domenica 31 agosto 2014

Il racconto della domenica - Philip K. Dick, Ora tocca al wub

Avevano quasi finito di caricare. All'esterno l'Optus se ne stava a braccia conserte, scuro in volto. Il capitano Franco scese lentamente giù per il ponticello di sbarco, con un ghigno dipinto sulle labbra.
«Che ti succede?» disse. «Sei pagato per questo.»
L'Optus non disse nulla. Si girò dall'altra parte, raccogliendo i suoi abiti. Il capitano mise il piede sull'orlo del vestito.
«Un attimo. Non te ne andare. Non ho finito.»
«Eh?» L'Optus si girò pieno di sussiego. «Sto tornando al villaggio.» Guardò gli animali che venivano caricati lungo il ponte nella nave. «Devo organizzare nuove cacce.»
Franco si accese una sigaretta. «Perché no? Voi potete andarvene nel veldt e catturarli di nuovo. Ma quando noi ci troveremo a metà strada fra Marte e la Terra…»
L'Optus se ne andò, senza dire una parola. Franco si rivolse ad uno degli ufficiali in seconda in fondo al ponte di sbarco.
«Come sta andando?» domandò. Poi diede un'occhiata al suo orologio da polso. «Qui abbiamo fatto un bel carico.»
L'ufficiale in seconda lo guardò in tralice. «Come lo spiega?»
«Che le succede? Ne abbiamo bisogno più noi di loro.»
«Ci vediamo più tardi, capitano.» L'ufficiale in seconda salì su per il ponte, in mezzo agli uccelli marziani dalle lunghe gambe ed entrò nella nave. Franco l'osservò mentre spariva; stava per andargli dietro, lungo il passaggio che conduceva al boccaporto, quando lo vide.
«Buon Dio!» Rimase lì a guardare, con le mani sui fianchi.
Peterson stava arrivando lungo il sentiero, rosso in volto, tenendolo per una corda.
«Mi scusi, capitano,» disse, dando degli strattoni alla corda.
«Che cos'è?»
Il wub se ne stava ripiegato, muovendo a fatica il grosso corpo. Si mise a sedere, con gli occhi semichiusi. Qualche mosca ronzò intorno ai suoi fianchi, e lui agitò la coda.
Era seduto. Ci fu silenzio.
«È un wub,» disse Peterson. «L'ho comprato da un indigeno per cinquanta centesimi. Ha detto che si tratta di un animale molto insolito; molto importante.»
«Questo?» Franco diede un calcio al grosso fianco pendente del wub. «È un maiale. Gli indigeni lo chiamano wub.»
«Un grosso maiale. Deve pesare almeno duecento chili.»
Franco strappò un ciuffo di peli ispidi. Il wub ansimò, e aprì gli occhi piccoli e umidi. Poi la sua grossa bocca si contorse.
Una lacrima scivolò giù lungo la guancia del wub e gocciolò sul pavimento.
«Forse è buono da mangiare,» disse nervosamente Peterson.
«Lo sapremo presto,» disse Franco.
Il wub sopravvisse al decollo, profondamente addormentato nella stiva della nave. Quando furono nello spazio aperto ed ogni cosa seguiva tranquillamente il suo corso, il capitano Franco ordinò ai suoi uomini di portare su il wub in modo che lui potesse rendersi conto di che razza di animale si trattava.
Il wub grugnì ed ansimò, facendosi strada faticosamente lungo lo stretto corridoio.
«Andiamo,» disse Jones con voce aspra, tirando la corda.
Il wub si contorceva spellandosi i fianchi contro le lucide pareti di cromo. Piombò nell'anticamera e si gettò a terra in un mucchio informe. Gli uomini balzarono lontano.
«Buon Dio,» esclamò French. «Che cos'è?»
«Peterson dice che è un wub,» rispose Jones. «È suo.»
Diede un calcio al wub il quale si sollevò pesantemente, rantolando.
«Che gli succede?» intervenne French. «Sta male?»
L'osservarono. Il wub roteò gli occhi con aria mesta, guardando gli uomini che lo circondavano.
«Forse ha sete,» disse Peterson. E andò a prendergli dell'acqua.
French scosse il capo.
«Non mi stupisco di aver avuto tutti quei problemi per decollare.
C'erano da rifare tutti i calcoli della zavorra.»
Peterson tornò con l'acqua. Il wub prese a leccarla con aria riconoscente, schizzando tutti.
Il capitano Franco apparve sulla porta.
«Diamogli un'occhiata.» Si fece avanti scrutandolo di traverso.
«L'hai comprato per cinquanta centesimi?»
«Sì, signore,» disse Peterson. «Mangia quasi tutto. Gli ho dato del grano e gli è piaciuto. E poi patate, pastoni e avanzi del pranzo, e latte. Sembra che gli piaccia mangiare. E dopo aver mangiato si mette disteso e si addormenta.»
«Vedo,» fece il capitano Franco. «Ora, per quel che riguarda il suo sapore… Questo è il vero problema. Mi chiedo se valga la pena di farlo ingrassare ulteriormente. Mi sembra già abbastanza grasso. Dov'è il cuoco? Lo voglio qui. Voglio scoprire…»
Il wub smise di leccare e alzò lo sguardo sul capitano.
«In verità, capitano,» disse il wub. «Io suggerirei di cambiare argomento.»
Il silenzio scese nella sala.

