
L'ansia di capire, di scoprire, di sollevare il velo dipinto dei fenomeni. L'ansia di conoscenza brucia l'anima, non c'è niente da fare ... basta un piccolo accenno, quasi sempre casuale, un minuscolo arzigogolo che risale alla mente, un addentellato trascurato nel mare della conoscenza e una frenesia incontrollabile scuote le mie membra intorpidite di lettore. Allora sì che è una festa ... ma che dico: festa? È, clinicamente, come per Holmes, una libidine maniacale, incontrollabile, travolgente. Un piccolo spunto, si diceva ... un esempio? Eccolo. Qualche tempo mi ero incapricciato della poesia orientale; cinese e giapponese, ma, soprattutto, persiana. Ero reduce, infatti, da una visita al Museo Nazionale d'Arte Orientale, in Via Merulana, a Roma. 
In una bacheca lessi una breve lirica ricca d'una metafora che esercitò su di me un fascino profondo, inspiegabile: il poeta paragonava la propria amata a un cipresso.
Non ricordavo chi fosse l'autore; tornai al museo, ma non riuscii a ritrovare il cartiglio fatale. Feci qualche ricerca; forse il poeta era Amir Khusrow. Non fui capace nemmeno di ritrovare l'esatta lirica; una che le si poteva approssimare era questa:

Il parco ha cipressi, larici e pini
ma nulla ti somiglia mia divina, mio cipresso.
Non hai bisogno di pugnali o spade o coltelli
un dardo dal tuo occhio mi rubò la vita.
Il fuoco d’amore è dolce, oh, quanto dolce
ma quest’inferno lo preferisco al paradiso.
Bacia gli occhi del tuo Khusrow, sciocca ragazza,
ogni sua piccola lacrima è come una perla.


Non importava. L'occasione viene sempre dimenticata. Il morbo, però, era già in me, e operava. Mi procurai, già febbricitante, una serie di antologie di poesia persiana del Medioevo.

sabato 17 ottobre 2015

La poesia della domenica - P. B. Shelley, Non sollevare quel velo dipinto ...

Percy Shelley fu uomo complesso, vasto, quasi insondabile.
Compresse in pochi decenni ciò che centinaia di migliaia di individui non riescono ad attingere, se non in minima parte, in tutta la loro vita.
Fu amante della libertà, rivoluzionario e ateista (sulle orme materialistiche del filosofo William Godwin, padre della moglie Mary): per questo pagò con l'ostracismo accademico e la vergogna sociale; fu, però, prima d'ogni altra cosa devoto al bello; era il bello ciò ch'egli ricercava incessante in ogni attimo della propria esistenza, elevata a opera d'arte: la letteratura e la filosofia classiche (in cui eccelleva), la pittura e il paesaggio italiani, il secolo d'oro spagnolo (tradusse Calderon) - ogni manifestazione del genio umano lo attirava irresistibile poiché, traverso d'esso, bramava qualcosa d'inesprimibile e assolutamente meraviglioso che desse senso ai penosi andirivieni terreni.
Tale attitudine naturale, in contrasto colla formazione scientifica (in fondo il Frankenstein di Mary Shelley è Percy Bysshe Shelley), lo portò irresistibilmente a elaborare una sorta di personalissimo (neo)platonismo, ovvero un sentimento del sublime che cerca di ritrovare la perfezione sotto le spoglie della realtà.
Il punto in questione è: in Shelley tale anelito è puramente estetico o anche filosofico?
Probabilmente solo estetico. Shelley sapeva l'amara verità sul mondo, la finitezza e la sofferenza dell'uomo; quell'ansia spirituale - il platonismo - non era che una consolazione propria all'arte più alta: la poesia.
In tal modo cadrebbe ogni contrasto fra il primo Shelley - ateo o, almeno, agnostico - e le accensioni della produzione più tarda, quasi mistiche.
La bellissima poesia Lift not the painted veil sembra confermare tale interpretazione.  
La Vita non è che un rutilante velo di Maia che irretisce l'uomo, soggiogato dai destini gemelli della Paura (della morte) e della Speranza (in un mondo ultraterreno) - un velame sotto il quale si cela solo "un abisso cieco e desolato"; il poeta stesso, come uno splendido e impavido Angelo, ebbe l'ardire di sollevarlo, ma nulla trovò, nulla, nemmeno una parvenza di verità: una sorta di mito della caverna nichilista e privo d'ogni conforto.
Shelley, assieme a Leopardi e Keats, fu uno dei maggiori lirici dell'Ottocento europeo; forse il più grande. Sopravvissuto - in Italia - a sbrigative svalutazioni nonché a edizioni sciatte e incomplete, avrà, nel 2016, un parziale risarcimento: un Meridiano Mondadori riveduto e accresciuto (a cura di Francesco Rognoni) si poserà sulle stracche scaffalature delle nostre librerie.
60 euri ben spesi.


