domenica 6 luglio 2014

L'incipit della domenica - Robert Aickman, Le spade

Afferma Giuseppe Lippi, curatore di una delle rarissime antologie italiane dedicata al britannico Robert Aickman (1914-1981): "Aickman eccelle in un gioco per altri versi pericoloso: quello di ottenere un massimo di tensione attraverso l'accumulo di fatti banalissimi. Non suoni scoraggiante al lettore: la stoffa dello scrittore si riconosce proprio nel fatto che i risultati gli danno ragione. Il luogo comune, il pettegolezzo, il penoso imbarazzo delle situazioni triviali sono i suoi ferri del mestiere, e Robert Aickman li adopera con bravura e consumata ironia".
Ed è così: come in Shirley Jackson, o nell'opera dei conterranei Saki, Max Beerbohm e Margaret Oliphant (fra i tanti), l'orrore e il disagio non solo vivono già annidati nel reale, ma in un reale ordinario, goffo e prevedibile. Per questo, come accade al protagonista dello straordinario racconto Le spade, sono gli individui più sbiaditi e comuni a rinvenire il filo penzolante delle smagliature dell'esistenza; la superficie della vita - sembra dire Aickman - apparentemente normale e composta, deve la propria banale razionalità a un mondo sottostante, fatale e sconosciuto ai più, in cui possiamo imbatterci per caso, nei nostri tranquilli andirivieni quotidiani.

Robert Aickman
La mia prima esperienza sessuale?
Fu una specie di esame, più di qualunque avventura che mi sia capitata poi nello stesso campo. Non molto piacevole, ma rivelatrice. Ho notato in diverse occasioni che le cose più strane accadono proprio ai principianti: e talora, penso, solo a loro. Quando una cosa la si conosce non c'è più mistero, e questo vale in quasi tutti i campi. Prendiamo le donne: dopo le prime sei, sette, o otto, le altre spariscono nel gruppo. lo ero appunto un principiante, grezzo come una cipolla a primavera. Per di più ero un cocco di mamma, spaventato a morte della vita e un crasso ignorante. Ma non voglio mancare di rispetto a mia madre: era buona come un'altra e me la cavavo meglio con lei che con molte altre donne.
Mia madre aveva un fratello, zio Elias. Dovrei aggiungere che discendiamo da una grande famiglia di ceramisti, ma la verità e che non ne sono tanto sicuro. La nonna conservava qualche coccio per suffragare questa tesi, ma è difficile giurarci. Dopo che mio padre rimase ucciso in un incidente, mia madre chiese allo zio Elias di prendermi in affari con sé. Lui era un rappresentante di prodotti per drogheria, ma non in grande stile: teneva solo gli articoli a buon mercato. Zio Elias disse che dovevo farmi le ossa viaggiando. Mia madre era molto preoccupata, perché papà era morto in un incidente d'auto e perché pensava che sarei stato esposto alle tentazioni, ma non poté farci niente e io diventai commesso viaggiatore per conto dello zio.
Il pericolo della tentazione esisteva davvero, ma io ero troppo ingenuo e troppo spaurito per lasciarmene coinvolgere. Per quanto potevo, mi tenevo a distanza perfino dai colleghi che incrociavano la mia strada: ero sicuro che avrebbero avuto su di me una pessima influenza, e poi non ci tenevo a passare da poppante del gruppo. Inutile dire che il mestiere di commesso viaggiatore mi disgustava, che mi faceva sentire terribilmente solo: e non è un modo di dire, ero terribilmente solo. Odiavo quella vita, ma zio Elias aveva promesso di sistemarmi e io non riuscivo a vedere altre possibilità. Feci il commesso per più di due anni, dopodiché, grazie a un'inserzione sul giornale, trovai il mio attuale lavoro presso una ditta di costruzioni: allora, finalmente, fui libero di dire allo zio cosa poteva farsene dei suoi prodotti di drogheria a buon mercato.