giovedì 28 agosto 2014

Il racconto del giovedì - M. R. James, La mezzatinta

M. R. James
Tempo addietro credo di avere avuto il piacere di narrarvi un’avventura accaduta a un mio amico, di nome Dennistoun, mentre era impegnato a ricercare oggetti d’arte per il museo di Cambridge.
Di ritorno in Inghilterra, non ha reso note a molti le sue esperienze; ciò nondimeno non era possibile che queste non venissero a conoscenza di numerosi amici, e tra questi del gentiluomo che a quel tempo lavorava per il museo di un’altra università. Era comprensibile che la vicenda colpisse in modo particolare la mente di un uomo la cui missione nella vita è simile a quella di Dennistoun e che egli fosse ansioso di trovare una spiegazione dei fatti tale da rendere improbabile l’eventualità che mai si trovasse a dover affrontare un’emergenza così inquietante. Era un conforto per lui sapere che non era suo compito acquistare antichi manoscritti per l’università; di questo si occupava la Shelburnian Library. I direttori di quella istituzione potevano, se così piaceva loro, saccheggiare oscuri angoli del continente alla ricerca di manoscritti. Lui si rallegrava di essere per il momento costretto a limitare la sua attenzione all’arricchimento di una raccolta già ineguagliata di incisioni e disegni topografici inglesi. Pure, come risultò, anche un campo così casalingo e familiare può avere i suoi angoli bui, e il signor Williams si trovò inaspettatamente a conoscerne uno.
Quanti si siano interessati, sia pure in modo assai limitato, all’acquisto di quadri o disegni topografici conoscono l’esistenza di un mercante londinese il cui aiuto è indispensabile alle loro ricerche. J.W. Britnell pubblica con una frequenza regolare splendidi cataloghi di una raccolta vasta e sempre rinnovata di incisioni, mappe e disegni di case, chiese e città dell’Inghilterra e del Galles. Per il signor Williams, si intende, questi cataloghi rappresentavano l’abbici della sua materia: ma poiché il suo museo aveva già una quantità enorme di materiale topografico, Williams faceva acquisti regolari più che abbondanti; e si serviva di Britnell per colmare le lacune della sua raccolta più che per procurarsi rarità.
Ora, nel febbraio dello scorso anno, sulla scrivania di Williams al museo, venne a trovarsi un catalogo del negozio di Britnell accompagnato da un biglietto scritto a macchina dal signor Britnell in persona. Britnell scriveva:
Caro signore,
ci permettiamo di richiamare la sua attenzione sul numero 978 del catalogo accluso che saremo lieti di inviarle in esame. Sinceri saluti
J.W. Britnell
Cercare il numero 978 del catalogo accluso non richiese al signor Williams (come egli stesso osservò) più di un minuto, e al numero indicato trovò la seguente indicazione:
978. Artista ignoto. Interessante mezzatinta: Veduta di una dimora di campagna, prima metà del secolo. 15 pollici x 10; cornice nera. 2 sterline e 2 scellini.
Niente di particolarmente interessante, e il prezzo sembrava alto. Tuttavia, poiché il signor Britnell, che conosceva il suo mestiere e i suoi clienti, sembrava dare tanto peso alla cosa, Williams spedì una cartolina chiedendo che gli venisse inviato in esame quell’articolo insieme ad altre incisioni e disegni segnalati nello stesso catalogo. Quindi si dedicò, senza grandi attese, al consueto lavoro quotidiano.
I pacchi arrivano sempre un giorno dopo quello in cui li si attende, e il pacco del signor Britnell non fece (come credo si dica) eccezione alla regola. Arrivò al museo con la posta del sabato pomeriggio, quando Williams aveva già lasciato il lavoro, e venne di conseguenza portato dal sorvegliante alla sua stanza nel College, affinché egli non dovesse attendere lunedì prima di esaminarne il contenuto e restituire quello che non intendeva tenere. Williams lo trovò quando arrivò con un amico per il tè.

domenica 24 agosto 2014

Il racconto della domenica - Richard Matheson, Lemming

Richard Matheson
— Ma da dove vengono? — chiese Reordon.
— Da ogni parte — rispose Carmack.
Si trovavano sull'autostrada costiera, e per quanto potessero spingere lo sguardo non vedevano che macchine. Migliaia di macchine incollate parafango contro parafango, sportello contro sportello. Ogni centimetro dell'autostrada ne era coperto.
— Eccone altri — disse Carmack.
I due agenti osservarono la folla che attraversava la spiaggia. Molti parlavano e ridevano, altri erano calmi e composti. Tutti, comunque, si dirigevano alla spiaggia.
Reordon scosse la testa. — Non lo capisco — disse per la centesima volta quella settimana. — Proprio non lo capisco.
Carmack si strinse nelle spalle.
— Non pensarci. Sta succedendo e basta. Che altro importa?
— Ma è folle.
— Guarda, eccoli che vanno.
Sotto gli occhi dei due poliziotti la folla abbandonò la sabbia grigia e cominciò a camminare nell'acqua. Alcuni tentarono di nuotare, ma la maggior parte non poté a causa dei vestiti. Carmack vide una giovane donna cadere fra le onde e sparire sul fondo, trascinata dal peso della pelliccia.
In pochi minuti erano andati tutti. I poliziotti guardarono il punto della spiaggia dove la folla si era immersa.
— Ma quanto durerà? — chiese Reordon.
— Finché sono andati tutti, credo — disse Carmack.
— Perché?
— Non hai mai sentito parlare dei lemming? — domandò Carmack.
— No.
— Sono roditori che vivono nei paesi scandinavi. Continuano a moltiplicarsi finché le fonti di cibo sono esaurite, e allora migrano per il paese distruggendo tutto ciò che trovano sulla loro strada. Non si fermano neppure davanti al mare, ma continuano ad andare. Nuotano finché ne hanno la forza, poi annegano. E sono milioni.
— E credi che qui stia succedendo lo stesso? — fece Reordon.
— Può darsi — rispose Carmack.
— Ma gli uomini non sono lemming! — Nella voce di Reordon c'era una punta di rabbia.
Carmack non rispose.
Rimasero ad aspettare sul ciglio dell'autostrada, ma non si vide nessuno.
— Dov'è la gente? — chiese Reordon.
— Forse quelli erano gli ultimi — osservò Carmack.
— Gli ... ultimi?
— Questa storia va avanti da più di una settimana — disse Carmack. — La gente è arrivata da tutte le parti, e non dimenticarti che ci sono anche i laghi.
Reordon rabbrividì. — Tutti andati — disse.
— Non ne sono sicuro — fece Carmack — però finora arrivavano di continuo.
— Oh Dio — disse Reordon.
Carmack prese una sigaretta e l'accese. — Bene — disse. — E ora che facciamo?
Reordon sospirò. — Tocca a noi?
— Vai prima tu — suggerì Carmack. — Io aspetto un poco per vedere se arriva qualcun altro.
— Va bene. — Reordon gli tese la mano: — Addio, Carmack.
— Addio, Reordon.
Carmack continuò a fumare e vide l'amico attraversare la spiaggia grigia, poi entrare nell'oceano e avanzare finché l'acqua gli ebbe coperto la testa. Reordon nuotò per una decina di metri e infine scomparve.
Dopo un po' Carmack spense la sigaretta e si guardò intorno, quindi scese in mare a sua volta.
Un milione di auto vuote stavano immobili sulla spiaggia.

