giovedì 27 febbraio 2014

I libri. Malattie e perversioni

Bibliofobia. Terrore per i libri. Vi sono vari gradi di ripugnanza, che vanno dalla compassione per chi  offre libri in lettura sino all’incredulità ( “Non penserà davvero che io …?”); dall’imbarazzo al rifiuto disgustato. Il lettore si sente spesso superiore al bibliofobo, ma ignora che esso rappresenta una maggioranza solida e in espansione. Spesso la bibliofobia è originata da uno shock: da cattive letture o cattivi insegnanti o dalla presentazione d'un libro o da mostre bibliofile che cercano di incoraggiare alla lettura. Un bibliofobo è, spesso, superiore, per moralità e assennatezza, al lettore medio di Paolo Giordano.

Bibliofilia. Amore per i libri che muove dall'amore per il loro contenuto. Chi ama Tolstoj non può gustarlo in brossura. Una brutta edizione, infatti, lorda esteticamente il contenuto. “Petrarca (o Shakespeare o Cormac McCarthy) in cattiva edizione (copertina squillante, carta riciclata, rilegatura brossurata) non è più Petrarca (o Shakespeare o Cormac McCarthy), ma un gemello, apparentemente simile, che soffre una segreta patologia”.

Bibliofagia. Impulso a ingoiare carta. Balzac ne presentò un caso celebre. Esistono casi di bibliofagia indotta. Esempio numero uno: ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante di lei, di Peter Greenaway, uno dei protagonisti (il ladro) fa ingurgitare ad un altro (l’amante di lei, un lettore onnivoro) parecchie pagine dei testi amati. Esempio numero due: narra Galloway che Bernabò Visconti costrinse i due legati pontifici che gli avevano consegnato la bolla di scomunica, nel 1730, a mangiarsela. Esempio numero tre: parecchi professori universitari esercitano tale perversione sulle loro cavie, chiamate studenti; l’esamucolo di Diritto dell’antico oriente mediterraneo: tomo di seicento pagine, più due dispense ciclostilate (ma da acquistare perché aventi regolare dignità editoriale). E giù a ingoiare. E i torchi a gemere.

Bibliomania. Del furore d’aver libri. Prescinde, quasi sempre, dal contenuto degli stessi. Si accumula, ingolositi dalla materia e dalla bellezza dell'edizione pur sapendo che non si compulseranno mai quelle pagine. Esempio: una volta mi rovinai finanziariamente per l’acquisto di un prezioso volume sull'astrologia babilonese. Non oltrepassai la decima pagina. Ora è là, praticamente intonso; lo ammiro ogni volta che passo.

Biblioclastia. Profanazione dei libri. Stadio ulceroso della bibliofobia o della bibliolatria. Il mio libro è più giusto del tuo. Roghi di libri. Cesare che assiste indifferente alla distruzione della biblioteca di Alessandria; l’imperatore cinese Qui Shi Huang che brucia i libri e il passato del popolo e seppellisce vivi intellettuali dissidenti; Diego de Landa che incenerisce manoscritti Maya e Aztechi. Dio lo vuole et cetera. La biblioclastia è tornata recentemente, e miseramente, in voga per la distruzione di un libro di Corrado Augias, I segreti di Roma. Scandalo. Terrore. Son tornati i nazisti. I soliti dilettanti: il giorno stesso del rogo ho contribuito al ritorno della barbarie incenerendo un Francesco Piccolo, un Serra d’annata e un paio di Goldoni (Luca): d’attorno al caminetto l’aria fu, da subito, più cristallina: “L'odore della carta bruciata al mattino ... profumava come … come di vittoria”.

Bibliomanzia. Divinazione che consiste nell'aprire a caso un libro e trarne congrui auspici. Tutti penseranno: la Bibbia! Consiglio, invece, Iliade o Eneide, testi che contengono tutte le combinazioni del cuore umano. Esempio: cosa ne sarà dell’Italia? Apro a caso, punto l’indice e leggo il responso (Iliade, XIII, 493): “e dietro li seguivano gli uomini, come greggia segue il montone/andando a bere, dal pascolo”. A ciascuno la propria interpretazione.