Non sollevare quel velo dipinto, quel che i viventi
chiamano Vita: per quanto forme irreali vi sian ritratte
e tutto quello che vorremmo credere
vi sia imitato a colori capricciosamente,
dietro stanno in agguato Paura e Speranza,
Destini gemelli, che tessono l'ombre in eterno
sopra l'abisso cieco e desolato. Un tempo
conobbi un uomo che l'aveva sollevato: cercava
col cuore suo tenero e sperduto
qualcosa da amare, ma, ohimé, non ne trovò,
né trovò nulla di ciò che il mondo tiene
cui poter dare la propria approvazione.
Passò in mezzo alla folla distratta, splendore
in mezzo alle ombre, una macchia di luce
su questa lugubre scena, uno Spirito in lotta
per giungere a cogliere il Vero,
ma come il Predicatore, egli non lo trovò.

mercoledì 14 ottobre 2015

Conflitti rimossi e sempre aperti in "Adua" di Igiaba Scego


Valerio De Simone
Ambientato tra le città di Roma e Magalo, in Somalia, lungo un arco di tempo che va dagli anni Trenta fino ai giorni nostri, l'ultimo romanzo di Igiaba Scego ha per protagonisti Zoppe e sua figlia Adua (da cui il libro, appena uscito per Giunti, prende nome), i quali, in epoche differenti, narrano al lettore le loro esistenze mettendo in luce cosa significhi essere un migrante, uno straniero. A differenza del suo primo romanzo Rhoda (Sinnos, 2004), con Adua Scego sceglie quindi di raccontare - per dirla con le parole di Gayatri Chakravorty Spivak - la subalternità dei soggetti coloniali.
Il termine sottomissione è infatti elemento comune nelle vite degli eroi. Grazie al lavoro di interprete, Zoppe riesce a coronare il suo sogno di raggiungere Roma, città da lui venerata. Ma come accadde per il soggiorno romano di Giacomo Leopardi, ne rimane profondamente deluso. Mentre sua figlia, l’aspirante attrice Adua, viene “presentata” nella grande città come Saartjie Baartman la Venere ottentotta, con la promessa di divenire una diva di Cinecittà. A incrinare il loro rapporto con la città sono le violenze che subiranno in primis sui loro corpi. Zoppe viene brutalmente picchiato e arrestato dai fascisti in quanto “negro”, mentre il corpo della giovane, come una colonia, verrà brutalmente “conquistato e defraudato” da produttori cinematografici e magnati dell’ambiente. L’elevazione a feticcio della giovane donna per il suo carattere “esotico” mostra come i “saccheggi” dei colonizzatori italiani non siano cessati con l’indipendenza della Somalia (1960), aprendo così a una lunga stagione di neocolonialismo.
Divenuta adulta e ormai matura, Adua, il cui nome è stato scelto dal padre per ricordare «la prima vittoria africana contro l’imperialismo» (battaglia a cui il regista Haile Gerima ha dedicato nel 1999 il film Adwa – An African Victory),  assiste ai nuovi flussi migratori che interessano il mediterraneo e quindi l’Italia. Sceglie così di sposare un giovane somalo in fuga dalla povertà e dal conflitto, emblematicamente soprannominato Titanic. «Io lo so che Titanic – dice il giovane somalo a sua moglie - è un film dove tutti muoiono. Ma ricordati che io non sono morto». In realtà la loro relazione sembra essere più quella di una madre con un figlio che di due amanti. E consapevole che il ragazzo non è davvero innamorato di lei, e presto “spiccherà” il volo verso altri luoghi più ospitali, alla donna non resta che cercare nella città di Roma un conforto confidandosi con l'elefantino del Bernini e  raccontando alla statua silenziosa la propria storia, le speranze, i sogni, i rimpianti.
Roma insomma, con le sue architetture, le sue strade e le sue storie, non è solo uno sfondo neutro alle vite dei nostri eroi, ma si fa parte attiva allo svolgersi delle loro azioni fino a diventare un personaggio a parte intera. Proprio la capitale, dove le tracce del colonialismo italiano sono tuttora evidenti come Scego ha splendidamente mostrato in Roma negata – Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse, 2014), si trasforma da miraggio di speranza in un luogo freddo e poco sicuro.
Caratteristica distintiva del romanzo, e in generale dell’intera opera del’autrice, è la presenza dell’ibridismo linguistico tra italiano e somalo (ovviamente corredato da un glossario finale), che sottolinea - come già Gloria Anzaldùa aveva fatto in Terre di confine/La Frontera (Palomar, 2000) - le numerose identità del soggetto migrante, il suo appartenere contemporaneamente a due culture: una del colono, l’altra del colonizzatore.
Dunque Adua è una storia che ci racconta di conflitti mai terminati, di migrazioni, di imperialismo, del colonialismo italiano «uno dei grandi rimossi della storiografia del nostro paese», di neocolonialismo, di sfruttamento dei corpi, ma soprattutto di sogni, spesso infranti, e di speranze.