venerdì 22 agosto 2014

I film da non perdere, secondo Martin Scorsese

Raethia Corsini


Nelle regioni del nord Italia l'estate non è mai arrivata. Invece, a guardare i meteo, i post sui social network e le foto degli amici in vacanza, pare che piena estate sia nel nord Europa e nel sud Italia. La "finta estate" è toccata alle terre di Padania e dintorni. Noi che viviamo nell'eterna città dell'imper(i)o romano, non ci siamo accorti di nulla: bello stabile, da queste parti. Risparmiati anche dalle temperature atroci e umide, noi a Roma ci siamo ritrovati - in molti quest'anno - nel solito supermercato; nello stesso baretto che ha chiuso giusto solo il we di ferragosto; in bici lungo i fori imperiali a testare la chiusura al traffico e tante, molte, tantissime volte ci siamo incrociati nelle arene dei cinema all'aperto dove qualcuno si è portato anche il cuscino, viste le sedie parecchio scomode. Un vinello, uno spuntino e poi sei-euri-sei per colmare le lacune dei film persi in inverno, e in alcuni casi era meglio non colmarle, ma tant'è: l'urbana ignavia estiva ti fa trascinare fino a sera tra un libro e una bibita, una doccia e una chiacchiera e poi d'improvviso ti regala quella sottile uggia mista a senso di colpa serale (anche oggi non ho combinato nulla!) che ti porta con altrettanta indolenza alla domanda di rito: cosa c'è all'arena del cinema? Perché è una soluzione fantastica: intanto inizia alle 21.30, quindi c'è tempo. Poi ti metti, appunto, in pari con le programmazioni e a posto con la cultura della tua coscienza e infine - ma di questo non ti accorgi consapevolmente - il cinema ti conduce piano piano fuori dall'estate o, meglio, più vicino all'autunno. Trovo che il grande schermo delle arene in città, porti con sé tanta nostalgia per la stagione crepuscolare, con tutti i doppi significati e sensi che questo concetto ha la forza di esprimere. L'ultima arena "me la sono fatta" questa settimana, al Sacher: Synecdoche New York (qui una recensione de Il fatto.it, tra le tante), che in quanto a umor nero e malinconia la sa fin troppo lunga. Non solo: il film è uscito in Italia lo scorso giugno ma è del 2008 e contiene l'anticipo testamentario di Philip Seymour Hoffman, morto a gennaio di quest'anno. Anche la pellicola con Robin Williams che uscirà prossimamente nelle sale, contiene l'anticipo della fine stessa dell'attore. Melinconia, nostalgia. Sarà un altro film da non perdere, per onorare lui e anche le coincidenze più tristi che il cinema riesce a mettere in scena. Poi l'altro giorno su twitter pubblicano un elenco non nuovo - nel senso che è stato compilato tempo addietro- di film da non perdere secondo Martin Scorsese, che vive lotta, gira e vede film insieme e per noi. Ho letto la lista e visto il mini video : come con le figurine di un tempo si può stare lì nell'uggia estiva con gli amici e dire ce l'ho-manca. Nell'elenco ci sono assenze nobili, sorprese e cosette per le quali dici "devo rimettermi in pari". E siccome nelle arene non li programmano, toccherebbe scaricarli o darsi al noleggio selvaggio. Ce n'è per approdare all'equinozio d'autunno sereni, nostalgici e malinconici (o malconci?). In caso, buona visione. 

Eterno Eternit (Dismissione)


Fabio Orecchini
Dismissione
Prefazione di Gabriele Frasca
+ Cd-Audio della band Pane
(Claudio Orlandi, voce; Maurizio Polsinelli, pianoforte; Vito Andrea Arcomano, chitarra; Claudio Madaudo, flautista; Ivan Macera, batterista)
Luca Sossella Editore 2014
 

  Elvira Sessa

Con il suo linguaggio contaminato da poesia, musica e immagini, Dismissione è un'opera che frulla, inquieta, destabilizza. Dedicate alle vittime dell'amianto e alle loro famiglie, le parole poetiche sono racchiuse in quattro paragrafi che rimandano, già nel titolo, alla potenza evocativa e visiva di un progetto fotografico: Lamine Rovine; Corpi Dissepolti; Stadio finale - Elementi di reazione; Breviario di Ecologia Solidale. Parole che affermano e negano, si combattono, sono canto armonioso e grida scomposte, come i protagonisti dell'opera, gli operai traditi dal miraggio di "Madama Eternit", l'"eterno-eternit" che, lentamente e inevitabilmente, screma i loro corpi.
La struttura sintattica e semantica del testo (già edito nel 2010 per Polimata editore) la si coglie fin dal primo paragrafo del libro, intitolato "Lamine Rovine", che si apre con queste parole:
Ho studiato il flusso dei venti.
Aghi ovunque
Sono solo due periodi, al centro di una pagina bianca. Due periodi stridenti l'uno con l'altro, graficamente e semanticamente: il primo è fermato da un punto (Ho studiato il flusso dei venti.), il secondo periodo è privo di segni di interpunzione, quasi a voler rappresentare graficamente l'impossibilità di arginare l'abbondanza di aghi.
Sono due periodi contrastanti anche nel loro significato: "il flusso dei venti" suggerisce sensazioni piacevoli, di morbidezza, armonia, movimento, dà sicurezza perchè può essere studiato, compreso, sperimentato, circoscritto. Il "flusso dei venti" fa pensare alla vita e a chi l'ha generata, al padre e alla madre, agli affetti familiari. Gli "aghi" suggeriscono invece una sensazione di morte: bucano, feriscono. Questi aghi sono ovunque, quasi a segnare un destino ineluttabile che annienta tutta la piacevolezza del flusso dei venti.
Così, nella successiva composizione, intitolata "Polvere", si legge:
Madama Eternit sorseggia un caffè in cucina
mio padre che fuma e indurisce ancora
come grezza materia estrattiva
mia madre la scava coi denti
lo respira.
Anche qui c'è uno spiazzante contrasto: nel calore di un ambiente familiare, nella quotidianità, si insinua la "femme fatale" che annienta le persone più care con la stessa noncuranza e leggerezza con cui sorseggia un caffè.

giovedì 21 agosto 2014

Il racconto del giovedì - Saki, La finestra aperta

Saki
«Mia zia scenderà subito, signor Nuttel» disse una signorina di quindici anni molto sicura di sé. «Nel frattempo temo che dovrete accontentarvi della mia compagnia.»
Framton Nuttel si sforzò di dire l’esatto qualcosa che lusingasse la nipote del momento senza trascurare indebitamente la zia che stava per arrivare. Detto fra noi dubitava più che mai che queste visite ufficiali a una sequela di perfetti sconosciuti potesse giovare assai alla cura per i nervi alla quale si riteneva che si sottoponesse.
«So come andranno le cose» aveva detto la sorella mentre si preparava a emigrare verso il suo ritiro rurale; «ti seppellirai laggiù e non rivolgerai la parola ad anima viva, e rimuginare nuocerà ancor più ai tuoi nervi. Ti darò lettere di presentazione per tutte le persone che conosco. Alcune di loro, a quanto ricordo, erano assolutamente incantevoli.»
Framton si chiedeva se la signora Sappleton, la signora alla quale si accingeva a consegnare una delle lettere di presentazione, rientrasse nella categoria incantevole.
«Conoscete molta gente qui attorno?» chiese la nipote, quando giudicò che avessero comunicato a sufficienza silenziosamente.
«Non conosco quasi un’anima» disse Framton. «Mia sorella è stata qui, al rettorato, sapete, qualche anno fa, e mi ha dato lettere di presentazione per alcune persone.»
Fece quest’ultima dichiarazione in tono di palese rimpianto.
«In tal caso non sapete niente di mia zia?» proseguì la signorina sicura di sé.
«Solo il suo nome e indirizzo» confessò il visitatore. Si chiedeva se la signora Sappleton fosse vedova o maritata. Qualcosa di indefinibile nella stanza sembrava suggerire una presenza maschile.
«La tragedia avvenne proprio tre anni fa,» disse la fanciulla; «dopo l’epoca di vostra sorella probabilmente.»
«Tragedia?» chiese Framton; gli sembrava che in questo tranquillo posticino di campagna le tragedie fossero fuori luogo.
«Vi chiederete forse perché teniamo aperta quella finestra in un pomeriggio di ottobre» disse la nipote, accennando a una grande porta finestra che si apriva su un prato.
«Fa piuttosto caldo per questa stagione» disse Framton; «ma la finestra ha qualcosa a che fare con la tragedia?»
«Da quella finestra, esattamente tre anni or sono, suo marito e i suoi due fratelli minori uscirono per andare a caccia. Non sono mai tornati. Attraversando la brughiera diretti al loro posto preferito per la caccia ai beccaccini furono inghiottiti tutti e tre da una frana improvvisa. Era stata quella terribile estate piovosa, sapete, e posti una volta sicuri cedevano di colpo senza preavviso. I loro corpi non furono mai trovati; questa fu la cosa più terribile.» A questo punto la voce della fanciulla perse la sua nota di sicurezza per farsi umana e tremante. «La povera zia continua a pensare che un giorno faranno ritorno, loro e il piccolo spaniel marrone che li accompagnava, e che entreranno dalla finestra come erano soliti fare sempre. Questo è il motivo per cui la finestra resta aperta ogni sera fino a dopo il crepuscolo. Povera cara zia, mi ha raccontato spesso come siano usciti, il marito con l’impermeabile bianco sul braccio, e Ronnie, il suo fratello minore, cantando “Bertie, perché salti?” come faceva sempre per stuzzicarla, perché sapeva che la irritava. Qualche volta, sapete, in serate immobili e silenziose come questa, provo quasi la sensazione raccapricciante che entreranno tutti da quella finestra ...»