Bibliocleptomania. Compulsione al furto di libri. Duncan Jevons, il ladro più famoso e formidabile: 52000 libri rubati; e mai letti.

Bibliolatria. Soggezione a un testo sacro. Anticamente: la Bibbia, la Torah, il Corano. Recentemente: Il capitale, di Karl Marx. Oggi: Il Sole 24 Ore. Rivolgimenti della Storia. La bibliolatria degenera, spesso, in biblioclastia.

Bibliotafia. Tendenza a nascondere gelosamente i propri testi. Una mania da cui sono bonariamente affetto da quando non mi hanno più restituito una vecchia copia Dall’Oglio di Viaggio al termine della notte di Céline. I più pervertiti hanno archivi serrati a doppia mandata, biblioteche sommesse, in penombra, profumate di carta in impercettibile decomposizione. Godono nell'ammirare le coste e i vestimenti dei propri tesori; traggono un piacere erotico dal considerare che una data edizione ce l’hanno in cento in tutta Italia: “Solo cento, non di più … e forse neanche cento perché qualche copia è andata distrutta di sicuro  … saremo forse in settanta .. ma la mia copia è intonsa, le pagine nette e bianche come la pelle d’una fanciulla … una copia così la avremo forse in venti … eh, no, quindici al massimo …” e via godendo. Son fatti così.  

Bibliospecialismo. I bibliospecialisti si saziano collezionando esclusivamente esemplari con caratteri gotici corsivi o black letter oppure large paper copies oppure volumi intonsi. O prime edizioni di Camilleri.

Bibliodoppiocopismo. Una miscela di bibliotafia e bibliofilia. D’un singolo testo si acquista una copia da leggere e una da conservare (al riparo dalla moglie, dagli amici, dalla luce, dai lettori importuni et cetera).

Bibliocarvalismo. Si accumulano libri con amore per tutta la vita, poi si procede alla sistematica distruzione d’essi in virtù della superiore esperienza di lettori. Molti libri che a vent’anni sembrano capolavori a cinquanta sono risibili. E quelli che sembrano capolavori a trenta sono sciocchezze a sessanta. Più si procede alla lettura e più si diviene esigenti sino al fanatismo. Recentemente ho liquidato tutto Calvino con un ghigno da Eymerich, ma avevo già dato il benservito a Moravia, Nothomb, Bret Easton Ellis, Silone, Houellebecq e via annientando: in un solo anno ho espunto più di mille testi dalla mia considerazione. Aspiro a una biblioteca di cinque libri. Ho già dato disposizioni per la sepoltura: fra le mani giunte voglio avere solo Dante e Guido Cavalcanti.

Bibliopatia. Tendenza a macerarsi nei dubbi bibliografici, quasi sempre insulsi. Esempio: la prima edizione delle Massime di La Rochefoucauld è quella ufficiale, parigina, del 1665 oppure quella pirata, olandese, del 1664? Eh, son problemi.

Biblionozionismo. Cosa occupa la mente del biblionozionista? “Le biblioteche, i titoli, i frontespizi, gli stampatori, le date, le controversie, il numero delle pagine, i prezzi, i cataloghi e altre miserabili notizie che escludono ogni altro studio”. Il contenuto, chi è costui?

Biblionomadismo. Tendenza a portarsi dietro i propri libri. Eduardo Galeano: "La biblioteca errante fu un'idea che venne al Gran Vizir di Persia, Abdul Kassem Ismael, alla fine del X secolo. Uomo accorto, questo viaggiatore instancabile aveva sempre con sé la sua biblioteca. Quattrocento cammelli portavano centodiciassettemila libri in una carovana lunga due chilometri. I cammelli servivano anche come catalogo delle opere: ogni gruppo di cammelli portava i titoli che cominciavano con una delle 32 lettere dell'alfabeto persiano".

mercoledì 26 febbraio 2014

Amare la vita sulle rive del Bajkal, senza alibi o sedativi


Ti racconto un libro
Sylvain Tesson
Nelle foreste siberiane
Sellerio 2012, pp. 260, euro 16 
traduzione di Roberta Ferrara

