sabato 8 novembre 2014

Come combattere la povertà? “Creando" posti di lavoro



Investimenti e produttività si rilanciano solo con programmi di espansione dell'occupazione mossi dall'operatore pubblico che, quale datore di lavoro di “ultima istanza”, non alimenti politiche di assistenza ma “crei” posti di lavoro per tutti, soprattutto per le qualifiche più basse e con salari minimi.
È la tesi del cosiddetto “stretto pieno impiego” proposta dall'economista Hyman Philip Minsky e illustrata nel volume “Combattere la povertà - Lavoro non assistenza” (Ed. Ediesse, 264 pp), pubblicato lo scorso ottobre.
L'opera racchiude in sette capitoli, articoli e manoscritti dell'economista, editi ed inediti, che vanno dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta e sono ancor oggi di scottante attualità.

Elvira Sessa




Non c’è cura migliore contro la povertà del reddito familiare, specialmente del reddito familiare percepito mediante lavoro” scriveva cinquanta anni fa Minsky, economista di Chicago (1919-1996), senza immaginare che la sua teoria economica, sviluppata in un periodo critico per gli Stati Uniti, caratterizzato da grande disponibilità di lavoro di bassa qualificazione e con un salario relativo che andava peggiorando nel tempo, potesse riemergere oggi, in Italia, in tutta la sua attualità e carica provocatoria.
Eppure, tant'è.
Lo evidenziano gli economisti Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi che, nel loro saggio introduttivo al volume “Combattere la povertà” (traduzione di Anna Maria Variato e prefazione e introduzione all'edizione originale redatte da Dimitri Papadimitriou e L. Randall Wray), osservano: “l’argomento fondamentale di Minsky è semplice: (1) la povertà è in larga parte un problema di occupazione; (2) lo «stretto pieno impiego» migliora i redditi alla base dello spettro dei salari; e (3) per sostenere lo «stretto pieno impiego» è necessario un programma di creazione diretta del lavoro.”
Minsky parte da un’aspra critica alle politiche keynesiane che, se hanno favorito la nascita di uno Stato, grande a sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo, hanno anche portato a grandi sprechi di denaro pubblico che non hanno contribuito a migliorare le condizioni dei più poveri. Al welfare keynesiano basato sui sussidi, ossia sulla “corresponsione di liquidità o servizi senza che nulla sia richiesto in cambio di questa erogazione”, Minsky contrappone una strategia “basata sul lavoro” in cui lo Stato si impegna ad assicurare l’impiego a tutti coloro che sono disponibili ed abili al lavoro, nella convinzione che “qualsiasi strategia politica che non assuma la creazione di lavoro come obiettivo primario non è altro che la continuazione della strategia di impoverimento del decennio passato” (così si legge a p. 215 del volume).
In particolare, per combattere la povertà, Minsky propone di “socializzare” (ossia “statalizzare”)  i settori-chiave dell’economia per far sì che il consumo soddisfi la maggior parte dei bisogni privati e di tassare il reddito e la ricchezza per abbattere la diseguaglianza sociale. Un ruolo cruciale è ricoperto dagli strumenti della politica monetaria e fiscale, considerato che una politica monetaria espansiva può determinare una svalutazione della moneta nazionale sui mercati valutari internazionali; così come un alleggerimento della pressione fiscale può determinare solo un incremento del potere di acquisto di coloro che hanno già alti redditi, consentendo ai poveri di incrementare i loro redditi solo per effetto dello “sgocciolamento” verso il basso del maggiore reddito dei ceti abbienti (secondo quella che Minsky definisce la strategia di “trickle down upon them”).
Minsky sottolinea inoltre che, per combattere la povertà non basta neppure una manovra di politica economica orientata ad incrementare la ricerca e lo sviluppo, perché in tal caso essa servirebbe ad orientare la domanda di lavoro verso una categoria di lavoratori ben istruiti e ben addestrati, lasciando ai margini quelli poco qualificati.
Per questi motivi, secondo Minsky, la campagna anti-povertà ha bisogno di un “ingrediente necessario”: il cosiddetto “stretto pieno impiego” dei lavoratori.