domenica 17 agosto 2014

Il racconto della domenica - Ambrose Bierce, L'impiccato

Ambrose Bierce
Un uomo era in piedi su un ponte ferroviario nel nord dell’Alabama, e guardava l’acqua che correva veloce sei metri più in basso. Aveva le mani dietro la schiena, i polsi legati con una corda. Una fune gli stringeva il collo. Era attaccata a una solida trave sopra alla sua testa, mentre la parte allentata gli scendeva fino alle ginocchia. Alcune assi posate sulle traversine che sostenevano i binari della ferrovia fornivano un punto d’appoggio a lui e ai suoi carnefici: due soldati semplici dell’esercito federale, comandati da un sergente che da civile avrebbe potuto fare il vicesceriffo. A breve distanza, sulla stessa piattaforma provvisoria, c’era un ufficiale armato con addosso l’uniforme propria del suo rango. Era un capitano. A ogni estremità del ponte era stata collocata una sentinella con il fucile in posizione di tiro, cioè in verticale davanti alla spalla sinistra, con il cane appoggiato sull’avambraccio perpendicolare al torace – posizione assai innaturale e formale, che imponeva una postura eretta del corpo. Sembrava che a questi due uomini non spettasse di sapere cosa stava accadendo al centro del ponte; si limitavano a bloccare l’accesso alle due estremità dell’assito che l’attraversava.
Non si vedeva nessuno al di là di una delle sentinelle; la ferrovia s’inoltrava per un centinaio di metri nella foresta, poi, dopo aver descritto una curva, si perdeva di vista. Senza dubbio, doveva esserci un avamposto più avanti. Sulla riva opposta del fiume si estendeva una radura: un lieve pendio sormontato da una staccionata di tronchi d’albero verticali, munita di feritoie per i fucili, con un’unica cannoniera dalla quale sporgeva la volata di un cannone d’ottone puntata verso il ponte. Sul pendio, a metà strada tra il ponte e il fortino, c’erano gli spettatori: una compagnia di fanti schierati a riposo, con il calcio del fucile posato a terra, la canna leggermente inclinata all’indietro contro la spalla destra e le mani incrociate sulla cassa. A destra dello schieramento stava un tenente, con la punta della spada che toccava terra e la mano sinistra appoggiata sulla destra. Fatta eccezione per i quattro uomini al centro del ponte, non si muoveva nessuno. La compagnia era girata verso il ponte, con lo sguardo impietrito e immobile. Le sentinelle rivolte verso la riva del fiume avrebbero potuto essere statue che adornavano il ponte. Il capitano stava a braccia conserte, in silenzio, e osservava l’opera dei suoi subordinati, senza fare alcun cenno. La morte è un dignitario che quando arriva dopo essere stato annunciato deve essere ricevuto con manifestazioni formali di ossequio, perfino da quelli che lo conoscono meglio. Nel codice dell’etichetta militare, il silenzio e l’immobilità sono forme di rispetto.

giovedì 14 agosto 2014

Il racconto del giovedì - William H. Hodgson, Middle Islet

William H. Hodgson
«Eccola lì», urlò il vecchio nostromo al mio amico Trevor, mentre il nostro battello girava lentamente attorno alla costa dell'isola di Nightingale.
Il vecchio puntò il fornelletto della sua pipa di radica scura verso una minuscola isoletta a tribordo.
«Eccola lì, signori», ripeté esitante, «Middle Islet! Attraccheremo nella baia fra un momento solo. Badate bene signori, io non posso affermare che la nave sia ancora lì, e se c'è ancora, beh, dovete convincervi che io non vidi nessuno, quando vi salii sopra la prima volta.»
Il vecchio si rimise la pipa in bocca, con aria truce, tirando boccate di fumo aromatico, mentre Trevor ed io scrutavamo attentamente l'isoletta con i cannocchiali.
Ci trovavamo nell'Atlantico del Sud. Alquanto in lontananza, verso nord, si poteva scorgere tra la nebbia e le tempeste, il tenebroso picco dell'Isola di Tristano, la più grande del gruppo delle Isole Da Cunha, mentre lungo l'orizzonte, verso ovest, a volte si riusciva a scorgere la sagoma caratteristica dell'Isola Inaccessibile.
Ma il panorama non ci interessava minimamente, ovvio.
Tutta la nostra attenzione era focalizzata su Middle Islet, al largo delle coste dell'Isola Nightingale.
Soffiava un debole venticello, e il nostro battello scivolava pigramente sopra le cupe acque.
Il mio amico era tormentato da una ridda di sentimenti contrastanti; andava a vedere se quella baia conservava ancora il relitto della nave che aveva imbarcato la sua donna.
Io, personalmente, oltre alla curiosità, provavo un senso di sgomento per le strane circostanze che ci avevano portato lì. Per più di sei mesi il mio amico aveva invano aspettato il ritorno del Felice Ritorno, la nave che per ironia della sorte trasportava la sua donna, diretta in Australia per motivi di salute.
Nessuno aveva saputo più niente di quella nave, e la ragazza era stata data per dispersa da tutti tranne che da noi. Trevor, quasi impazzito, spendendo parecchio, aveva inviato costose inserzioni a quasi tutti i più importanti giornali del mondo, e questo disperato tentativo aveva ben presto condotto da lui il vecchio nostromo che ora stava al suo fianco. Quell'uomo infatti, attirato dalla lauta ricompensa offerta, aveva risposto agli appelli, fornendo alcune informazioni sul relitto di una nave, senza alberi, che portava la scritta del Felice Ritorno sulla poppa e sulla prua, e che egli aveva intravisto durante il suo ultimo viaggio per mare, in una strana, piccola baia sul versante sud di Middle Islet.
Tutto questo non lasciava grandi speranze al mio amico, poiché il nostromo ci disse che era salito a bordo con una parte della sua ciurma, senza trovare assolutamente niente nella nave deserta.
Devo dire che questa versione non mi persuadeva granché, perché conosco il carattere profondamente superstizioso dei vecchi lupi di mare, e probabilmente quel relitto solitario aveva eccitato un poco la loro fosca fantasia, e quindi ...
Comunque, tra breve, avremmo potuto svelare il mistero. Il nostromo si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, che andò a rinvigorire la mia tesi personale sull'argomento.
«Nessuno dei miei uomini volle trattenersi su quella nave. Tirava un'aria poco attraente. Era una nave troppo maledettamente ordinata e pulita per essere un vero relitto.»
«Cosa diavolo intendete dire?», chiesi con noncuranza.
«Beh, è difficile spiegarlo, sapete. Sembrava quasi che la ciurma di quella nave se ne fosse andata solo momentaneamente, in attesa di tornare da un momento all'altro. Ma capirete meglio quando vi salirete a bordo, pote-te contarci ...»
Sputò per terra disgustato, continuando a fumare la pipa.
Lo guardai fisso, incominciando a dubitare delle sue facoltà mentali. Poi guardai il mio amico Trevor, che non aveva udito il nostro discorso, troppo intento a scrutare con il cannocchiale l'isoletta per accorgersi d'altro.
Trevor si voltò verso il nostromo, tremando.

