sabato 1 marzo 2014

mvl teatro: Quando la platea è un mare in tempesta



Maria Cristina Reggio

"Non è colpa nostra se [i testi di Shakespeare] sono così contemporanei e rivendicano di essere riadattatì": così dichiara, appassionato, Valerio Binasco in unʼintervista al quotidiano il manifesto. Così viene anche da pensare ogni volta che si vede un riadattamento, anzi una "riscrittura" scenica sapiente, attraverso cui lʼinvenzione e la capacità del drammaturgo inglese di lavorare con le storie e le emozioni umane offrono ancora oggi la possibilità allo spettatore di porsi le stesse domande eterne che lo assillavano cinque secoli fa. Una riscrittura, quella di Binasco per La Tempesta della Popular Shakespeare Kompany al Teatro Vascello fino al 16 marzo , che, come quelle a firma di Peter Brook - citato sovente dal regista e attore,  come "maestro" di riferimento - invoglia alla rilettura del testo poetico, poiché la parola shakespeariana, soprattutto se privata da inutili orpelli scenografici, sa ben trafiggere  lʼanimo di chi la legge e, soprattutto, quando viene ben recitata,   di chi la ascolta. 

Niente nave, nessun mare in tempesta sul palco, niente più magia, ma solo un grande spazio vuoto delimitato da grandissime pareti che sembrano dipinte con grandi stesure di sangue rappreso e di fronte al quale noi, la platea, siamo il "mare", visto dagli attori che ci indicano, ci guardano. E noi, dal mare, immaginiamo di avere di fronte una spiaggia deserta, sui cui giace solo qualche ramo deformato dal sole e dal sale.  Sul palco gli stessi personaggi italiani inventati da Shakespeare, ma in modern dress, come quelli che gli spettatori sono ormai abituati a vedere sul piccolo schermo, nei talk show: alcuni vestiti come quelli che si incontrano nei palazzi del potere del nostro paese, con completi sobri con tenui colori, cravatte, occhiali cool e con prossemiche da politicanti, una Miranda (atletica Deniz Ozdogan) con capigliatura corvina che ricorda lʼacerba femminilità di un'Amy Winehouse, Calibano clochard , mentre Prospero - superbo Binasco - con gli occhiali, veste un vecchio frack sgualcito,  lo stesso e unico vestito che indossa nella grotta dove vive da anni. 

Ma il personaggio-chiave di ogni Tempesta, Ariel, è il vero cuore di questo strepitoso allestimento della P.S.K.: interpretato da Fabrizio Contri, che sa muoversi con la dolce incertezza di un vecchio affetto da demenza senile, per il quale ogni cosa è una sorpresa, un incanto, e il cui sguardo è incredulo, sorridente e fiducioso come quello di un bambino. Un "genio" non più magico, ma rovesciato anchʼesso nella realtà, così come il regista ha rovesciato, nellʼimmaginazione, la tempesta in platea.  Un Ariel e un Prospero  inventati da Binasco cui si possono dedicare, meglio delle mie,  le parole di Giorgio Agamben (in Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005)

«[...] Viene tuttavia per ciascuno il momento in cui deve separarsi da Genius. Può esser di notte, allʼimprovviso, quando al suono di una brigata che passa, senti, non sai perché, che il tuo dio ti abbandona. O siamo invece noi a dargli congedo, nellʼora lucidissima, estrema in cui sappiamo che cʼè salvezza, ma noi non vogliamo più essere salvi. Vattene, Ariele!  È lʼora in cui Prospero depone i suoi incanti e sa che quanto di forza gli resta ora è la sua, la stagione ultima, tarda, in cui lʼartista vecchio spezza il suo pennello e contempla. Che cosa? I gesti: per la prima volta soltanto nostri, completamente smagati da ogni incanto. Poiché certo, la vita senza Ariele, ha perduto tutto il suo mistero e, tuttavia, da qualche parte sappiamo che ora soltanto ci appartiene, che ora soltanto cominciamo a vivere puramente umana e terrena, la vita che non ha mantenuto le sue promesse e può ora per questo darci infinitamente di più. È il tempo esausto e sospeso, la brusca penombra in cui cominciamo a dimenticarci di Genius, è la notte esaudita [...] ».

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