Il più delle volte noi commessi ci fermavamo in alberghetti che non erano tanto male: no, sia le stanze che il rancio potevano andare. Ma vi erano delle città in cui zio Elias conosceva degli indirizzi, e lì ci ordinava di andare: parlo al plurale perché la stessa sorte toccava a Bantock, l'altro commesso dello zio, un ragazzo veramente triste. Ancora oggi non so perché zio Elias ci costringesse ad andare in posti del genere: a quell'epoca sospettavo che ne ricavasse un tornaconto, e il dubbio era più che legittimo, ma ora mi chiedo se le ragazze che dirigevano le pensioncine non fossero state, nel passato più o meno remoto, le fiamme di zio Elias. In almeno un'occasione chiesi a Bantock cosa ne pensasse, ma lui disse che non sapeva. C'erano ben poche cose che Bantock ammettesse di sapere, al di là dei prezzi del sapone da bucato e dello scotch. Fu commesso per quarantadue anni, sempre con lo zio, finché un giorno cadde morto per trombosi a Rochdale. La signora Bantock, di lei ero sicuro, era stata una delle amanti di zio Elias, ma questa è una faccenda risaputa.
Le donne che dirigevano le pensioncine si comportavano come se ciò che ho detto fosse proprio vero. Non avete mai visto, e non vedrete mai, simili baldracche: facevano chiasso tutta la notte, sicché era impossibile dormire in maniera decente, e spesso picchiavano alla vostra porta, mezzo svestite, dicendo che le volevano battere o strangolare. Come se non bastasse, alcuni commessi si portavano in camera dei ragazzi, cosa che non sono mai riuscito veramente a capire. È una cosa che si legge sui giornali, di cui si sente parlare, che spesso si constata con i propri occhi: ma ancora non riesco a capire. E io, puro e immacolato, me ne stavo in mezzo a tutto quell'inferno. A volte le signore, con una notevole faccia tosta, mi sondavano per vedere se ci “sarei stato”; Bantock non so se ci stesse, perché non ci è mai capitato di finire insieme in uno di quei tuguri. Ma la cosa più divertente è che mia madre mi credeva perfettamente al sicuro, in quelle pensioncine raccomandate dallo zio: dopo tutto era suo fratello a farsene garante, e suo fratello non poteva che volere il bene mio e di Bantock.
Naturalmente non capitava spesso di dover soggiornare in posti del genere, ma sempre quando ero solo, completamente solo. Le conoscenze o amicizie presso le quali mi aveva introdotto Bantock abitavano tutte in città nelle quali potevamo fermarci in alberghi più rispettabili; tuttavia di quando in quando eravamo costretti a scendere in quelle bettolone, e Bantock, poi, non aveva nessuna voglia di parlarne.
Una delle città in cui esisteva una “pensione raccomandata” dallo zio era Wolverhampton. Fu là che feci la mia prima esperienza, dopo quattro o cinque mesi di lavoro. Era la prima volta che mi fermavo in una “pensioncina”: quando vidi l'aspetto che aveva e l'invariabile tardona dagli occhi smorti che mi aspettava in bigodini e vestaglia sporca, il mio cuore ebbe un tuffo profondo.
Non avevo assolutamente niente da fare. Non c'era nemmeno un posto dove sedersi e guardare la tele. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare era andare fuori e ubriacarmi, o portarmi in camera, per compagnia, uno dei personaggi dei quadri. Ma né l'una né l'altra idea mi andavano a genio, così decisi di fare una passeggiata in città. Doveva essere tarda primavera o il principio dell'estate, perché c'era un piacevole tepore ma non faceva troppo caldo, e quando finii il mio tè (che dovetti prendere al bar, perché in pensione non ce n'era) il cielo non era completamente buio.
Passeggiavo per le strade di Wolverhampton e tutte le ragazze mi sorridevano, o almeno così sembrava a me, quando mi imbattei in una specie di piccolo luna-park. Non conoscendo affatto la città ero risalito dai quartieri periferici seguendo il vecchio canale. Le strade principali erano piuttosto larghe, essendo fatte per l'intenso traffico giornaliero e per i tram, ma a quell'ora erano tranquille e quasi deserte, a parte l'occasionale autocarro e i ragazzi e le ragazze che giocavano agli angoli. Le stradine laterali erano fiancheggiate da file di piccole case, gran parte delle quali erano vuote e avevano finestre rotte, assi inchiodate sull'uscio o un buco nel tetto. Me ne sarei tornato indietro, ma il rumore del luna-park mi attirò: gli amplificatori non trasmettevano musica pop e nemmeno le note affannose di un vecchio organo, ma piuttosto una specie di dolce tintinnio, che s'accordava benissimo con la sera tiepida e il crepuscolo rosa. Dapprima non riuscii a decidere da che cosa fosse provocato, ma siccome non avevo niente da fare - proprio niente - continuai a guardarmi intorno finché scorsi la giostra.