mercoledì 13 agosto 2014

Quanto costa un ebook? L'attacco di Amazon, le ragioni degli editori

Maria Teresa Carbone
Non contenta della sua lunga battaglia con Hachette, adesso Amazon parte all'attacco contro Disney, bloccando la vendita di alcuni fra i suoi titoli più appetitosi in dvd e blu-ray, tra cui Captain America. The Winter Soldier e Muppets Most Wanted. Secondo Ben Fritz e Greg Bensinger del Wall Street Journal, però, non si tratta solo di una questione di prezzi, come nel caso della contesa che oppone la società di Seattle al grande gruppo editoriale. Qui la posta in gioco comprenderebbe la promozione e il product placement sul sito di Amazon, ma per saperne di più, si dovrà vedere quali saranno le contromosse della Disney.
Bezos contro tutti, o quasi, comunque. Anche la contesa con Hachette, uno dei tormentoni di questa travagliata estate 2014, del resto, non accenna a estinguersi.  Un nuovo capitolo si è infatti aggiunto nelle ulime ore alla saga. Se è impossibile sapere quanti messaggi Michael Pietsch, amministratore delegato di Hachette, ha ricevuto dopo che l'altro giorno Amazon ha divulgato il suo indirizzo email, invitando i lettori a protestare per una politica di prezzi sugli ebook secondo Seattle irragionevole, quello che è certo è che a due giorni dalla provocazione della società di Bezos, Pietsch ha deciso di rispondere ai lettori, spiegando punto per punto le ragioni del suo gruppo editoriale
Dopo avere precisato che “oltre l'ottanta per cento degli ebook pubblicati da Hachette non costano più di 9 dollari e 99” (il prezzo che, secondo Amazon, dovrebbe rappresentare il tetto dei libri digitali) e che “quelli più cari costano meno della metà dei corrispondenti libri di carta”, Pietsch arriva al nodo della questione: è vero che gli ebook hanno prezzi industriali minori rispetto ai libri tradizionali (non ci sono le spese di carta, di stampa, di magazzino), ma è anche vero che “gli editori investono pesantemente in ogni libro, spesso per anni, prima di averne dei ricavi”.

sabato 9 agosto 2014

Il racconto della domenica - W. W. Jacobs, La zampa di scimmia

W. W. Jacobs
Fuori la notte era fredda e umida, ma nel salottino di Lakesman Ville le persiane erano chiuse e il fuoco ardeva allegro nel camino. Padre e figlio stavano giocando a scacchi, e il primo, il quale aveva a proposito del gioco idee che comportavano innovazioni radicali, metteva spesso il suo re in situazioni così inutilmente pericolose da suscitare persino i commenti della vecchia signora dai capelli bianchi che se ne stava seduta tranquillamente accanto al camino a lavorare a maglia.
- Senti il vento, - disse White, che, dopo essersi accorto troppo tardi di aver commesso un errore fatale, cercava di escogitare il sistema migliore perché il figlio non lo notasse.
- Lo sto ascoltando, - rispose il figlio, ma continuava a osservare con la massima attenzione la scacchiera, e allungò una mano. - Scacco.
- Credo proprio che non verrà questa sera, - brontolò il padre, una mano appoggiata sul bordo del tavolo.
- Scacco, - ripeté il figlio.
- Ecco il guaio di vivere fuori mano, - blaterò White, con improvvisa e imprevista violenza; - e, fra tutti i peggiori, i più infami posti fuori mano dove vivere questo è il peggiore. Il sentiero è un pantano e la strada è un torrente. Non so che cosa ne pensino gli altri. Probabilmente, dato che ci sono due case soltanto su questa strada, sono convinti che la cosa non conti più di tanto.
- Non preoccuparti, caro, - intervenne la moglie, conciliante; - forse 1a prossima volta vincerai.
White alzò la testa di scatto, appena in tempo per cogliere una occhiata di intesa fra madre e figlio. Le parole gli morirono sulle labbra, e egli nascose nella barbetta grigia un sorriso colpevole.
- Eccolo! - esclamò Herbert White, mentre il cancello sbatteva forte e un pesante scalpiccío si avvicinava alla porta.
II vecchio si alzò, desideroso di fare una buona accoglienza all'ospite, si affrettò verso la porta, e lo sentirono lamentarsi con il nuovo arrivato. Anche il nuovo arrivato si lamentava, ed allora la signora White fece: - Ssst, ssst! - e tossì adagio mentre il marito entrava nella stanza, seguito da un uomo alto e massiccio, dagli occhi piccoli e tondi e dal viso rubicondo.
- Sergente maggiore Morris, - disse il nuovo venuto, presentandosi.
II sergente maggiore strinse la mano ai presenti, accettò la poltrona che gli veniva offerta accanto al fuoco e assunse un'aria soddisfatta mentre il padrone di casa andava a prendere whisky e bicchieri e metteva sulla fiamma un piccolo bricco di rame.
Al terzo bicchiere i suoi occhi si fecero più lucidi ed egli cominciò a parlare; il piccolo circolo familiare guardava con interesse questo visitatore che arrivava da lontano mentre squadrava le larghe spalle nella poltrona e narrava di scene strane e di imprese epiche, di guerre e di pestilenze e di popolazioni curiose.
- Ventun anni di questa vita, - disse White, rivolgendosi alla moglie e al figlio. - Quando è partito era un ragazzino tutto pelle e ossa che lavorava nell'arsenale. E guardatelo un po' adesso.
- Sembra che non se la sia passata molto male, - osservò cortesemente la signora White.
- Anche a me piacerebbe andare in India, - disse White, - non fosse altro che per vedere come è fatto il mondo.
- State molto meglio qui dove siete, - fece il sergente maggiore, scuotendo la testa. E la scosse ancora dopo aver appoggiato al tavolo, con un sospiro, il bicchiere vuoto.
- Mi piacerebbe vedere quei vecchi templi, e i fachiri, e i giocolieri, - insistette il vecchio. - Che cosa avevate incominciato a raccontarmi l'altro giorno a proposito di una zampa di scimmia o simili, Morris?
- Niente, - si affrettò a rispondere il soldato. - O almeno, niente che valga la pena di ascoltare.
- Una zampa di scimmia? - chiese la signora White, incuriosita.
- Bene, è solo un esempio di quella che si potrebbe chiamare magia, forse, - disse il sergente maggiore, con aria disinvolta.
I tre ascoltatori si chinarono in avanti, più interessati che mai. Il visitatore si portò distrattamente alle labbra il bicchiere vuoto, poi tornò ad appoggiarlo sul tavolo. Il padrone di casa si affrettò a riempirglielo.
- A guardarla, - disse il sergente maggiore, frugandosi in tasca, - è una zampetta come tutte le altre, essiccata come una mummia.