venerdì 9 ottobre 2015

Mvl teatro: al Vascello Tre sorelle e un "grande fratello"



Maria Cristina Reggio


Tre sorelle con un destino comune:  una vita, anzi, una Villa dolorosa. Questo è infatti il titolo dello spettacolo inaspettatamente brillante  (a dispetto del titolo) di Roberto Rustioni che conclude la XXII edizione di Le vie dei Festival e contemporaneamente apre la nuova stagione del Teatro Vascello di Roma. Queste "Tre sorelle" hanno gli stessi nomi Olga, Mascha e Irina, delle protagoniste dell'omonimo dramma che Cechov scrisse all'alba del 1900, e hanno un pure un Andrej come fratello, ma condividono (come suggerito palesemente dal titolo) con quelle che potrebbero essere state le loro bisnonne uno stesso sentimento, il dolore di vivere. L'autrice di questa riscrittura contemporanea della pièce cechoviana è una giovane drammaturga tedesca classe 1974, Rebekka Kricheldorf, che trasforma i russi figli orfani di un generale di provincia in altrettanti figli di una coppia di intellettuali tedeschi, morti da poco in un incidente stradale e proprietari di una villa in rovina. La morte dei genitori sovrintende sulla vita dei figli a loro sopravvissuti, giovani e non più giovani, con nomi e destini simili a quelli dei loro modelli di inizio Novecento.

Il testo, scritto sulla traccia dell'originale russo, ne dilata alcuni temi, come la festa di carnevale che apriva il dramma e che diventa una festa di compleanno di Irina ripetuta per tre anni successivi e ne prosciuga altri, come i personaggi esterni alla famiglia che diventano solo due, un maschio Georg (lo stesso regista, Roberto Rustioni), il maschio fascinoso emblematico e sorprendente per quella famiglia e una femmina, Janine, anch'essa in qualche modo paradigmatica di una femminilità estranea al nucleo famigliare. Nella regia di Rustioni, che con questa opera continua il suo percorso di ricerca su Anton Cechov, iniziato qualche anno fa con i Tre atti unici, e proseguito all'interno di un percorso laboratoriale sfociato in questo spettacolo, il testo ambientato in Germania si impregna dell'esperienza vissuta da un gruppo di giovani della capitale con il loro strascinato linguaggio romano fino a diventare lo squarcio spazio-temporale di vita di un piccolo gruppo di ragazzi, tanto simile alla vita vera da ricordare agli spettatori la formula conosciuta del "grande fratello" o di una probabilissima e poco esotica "isola dei famosi".  E in effetti il paragone non è casuale: lo stile della recitazione improntato a un forzato realismo linguistico privilegia il turpiloquio che caratterizza l'ostentata povertà di linguaggio tipica di quei reality televisivi in cui una finta realtà si esibisce al posto dell'autentica finzione teatrale per testimoniare la necessità di coloro che vi partecipano, di esistere, come personaggi, almeno nella rappresentazione.

Le "sorelle"che improvvisano per la platea le loro danze etiliche su corredo di musica dello "stereo" lanciata "a palla" ricordano le stesse danze compiute dai personaggi dei reality di  fronte all'occhio vigile e vertoviano della telecamera e il loro balletto apparentemente compiuto in solitudine come  di fronte a uno specchio è fatto consapevolmente per essere goduto da un pubblico televisivo di una telecamera nascosta, indulgente e divertito di fronte alle storture di una goffa danza improvvisata, come pure le battute divertentissime di una comica Olga, brava e icastica come il personaggio comico di un varietà televisivo. A parte qualche banalità di routine ormai in molti spettacoli contemporanei come le inutili proiezioni video e l'intrusione fastidiosa di alcuni inserti musicali pop ad alto volume, questi frammenti di dolorosa vita famigliare cechoviana colpiscono con efficacia gli spettatori a cui si rivolgono attraverso la sottigliezza comica che, nello scoppio delle sommesse risate svela, nel dipanarsi di situazioni tanto conosciute quanto quotidiane, la difficoltà degli affetti, delle relazioni umane e delle scelte di una vita vuota, inutile, straziata.