Ma cosa è questo “stretto pieno impiego”? È una condizione di politica occupazionale che si verifica segmentando lavori complessi in lavori semplici. Solo così si può sostituire il lavoro che si trova in eccesso di offerta con il lavoro che si trova in eccesso di domanda (Minsky fa, in proposito, l’esempio di una guardia forestale utilizzata come supplemento di poliziotti completamente addestrati).
Con questa strategia di “stretto pieno impiego”, lo Stato garantirebbe a tutti un salario di base necessario per condurre le famiglie ad un reddito almeno sufficiente all’autosostentamento. Tale salario potrebbe essere, a sua volta, speso nei consumi, così rivitalizzando il ciclo dell' economia reale e riducendo l'impoverimento.
Lo “stretto pieno impiego” richiede, dunque, un big push dello Stato dal lato della domanda di lavoro quale datore di lavoro di “ultima istanza”, ossia che interviene “creando” quelle tipologie di lavoro che nessun datore di lavoro privato domanda perché considerate apparentemente “inutili”.
Verrebbe allora da chiedersi: “lo stretto impiego” è una via praticabile?
Minsky non ne dubita perché l’ha vista attuata all’epoca del New Deal, quando i lavoratori sono stati assunti per quello che erano e lo Stato ha creato occupazione per loro.
 L’economista indica anche le strategie per continuare a perseguirla: lo Stato dovrebbe attuare “uno sforzo minimo critico” impegnandosi nella creazione “diretta” di occasioni di lavoro per tutti anche se di bassa qualifica e ad un salario minimo (Minsky parla proprio di “direct job creation programs”, riferendosi al fatto che è lo Stato a creare “direttamente” nuovi lavori, segmentando lavori complessi in tanti lavori semplici alla portata dei disoccupati poco qualificati).
Solo all'interno di una situazione di autentico pieno impiego che si sia venuta a creare in questo modo, lo Stato potrà poi procedere ad una ulteriore professionalizzazione dei lavoratori meno qualificati. Insomma: prima assicurare ai lavoratori un salario minimo, poi formarli anche per lavori più complessi.
Senza questo intervento statale, il mercato finirebbe per richiedere solo manodopera specializzata, lasciando ai margini i meno qualificati.
Con la sua teoria della “stretta occupazione”, Minsky evidenzia, dunque, non solo il ruolo cardine dello Stato nel rilanciare l'economia (perché altrimenti l’economia crescerebbe solo nel PIL, ma non nel benessere diffuso e aumenterebbe la schiera dei poveri) ma anche i limiti di un interventismo statale basato su misure “caritative”, ossia su meri sussidi monetari e sgravi fiscali, perché ciò non consentirebbe mai ai poveri di affrancarsi dalla loro condizione. A tal proposito, l’economista richiama l’esempio dell’era Kennedy-Johnson, quando i sussidi monetari e gli sgravi fiscali hanno causato una compressione dei salari dei lavoratori nonché una diminuzione dei redditi della classe media e, più in generale, del consumo. Conseguentemente, le condizioni dei poveri miglioravano, sì, ma solo grazie al peggioramento delle condizioni di vita dei meno poveri.
Quanto abbiamo recepito oggi, in Italia, del pensiero così originale di Minsky?
Bellofiore e Pennacchi, nel richiamare la lungimiranza dell’economista, ammettono, con amarezza: “La guerra alla disoccupazione continua a non essere tra le preoccupazioni centrali dei governi europei. Se la si assumesse come obiettivo politico strategico, i pesi relativi di altre politiche verrebbero riconsiderati” e suggeriscono una strada: “L’enfasi dovrebbe andare sul lato della spesa governativa per investimenti e per creare lavoro. In particolare i programmi di spesa dovrebbero consistere in grandi progetti sulle criticità fondamentali del paese –riqualificazione ambientale, territori, città, cultura, istruzione, Ricerca e Sviluppo – e impiegare direttamente i lavoratori, soprattutto giovani e donne, privi di lavoro. Oggi l’esigenza di un motore pubblico per gli investimenti e la possibilità di generare occupazione si configurano come un binomio inscindibile”.

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