giovedì 7 agosto 2014

Il racconto del giovedì - Roald Dahl, La scommessa

Roald Dahl
Erano ormai quasi le sei, così pensai d'offrirmi una birra e d'andare a stendermi su una delle sdraio ai bordi della piscina a godermi l'ultimo sole del pomeriggio.
Andai al bar, presi la birra, la portai via e attraversai il giardino diretto verso la piscina.
Era un bel giardino, con prati e aiuole di azalee e alte palme di cocco. Tra le cime di queste il vento soffiava for­te facendo frusciare e crepitare le foglie come se brucias­sero. Vedevo i grossi grappoli scuri di noci di cocco appe­si sotto quelle foglie.
Intorno alla piscina c'era un'infinità di sdraio insieme con tavolini bianchi e ombrelloni variopinti, sotto i quali erano sdraiati uomini e donne abbronzati e in costume da bagno. In acqua, nella piscina, c'erano tre-quattro ragazze e circa una dozzina di giovanotti, tutti a sguazzare e a far chiasso. Giocavano con una grossa palla di gomma.
Sostai un attimo a guardarli. Le ragazze erano inglesi, clienti dell'albergo, i giovanotti mi sembravano invece americani. Probabilmente erano cadetti di marina, dove­vano essere sbarcati dalla nave scuola americana che era arrivata in porto quella mattina.
Mi diressi verso un ombrellone giallo e presi posto su una di quattro sdraio libere. Mi versai la birra, quindi mi stesi in tutta comodità e accesi una sigaretta.
Fu davvero molto piacevole quella sosta lì all'ombra, con birra e sigaretta. E piacevole era lo spettacolo di quei giovani che sguazzavano nell'acqua verde della piscina.
Quei giovanotti americani andavano proprio d'accordo con le inglesine: erano arrivati ora al punto in cui si tuffa­vano sott'acqua e le tiravan giù per le gambe.
A un tratto scorsi un ometto anziano che avanzava a passo svelto lungo il bordo della piscina. Indossava un abito d'un bianco immacolato e camminava a passetti ra­pidi, saltellando un tantino e sollevandosi sulla punta dei piedi a ogni passo. In testa portava un panama color pan­na e procedeva a balzelloni lungo il bordo della piscina, gettando intanto occhiate alla gente sdraiata sulle sedie.
Mi si fermò davanti e sorrise, mostrando due file di denti piccoli e irregolari, leggermente anneriti. Sorrisi an­ch'io.
«Kiedo skusa, posso sedere qui?»
«Certamente», risposi. «Prego.»

domenica 3 agosto 2014

L'incipit (che non vorremmo mai leggere) della domenica - Michela Marzano, L'amore è tutto etc etc

Michela Marzano
Da bambina, l’amore lo sognavo. Passavo ore e ore a perdermi nelle pagine fitte di storie perfette, oppure a giocare con le bambole che vestivo da regine e principesse. Sognavo giorni senza crepe, come se l’armonia fosse possibile. Come se l’amore potesse riparare tutto.
La vita non poteva accontentarsi di litigi e di fratture. Doveva luccicare. Come l’acqua del mare in primavera.
Da ragazzina, sognavo di riscrivere la storia dei miei genitori. Un “e vissero per sempre felici e contenti” che cozzava inesorabilmente contro il grigio di quei giorni rigati dalla malinconia.
Ero certa che un giorno avrei incontrato un uomo capace di riparare tutto. E mi ostinavo. Non mi fermava nemmeno l’urto con il reale, quando ero costretta a tapparmi le orecchie per coprire le urla della casa.
Mi sentivo diversa. Diversa da mamma che aveva smesso di crederci. Diversa da papà che non ci aveva mai creduto. Diversa anche da mio fratello, che era come me, ma aveva deciso di chiudere porte e finestre buttando via tutto l’amore.
Ero convinta che a me non sarebbe successo.
Che bastava impegnarsi.
Che con la forza di volontà si poteva vincere qualunque ostacolo.
Anche quando la tristezza mi travolgeva e in pochi attimi ero sopraffatta dall’ansia.
Ansia di prestazione e di perfezione. Ansia di diventare subito grande. Ansia di non essere capace di meritare quell’amore gigantesco di cui, come tante altre adolescenti, riempivo le pagine del mio diario, prendendo in prestito frasi e parole dai romanzi e dalle raccolte di poesie che si accumulavano sul comodino.
Non cinquanta sfumature. Mille. Anzi un milione. Perché i colori pastello non bastano mai per raccontare la fatica che si deve fare per togliere dai suoi occhi quell’insopportabile tristezza.
«E poi chi lo dice che il principe azzurro non esiste?» urlavo a mio padre, che non riusciva proprio a capire cosa mi passasse per la testa. Cosa volevo dalla vita? Perché non mi accontentavo di quello che già avevo?
«Va bene, sono ridicola, e allora? A te che te ne importa?»
«Quando sarai grande mi darai ragione.»
Era sempre così che finiva. Come potevo contraddirlo? Che ne sapevo io del mondo dei grandi?
Era sempre così che finiva. Con quel dubbio che fosse lui ad avere ragione. Prima d’incaponirmi e ricominciare tutto da capo.
Oggi lo so, tante cose che mi sono successe sono la conseguenza più o meno inevitabile di quei pomeriggi passati a costruire reami di carta.
Quando credevo alla bacchetta magica e alla bella addormentata nel bosco.
E aspettavo solo il momento di svegliarmi tra le sue braccia, felice e contenta di quell’amore immacolato.
Se lui e lei si incontrano, come fa lui a non capire che la risposta a tutti i suoi perché è lì, immediatamente presente?
Oggi lo so che la vita, con le fiabe, non c’entra niente.
Che lui non può essere la risposta a tutto quello che non abbiamo avuto.
Che non c’è amore senza attesa e senza errori.
Che l’esistenza è piena di crepe.
Che non basta impegnarsi e fare il proprio dovere ...


