venerdì 21 novembre 2014

mvl teatro: BEING NORWEGIAN alla Sala Studio del Vascello



 
Maria Cristina Reggio
Cosa succede a due persone di sesso diverso che si conoscono in un locale e poi lui la invita a casa sua? Ce lo mostra al Vascello l'ottimo teatro d'attore di  Elena Arvigo - anche autrice della traduzione - e Roberto Rustioni - quest'ultimo anche regista della pièce - in Being Norwegian, testo del drammaturgo scozzese David Greig, nato a Edimburgo e cresciuto, per motivi famigliari, in Nigeria.  Argomento di tante commedie, sia teatrali sia cinematografiche, l'incontro fortuito tra un uomo e una donna si svolge in genere seguendo un reiterato copione sociale, con regole di comportamento che a mano a mano si sono codificate, forse proprio attraverso il teatro, il cinema, la tv: l'ospite offre qualcosa da bere, mette su una musica, accende una luce soft, si siedono sul divano, lei copre o mostra la coscia, lui ci prova e, se lei ci sta l'incontro può dirsi riuscito, e li vediamo rotolarsi finalmente sul divano stesso, sul letto, e perché no, sul tappeto.   Anche in questo caso si vorrebbe che finisse così, ma qui l'autore, lo spazio della rappresentazione e gli attori stessi mettono gli spettatori di fronte a uno specchio ben diverso, nel quale si riflette, pur tra molti scoppi di risate sommesse, un'umanità perduta, disperata, strappata, quello che noi siamo.   
Lei è una solare trentenne con calza nera e abito da sera, una donna " che vive in un seminterrato e abituata ad arrangiarsi da sola" - dice lei stessa, a un certo punto - che si mostra simpatica, disponibile e civetta quanto può, ma senza convinzione, se non quella di essere diversa, speciale, forte, "altra", insomma, in una parola, norvegese. Instancabilmente prova a entrare nel copione, ma altrettanto incessantemente se ne tira fuori arroccandosi in una immaginaria rude "norvegese" alterità, promette spesso di andarsene, ma resta e vuole restare. Lui è meraviglioso, quasi un perfetto scozzese: carnagione pallida, magrezza di uomo poco atletico, un corpo e un viso di chi ha chiuso le emozioni dentro una mancanza di espressività e in una prossemica incerta, i cui arti leggermente scoordinati sembrano capaci solo di muoversi in uno spazio conosciuto, insomma un uomo abituato a vivere in uno stesso spazio da solo. Quando si siede sul divano accanto alla ragazza pronuncia la fatidica frase inutile "Eccoci qua", due parole che non dicono nulla se non attestare un'evidenza senza possibilità di fuga. Si è là perché si è stati catapultati senza volerlo su quel divano, accanto a quella buffa sconosciuta, a cui non si sa cosa dire e che, forse, si vorrebbe che uscisse al più presto dal proprio spazio vitale. Ma lo spazio vitale di Sean, questo il nome del protagonista maschile, separato con due figli e uscito da poco di galera, non è un loft con design confortevole, ma un appartamento disadorno, che ricorda gli ambienti degradati dei film di un regista nordico, (non norvegese, ma finlandese) Aki Kaurismaki, arredato con oggetti miseri e con tanti scatoloni ancora chiusi disseminati qua e là nei quali l'uomo inciampa sovente.  
Il fatto curioso è che questa pièce si dà non sul palco del Vascello, ma nella sala Studio, che sembra diventare per l'occasione davvero un appartamento, con tanto di porta in laminato. Un soggiorno con un'illusoria vetrata che lo chiude, e che divide lo spazio degli attori da quello degli spettatori: all'inizio, infatti, lei indica tra noi che sediamo, un ipotetico splendido quanto disperante panorama metropolitano notturno. La vicinanza degli spettatori con i corpi degli attori è tale che se ne sente il respiro, forse addirittura i battiti cardiaci, e agli spettatori sembra di essere dentro a quella casa, di assistere, non visti, a un incontro reale tra due persone senza trucco, due autentici esseri umani che vivono un frammento della loro storia di vita. E il finale, allora, commuove davvero.
Fino al 23 novembre al Teatro Vascello,  Sala Studio
 
 

Nessun commento:

Posta un commento