Era veramente molto piccola: cinque o sei baracche dove qualche ragazzino lanciava gli anelli o sparava con un fucile giocattolo, due o tre capanni coperti e nel mezzo la giostra vera e propria, una cosa piccolissima. Era da lì che veniva il suono tintinnante, e nell'insieme era una bellezza. In mezzo c'erano finti pupazzi di neve e finti ghiaccioli, e le slitte, ognuna dì colore diverso e fatta per portare due persone, giravano intorno; a quanto ricordo ognuna aveva anche, in cima, una lanterna. In mezzo alla giostra c'era una ragazza bionda, molto carina, con indosso un buffo costume; almeno, a quel tempo mi sembrò molto carina. Il suo compito consisteva nel raccogliere i soldi dalle persone che salivano sulle slitte, ma il guaio è che non c'era nessuno. Nemmeno un cane. Siccome in giro non si vedeva anima viva, finì che la ragazza posò gli occhi su di me. Mi sentii un idiota perché non ero in compagnia, così le girai le spalle e andai via. Non avrei osato chiedere alla ragazza di salire con me sulla slitta, e comunque forse le era proibito. A meno che non fosse la proprietaria.
Il luna-park era stato piazzato su un fazzoletto di terra sgombro per il semplice motivo che le case che l'occupavano erano state demolite, o forse erano crollate. Su due lati dello spiazzo torreggiavano le mura bianche di una fabbrica, e il terreno era così irregolare che pareva di camminare su una scogliera. Nel piccolo luna-park non c'era niente di stabile, di permanente: si capiva benissimo che oggi era qui e domani sarebbe sparito. Mi domandai - e non avrei dovuto farlo - se gli fosse convenuto piazzarsi in un posto tanto disgraziato, e mi dissi che forse non aveva nemmeno l'autorizzazione comunale. All'improvviso pensai che la vita dev'essere dura per i proprietari di un piccolo luna-park, e non a caso sono quasi tutti spariti; ai tempi di mia nonna, a sentir lei, le giostre erano grandi e meravigliose e i circhi stupendi. I clienti del piccolo luna-park erano quasi tutti bambini: è vero che oggi i bambini hanno più soldi, ma quelli spendevano quasi tutto al banco dei gelati e delle mele zuccherate, distribuite da una donna dall'aspetto miserabile che se ne stava dentro un baracchino. Pensai che sarebbe stato più semplice e più conveniente concentrarsi su quell'attività: vendere dolciumi invece che cercar di divertire della gente che preferiva starsene tappata in casa. Il fatto è che quella sera dovevo sentirmi particolarmente giù di corda; e il luna-park, pur essendo carino e dall'aspetto antico, non riusciva a mettermi di buon umore.
La ragazza poteva ancora vedermi, ed ero sicuro che il suo fosse uno sguardo di rimprovero, forse di disprezzo. La posizione della giostra era tale per cui lei era al centro di tutto e non poteva andar via. Avrei voluto mettermi a correre, tanto più che i padroni dei baracchini cominciavano a gridarmi dietro (ero l'unico adulto nel circondario), ma ecco che, continuando per la mia strada, vidi un tendone coperto all'estremità dello spiazzo, dove il muro della fabbrica faceva angolo. Era una tenda quadrata, dipinta a strisce bianche e rosse molto sporche, e sulla piega sgualcita che faceva da ingresso era sistemata una tavola di legno dai bordi irregolari; su questa tavola, e in sbiadite maiuscole d'oro, si leggeva la scritta LE SPADE. Questo è tutto. La notte avanzava rapidamente, ma davanti alla tenda non brillava alcuna lampada e non veniva luce dall'interno. Si poteva pensare che fosse una specie di negozio.
Per qualche ragione allungai la mano e toccai la piega dell'ingresso. Sono certo che non avrei avuto il coraggio di scostarla e sbirciare all'interno, ma un tocco leggero bastò. L'ingresso fu aperto e un giovanotto apparve sulla soglia, piegando la testa di lato come per invitarmi a entrare. Vidi immediatamente che era in corso una specie di spettacolo; non avevo nessuna intenzione di guardarlo, ma pensai che avrei fatto la figura dell'imbecille se mi fossi messo a scappare nel piccolo spiazzo.
“Due pezzi” disse il giovanotto, lasciando cadere il bordo lercio della tenda e protendendo una mano non meno lercia. Indossava un pullover verde, rammendato ma ancora con i buchi, pantaloni grigi bisunti e sandali anche più sporchi. La prima impressione che il posto mi fece fu di sporcizia: tanta sporcizia che avrei potuto scappare davvero, se solo l'avessi giudicato possibile. Non mi era sembrato che le altre baracche fossero tanto sozze.