* * * * * 

Postfazione di Alceste


Basterebbe poco. Una leggina.
Potrebbe chiamarsi Lex Cimina.
"Chiunque intraprenda la carriera di scrittore di libri (di libri cartacei) deve sottoporsi a un'ordalia ...".
Ordalia: un giudizio divino.
Si fa così: arriva il nuovo autore/autrice, col nuovo libro. Il funzionario preposto lo accoglie sobriamente, dietro un nudo tavolaccio di legno.
La cerimonia è brevissima.
Egli, con calma, solleva e appoggia una pistola a tamburo sul tavolo.
La benedice.
Esordisce, quindi, con voce scabra, dettata da un dovere iperuranio: "Questa è una Smith & Wesson 686 modello standard calibro 357. Caricatore a sei colpi. Solo una pallottola inserita". Fa girare il tamburo. Passa l'arma al candidato autore e scandisce il rituale: "Accetta?".
A questo punto si hanno due possibilità.
1. Il candidato rifiuta. Il rifiuto è necessariamente accompagnato da una liberatoria per cui l'autore/autrice s'impegna a non pubblicare neanche una riga in futuro (su carta, lo ripetiamo)
2. Il candidato accetta.
La seconda possibilità conduce a due possibilità ulteriori.
1. Il candidato si spappola la testa.
2. Il candidato la sfanga. In questo caso, solo in questo caso, egli ha diritto alla pubblicazione cartacea dei suoi presunti sforzi intellettuali/letterari.
Eventuali dubbi su tale procedura igienica (se Baricco fosse codardo non avremmo Seta e Oceano mare, quale perdita! ... se Vitali si fosse fatto saltare le cervella non avremmo Olive comprese ... quale lutto!) non tengono conto delle decine di migliaia di autori estromessi.
Pensiamoci bene.
Pensateci bene.
Ah che pace! che serenità! che aria sottile, pulita! che profumo di libertà!

Non chiudeteci la biblioteca! (Una lettera aperta da Bella, in provincia di Potenza)


Tra i temi che l'anno prossimo Monteverdelegge intende approfondire, ce n'è uno a cui teniamo in modo particolare: leggere a scuola. Cominciamo già ora con una lettera aperta che viene dalla bibliomediateca di Bella, in provincia di Potenza. Vi si descrive una esperienza molto positiva, che purtroppo rischia di finire. Se qualcuno dei nostri lettori, monteverdini e non, avrà voglia di commentare, non potremo che esserne contenti.
Il lunedì e il giovedì, dalle 10.00 alle 12.00, un gruppo di bambini e ragazzi attende davanti all’ingresso della biblioteca scolastica “A.Malanga” di Bella (PZ), la maestra Clementina Grieco che, anche nei mesi di giugno, luglio e agosto, offre gratuitamente il suo tempo per dare la possibilità ai ragazzi di leggere e consultare libri e riviste, effettuare il prestito, collegarsi ad internet e fare ricerche, ascoltare musica, mettersi in comunicazione via Skipe con i compagni che sono in vacanza al mare o in montagna.
Alcuni si siedono ai tavoli, mettono in ordine libri e quaderni e cominciano a fare i compiti per le vacanze. Lavorano insieme, si consultano, si aiutano, si confrontano. La maestra Clementina e il professor Mario Priore, responsabile della biblioteca, sono a disposizione per consigliare, aiutare, indirizzare.
E la biblioteca diviene luogo di lettura, di riflessione, di concentrazione. E i ragazzi assaporano la lentezza dell’approfondimento, la bellezza della cura senza approssimazione.
Dopo un poco arrivano i lettori incalliti. Hanno bisogno di altri libri in prestito perché quelli che hanno preso la settimana scorsa li hanno divorati. Sono ragazzi di diverse fasce d’età, spesso accompagnati da genitori e nonni, alla ricerca di nuove proposte di lettura per la settimana successiva. Si discute sui libri letti, sulle preferenze accordate ai diversi protagonisti. Qualcuno porta i propri libri personali da scambiare con altri, perché spesso capita, con i divoratori di libri, che la biblioteca esaurisca le novità. E la lettura diventa per loro compagna di vita.
Quando chiedi perché vengono in biblioteca ti rispondono che gli ambienti sono curati e gradevoli, che c’è tanto spazio, che gli arredi sono belli e colorati e che dentro quello spazio grande, ma raccolto, ci trovano l’atmosfera giusta per lavorare e per concentrarsi. Raccontano che amano cercare, sfogliare, prendere i libri che sono a portata delle loro mani e non chiusi a chiave in scaffali irraggiungibili. I più piccoli vogliono sedersi sul grande tappeto con i cuscini e ascoltare le storie, ma anche leggerle da soli seduti o sdraiati. E poi c’è internet, con i computer e qualche ipad a disposizione per navigare e soddisfare curiosità e voglia di informarsi.
È questa la bibliomediateca scolastica dell’I.C. di Bella, luogo di vita e di cultura.
È la biblioteca delle 5 edizioni del Premio Nazionale di Letteratura per ragazzi, dei 7 Tornei di lettura tra 15 scuole in rete, dei moltissimi autori e illustratori che incontrano ogni anno migliaia di ragazzi con i loro familiari, i docenti, le diverse comunità.
È la biblioteca delle oltre 10000 presenze all’anno, il cuore della scuola, il riferimento principale di alunni e docenti che leggono, imparano insieme come si fa ricerca, come si documentano le attività didattiche, come si producono booktrailers e cortometraggi a partire dai libri letti. È la biblioteca dei laboratori di scrittura e illustrazione.
È la biblioteca portata ad esempio di buona pratica nel recente Forum del libro di Bari, fatta oggetto di attenzione da Ilaria Sotis nella trasmissione La radio ne parla su Radiouno; la biblioteca che sa coniugare libro e tecnologie, come ha testimoniato Antonella Agnoli su Radio Vaticana in una puntata di Punto e a capo.
Anche la biblioteca scolastica di Bella vive dal mese di aprile 2014 un periodo molto difficile. E’ sempre più difficile tenerla aperta perché le due addette alle pulizie, che nel tempo si sono formate in diversi corsi di aggiornamento e hanno imparato a catalogare i libri, a gestire il catalogo on line, il prestito e il supporto tecnico per alunni e docenti, sono personale ex LSU, lavoratori precari nelle scuole da almeno 10 anni, che assicurano non più 36 ore a settimana di lavoro, ma solo 7. Già, poco più di un’ora al giorno, perché la ditta che è subentrata con un appalto Consip ha offerto un ribasso del 60%, riducendo le ore di lavoro del personale che, nel frattempo, viene impiegato in altre scuole per imbiancare le aule.
Da aprile in cassa integrazione forzata (con fondi regionali) e nei mesi di luglio e agosto a pitturare scuole.
È proprio cosi, purtroppo. E da settembre sarà ancora peggio, perché la nostra è una scuola a tempo pieno e deve assicurare prioritariamente il servizio di pulizia e vigilanza.
Ma oggi si preferisce un improvvisato imbianchino ad una biblioteca aperta e funzionante!

sabato 2 agosto 2014

I racconti della domenica - Paolo Villaggio, Fantozzi in vacanza/Fantozzi al mare/Fantozzi in crociera

Paolo Villaggio
Fantozzi in vacanza

Questa volta Fantozzi si è concesso quattro meravigliosi giorni di vacanza. Si è trovato nella cassetta delle lettere un dépliant di un'agenzia di viaggio: “Meravigliosa crociera. Barcellona, Madrid, Saragozza, le Baleari e tutto il Nord-Africa arabo in 4 ore! Le rate saranno trattenute sullo stipendio”. Va da sé che una rata equivaleva a 12 mensilità di Fantozzi. Ha versato la sua quota e per la prima volta ha affrontato il mare.
Ed eccolo al “gran giorno” della partenza. Piove a dirotto. In un clima tragicamente festoso, la nave si stacca dalla banchina: stelle filanti, orchestrina di bordo che strimpella Ciao, ciao bambina e tutti sui ponti che salutano. Che salutano chi? In genere i facchini rimasti sul molo. Non c'è mai nessuno alle partenze dei croceristi a prezzi familiari! I facchini però, pietosamente consapevoli di quella grossa lacuna scenica, rispondono stancamente.
Beh! Il colpo d'occhio è tale che molti di quei granitici lavoratori si commuovono veramente. I fazzoletti si agitano festosamente, si fermano... qualcuno si soffia furtivamente il naso... ci sono molti occhi lucidi in giro. Poi tutti scendono nelle cabine assegnate. O meglio, cercano di scendere! Perché, trovare la propria cabina, in quell'autentico labirinto che è una nave, è impresa disperata. Si incontrano, dopo trenta ore e più dalla partenza, gruppi in lacrime che hanno deciso di collaborare. Si tengono tutti per mano in lunghe file e cercano di risalire alla luce: avete presente quel quadro I ciechi di Brueghel? Così! Si incontrano degli isolati ormai deliranti che vi abbracciano le ginocchia implorandovi di riportarli sui ponti dalle famiglie. In genere la prima avvisaglia di questo dramma improvviso e insospettato si ha a cena, la prima sera. Manca il novanta per cento dei croceristi. Dove diavolo sono? Tutti persi nei meandri della nave.
E poi i “giochi di ponte” che sono di una noia abissale. Il più noto è il tiro alla fune: pericolosissimo. Non potendosi fare impiegati contro impiegate perché queste sono molto più forti degli uomini distrutti da vent'anni di scrivania, si fa in genere scapoli contro ammogliati. Uniche categorie lecite in Italia. Provate rossi di cappelli contro neri: sa subito di fazione politica. Omosessuali contro impotenti? Si creano subito delle invidie! Oppure impiegati contro dirigenti.
Ma in questo caso si conosce subito l'esito. Due dirigenti di 106 anni sbaragliano 100 impiegati di trenta. Allora scapoli contro ammogliati. I feroci ufficialetti che organizzano i giochi urlano: “Via!”. Al via parte solo il gruppo degli ammogliati e l'ultimo centra con la nuca una di quelle grosse borchie di ottone, messe volutamente dall'armatore, in punti strategici sul ponte giochi... per sfoltire e diminuire le spese di gestione. Gli ufficialetti intervengono allora allegri: “Non è successo nulla”. “Allegria, allegria. Cosa volete che sia, in fondo era solo un crocerista... di turistica.” E lo spingono con il piede furtivamente in mare. Poi fanno al capitano, che è sul ponte di comando, un gesto col pollice: “Ne cancelli uno per favore”. E il comandante sposta un pallino in un grande “pallottoliere da crociera” che tiene al posto della bussola.
Altro gioco: la pesca dei cucchiai. Si gettano dei cucchiai d'argento nella piscina di prima classe, la più grande. Le navi sono classiste, non certo come quelle negriere di “cara” memoria, ma ci sono piscine di 1ª poi di 2ª più piccole, poi di 3ª, fin che si arriva a piscine grandi come bottoni, per l'equipaggio. Ma il gioco dei cucchiai si fa sempre nella piscina di prima. Gli ufficialetti dicono “... e al giovane vigoroso che raccoglierà più cucchiai dal fondo daremo in regalo una bella bambolina”. Cade in acqua subito uno sui 90. Loro attaccano la radiocronaca. “Si è gettato il ragionier Fulzi dell'ufficio sinistri... è immerso già da venti secondi... Lo vediamo immobile sul fondo... sta cercando certamente di raccogliere dei cucchiai... immerso da due minuti... da sei... da dodici... è sempre immobile! da venti... stappare!!!”
La vasca viene vuotata e il ragioniere furtivamente gettato fuori della murata. Il capitano che ha visto tutto sposta un pallino sul suo pallottoliere questa volta con una curiosa risata. Ed è per questo che le navi da crociera sono seguite da branchi di pescicani i quali hanno certamente dall'armatore notizie sulla rotta e le aspettano al varco all'uscita dai porti.
L'altoparlante l'ultimo giorno fece un annuncio “Chi desidera visitare le macchine si trovi alle 15 nel salone di prima classe”. Fantozzi curioso ci andò.
Sul posto, un ufficialetto di coperta, bello, tutto in bianco, sciabola e feluca.
“Lei è ufficiale di macchina?” domandò e lui con fierezza: “Mai sceso nelle macchine, io! Conduco il gruppo!” disse e lui si accorse che sbriciolava una lunga fila di molliche di pane, come Pollicino nella fiaba. Valicarono la porta delle macchine: l'inferno! Un caldo terrificante. Sul fondo, un migliaio di persone, uomini e donne, distrutti dalla fatica e sporchissimi che remavano con sforzo, a ritmo assordante di tamburi, percossi dai feroci aguzzini. Rimase molto sorpreso. Si avvicinò a un tipo sporco, ma distinto, con gli occhiali d'oro. “Lei è capitano di macchina?” urlò superando il rumore dei tamburi. “No!” “Ha fatto l'Istituto nautico, però?” “No” rispose con un filo di voce. “Tradizione di famiglia?” “No! Sono dottore in economia e commercio.” “Come mai?” “Crociera aziendale 1949... mi sono infilato subito nella porta delle macchine, credevo che fosse la mia cabina. Mai più trovata l'uscita! Ma mi sono adattato, un lavoro vale l'altro, e qui ci sono meno responsabilità e poi...” Non finì la frase, una scudisciata gli tappò la bocca. Lui abbassò gli occhi e non volle più parlare.

Fantozzi al mare

Fantozzi è andato domenica pomeriggio ai bagni Flora con la signorina Silvani.
Fantozzi nella sua tragica timidezza era sempre stato spigoloso con le donne e giustificava questa sua posizione con la riuscita del suo matrimonio con la signora Pina. Ma in verità per la moglie, capelli opachi color topo, naso alla Dante, e rassegnata a una vita squallida, Fantozzi covava un cupo rancore e un grande desiderio, quello di squartarla e di servirla alla “cacciatora” in un gran banchetto coi colleghi d'ufficio. La signorina Silvani invece, dell'ufficio cabale, gli era decisamente simpatica e, a modo suo, le faceva da sei anni la corte.