Di scappare, comunque, non se ne parlava. All'interno, sparse sul terreno nudo e gibboso, c'erano circa trenta sedie di legno, tutte spaiate, tutte con un difetto di qualche tipo, tutte scheggiate o scolorite. Anche più sparso era il pubblico, composto da sette persone: so che erano sette perché le contai senza difficoltà e perché ben presto la cosa diventò importante, lo ero l'ottavo. Tutti gli spettatori erano soli, e tutti uomini: uomini adulti, stavolta, non ragazzi. Penso di essere stato di gran lunga il più giovane.
Lo spettacolo consisteva in un numero di cui non ho mai sentito parlare, né ho mai letto dopo quella volta. No, non direi proprio.
Contro l'estremità opposta della tenda (probabilmente a ridosso del muro della fabbrica) c'era una specie di bassa pedana di legno, scura ma scolorita. Dalla pedana un uomo dall'aspetto corpulento si rivolgeva al pubblico in maniera non particolarmente forbita. Aveva capelli ricci e gialli, del colore della limonata a buon mercato, ma che cominciavano a ingrigire; la faccia era grande e rossa, col naso schiacciato e le labbra viola. Aveva occhi e orecchie molto piccoli: le orecchie non parevano simmetriche, se capite ciò che voglio dire. Non era un bel tipo, benché sembrasse molto forte, e pensai che avrebbe potuto battersi contro tutti noi spettatori (uno alla volta) e riuscire vincitore. Non avrei saputo dire che età avesse, né ci sono riuscito in seguito (sì, lo vidi altre due volte), ma immaginai che fosse sulla cinquantina e mi dissi che non doveva godere di buona salute. Era fatto di muscoli e bicipiti, più di quanti spettino a un uomo normale, ed era vestito come il giovane alla porta, tranne per il fatto che il pullover era blu scuro, come fosse un marinaio o fingesse di esserlo. I pantaloni grigi e bisunti erano identici a quelli dell'altro, e la tenda, pensai, poteva essere il ring di un improvvisato incontro di boxe.
Ma non lo era. Alla sinistra del tizio muscoloso (e giusto davanti a me, che sedevo in una fila arretrato, a margine di quegli avvenimenti) una ragazza era allungata su una sedia pieghevole dallo schienale rigido, scolorita e consunta come ogni altra cosa in quell'ambiente. Era vestita come una spogliarellista francese, con uno straccetto nero e luccicante tagliato alto, calze nere a rete e scarpe nere coi tacchi altissimi, del tipo che certi uomini cercano con tanta passione. Nonostante questo, l'effetto complessivo non era particolarmente sexy. Le varie parti del costume avevano visto giorni migliori - come ogni altra cosa - e la ragazza in sé pareva più malata che pepata. In altre circostanze, pensai tanto per far qualcosa, sarebbe parsa carina: ma qui si era imbrattata di una cipria verde che doveva aver scelto a caso o che altri avevano scelto per lei, e i capelli, raccolti in una stretta crocchia come quella delle ballerine classiche, erano scoloriti piuttosto che platinati. Per completare il quadro, pareva appesa alla sedia invece che seduta, dando l'impressione che stesse per svenire o per sentirsi male da un momento all'altro. Certo non faceva niente per eccitare i presenti (non che io pretendessi qualcosa del genere, o almeno, così pensavo all'inizio).
Davanti a lei, in un angolo della pedana, c'era un mucchio di spade. Erano disposte diagonalmente, come pezzetti di formaggio incrociati, sulla cima di un basso sgabello nero del tipo che fanno a Sedgeley e Wednesfield e vendono per giapponese; tuttavia questo esemplare non era decorato e aveva un aspetto abbastanza sobrio, addirittura logoro. Le spade dovevano essere trenta o quaranta, perché la pila aveva quattro lati, e le impugnature sporgevano diagonalmente le une sulle altre. Più tardi riflettei che c'era una spada per ogni sedia, casomai si verificasse un pienone.
Se non avessi letto l'annuncio all'esterno, non avrei capito che erano spade: non subito, perlomeno. Non scintillavano, non erano istoriate. Le lame erano di un grigio opaco e le impugnature di una materia nera che forse era plastica. Sembravano fatte in serie, ma non riuscivo a capire da chi: non erano fioretti, ma molto più pesanti, e al giorno d'oggi la richiesta di spade vere dev'essere limitata a poche necessità cerimoniali, e sempre meno anche di quelle. Forse venivano da un'armeria teatrale, benché ne dubitassi e ne dubiti ancora. Comunque erano spade anonime, senza il minimo contrassegno.
Non so da quanto tempo fosse cominciato lo spettacolo e se l'uomo col pullover da marinaio avesse dato qualche spiegazione; la prima cosa che gli sentii dire fu: “E ora, signori, chi di voi vuol provare per primo?”.
Non ci furono gesti né risposte di alcun genere. Naturalmente, non ce ne sono mai.
“E avanti!” sbottò il marinaio, non troppo educatamente. Sentii che era talmente abituato alla reticenza del pubblico da non essere più disposto a tollerarla. Non dava l'impressione di un uomo di molte parole, benché parlare fosse il suo mestiere; aveva un pesante accento meridionale, ma a quell'epoca non ero nella posizione più adatta per giudicare: dopotutto, anch'io sono londinese.
Non successe niente.
Per che cosa credete di aver pagato il vostro denaro?” gridò il marinaio, ora più truculento che sarcastico.
“Diccelo tu” rispose uno degli spettatori. Era quello più vicino a me, e mi sedeva davanti.
Non era la cosa più saggia da dire, e il marinaio ne tenne il debito conto.
“Tu” gridò puntando l'indice rosso ed enorme verso l'uomo che aveva parlato. “Alzati e vieni qui. Dobbiamo pure cominciare da qualche parte.”
L'uomo non si mosse e io cominciai ad aver paura perché gli sedevo vicino. Al prossimo tentativo il marinaio poteva scegliere me, e io non sapevo nemmeno che cosa bisognava fare.
La situazione fu salvata da un volontario. Un uomo si alzò al capo opposto della tenda e disse: “Lo faccio io”.
L'unica fonte di luce era una lampada Tilley che penzolava (non troppo sicuramente, a mio avviso) dall'incrocio del soffitto di tela: l'individuo che si era alzato mi parve un tizio qualunque.
“Era ora” replicò il marinaio, sempre in tono rude. “Vieni avanti, su.”
Il volontario inciampò sul pavimento irregolare, si diresse verso la parte della pedana che mi stava di fronte e rimase fermo davanti alla ragazza. Lei, a quanto pareva, non fece nessun movimento. Aveva la testa così rovesciata che non riuscivo a distinguere gli occhi, proprio come se fosse lontana. Non ero nemmeno sicuro se fossero aperti o chiusi.
“Scegli una spada” disse burbero il marinaio.
Il volontario eseguì, e in modo piuttosto malaccorto. Doveva essere la prima volta che impugnava un affare del genere, e del resto anch'io non ne avevo mai presa una. Il volontario se ne stava con la spada in mano e sembrava un perfetto imbecille. Alla luce della lampada la sua pelle pareva grigia, il suo aspetto fragile e la testa quasi priva di capelli.
Il marinaio lo lasciò in quella posizione per un bel pezzo, forse per cattiveria o forse per la rabbia che gli dava quel particolare modo di guadagnarsi da vivere. A me l'atmosfera nello sporco tendone pareva tesa e sgradevole, ma gli altri spettatori se ne stavano seduti al loro posto con un'aria che mi parve semplicemente annoiata.
Dopo un pezzo, il marinaio, che aveva continuato a fissare il pubblico e a parlare al volontario con un angolo della bocca, girò su se stesso e senza guardare in faccia il suo uomo scattò: “Che diavolo aspetti? Devono venire anche gli altri, anche se il tempo non ci manca”.
A questo punto un altro spettatore cominciò a fischiettare Allora che aspettiamo? Credo che ce l'avesse con il marinaio, o presentatore, o comunque vogliate chiamarlo, più che col volontario.
“Avanti” gridò il marinaio, quasi nel tono di un allenatore impaziente. “Ficcagliela dentro.”
E allora accadde la cosa straordinaria.
Il volontario mi sembrò esitare un momento, poi conficcò la spada nella ragazza. Siccome il corpo dell'uomo si frapponeva fra me e la sua vittima, non riuscii a vedere in che punto la lama entrasse; ma fu chiaro che egli spingeva con tutte le sue forze, perché l'arma era affondata in tutta la sua lunghezza. Ciò di cui non potei dubitare fu il rumore che la lama fece. Lo strano è che siamo talmente abituati all'immagine di un corpo che viene trafitto da una spada, che, sebbene non avessi mai assistito di persona a una cosa del genere, non ebbi alcun dubbio su ciò che l'uomo aveva fatto.

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