Fabio Donalisio

Diffido dei viaggi degli altri. Per molti motivi. A maggior ragione diffido di chi i viaggi li racconta, ne fa scrittura, e spesso vetrina. Non sopporto l'irresistibile esposizione di sé, l'assunto di fare della propria esperienza privata materia d'interesse generale. E meno sopporto chi quell'interesse lo corona, lo abbraccia. Massimi sistemi, certo. Un discorso che tocca il nervo esibizionista insito in ogni letteratura e pseudo-tale, nonché l'ossessione autonarrativa che pervade tanto e tante delle nostre vite appaltate alla socialità scritta del virtuale, ridotte in monoporzioni dal packaging più o meno attraente e pronte per essere mattoni di un esoscheletro che mira alla seduzione e, all'interno, divora e secerne. Chiusa parentesi. Solo per dire le perplessità che avevo di affrontare il libro di uno che in quarta viene presentato come “grande viaggiatore” e scrittore, appunto, di viaggi. Ovvero uno che sulla carta, di quanto detto poco sopra, ne ha fatto sì e no una professione, e non solo di fede. La riconciliazione, e quindi il patto di lettura, avviene dopo la premessa. Ovvero il “pentimento” del moto a favore della stasi. Colui che ha dichiaratamente cercato la vita nel viaggio, decide di entrare nel vuoto, di sua sponte. E che vuoto. Quello dell'inverno siberiano, di una capanna di tronchi sul lago Bajkal, vero e proprio mare d'inverno, ottocento chilometri di voragine di faglia, piena d'acqua scura che con il gelo diventa infinita lastra di ghiaccio rimbombante. Tesson parte, e questa volta per fermarsi. Ha con se scatolette, vodka, sigari, e un minimo di equipaggiamento. Un telefono satellitare (che resterà quasi sempre spento) e una valigia di libri. Uno scorcio di Irkutsk, limite del civile, e poi il nulla. Temperature ben al di sotto dello zero, neve, ghiaccio, vento. Cime da scalare, chilometri da camminare, legna da tagliare. E soprattutto giorni e notti da far passare.

MVL bambini, nel mondo incantato di Orecchio acerbo

Enza Bertoni
Una "piccola - grande" casa editrice nel quartiere Monteverdevecchio.
Orecchio acerbo è una raffinata casa editrice, che pubblica per bambini da 0 a 14 anni, ma che piace moltissimo anche agli adulti. Da qualche tempo, ogni venerdì, spalanca le sue porte a bimbi e genitori e anche noi di Monteverdelegge bambini partecipiamo.
Dovreste vedere che gioia e che festa tra favole, libri, torte, grida felici, occhi attenti !
Non è vero che le favole non servono più! servono, servono e vi dirò che in questo luogo la lettura è esaltante, stupefacente, grazie a Carla che drammatizza ogni parola e i bimbi l'ascoltano incantati; tutto è vivo, tutto è vitale, anche la gatta, il cane ascoltano volentieri. Basta trovare la strada giusta e i bimbi accorrono. Il mondo incantato che le favole scatenano nella mente dei bambini ci permettono di approfondire i loro bisogni e capire l'importanza che questi incontri hanno.
Noi adulti pretendiamo che la mente dei piccoli funzioni come quella dei grandi, ma non è così.Stimolare ed alimentare questa attenzione, questa partecipazione, questa acquisizione di leggere, di sfogliare, di annusare, di toccare i libri è l'obiettivo di Orecchio Acerbo e Monteverdelegge bambini, che attraverso le letture diverte i bimbi e suscita la loro curiosità. Ma la cosa più gratificante è quella di aiutare i bimbi a esprimere i loro linguaggi emotivi e avere fiducia in se stessi. Scriveva Schiller: "C'è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata nella vita". Più fiabe, più dialogo e comunicazione e noi invitiamo sempre più i bimbi alla lettura, esercitando così anche la parola.
A presto al civico 54 di via Saffi, dove ha sede Orecchio acerbo.

Flash mob. Ovvero: bastano tre minuti per "sensibilizzare sul tema cultura"?

Maria Teresa Carbone
La primavera incalza, è tempo di flash mob. Sempre provvidenziale, Wikipedia ci informa che questi assembramenti fulminei sono nati una decina d'anni fa "con la finalità comune di mettere in pratica un'azione insolita". E cosa di più insolito che cercare di diffondere la pratica della lettura? Dunque, via con i flash mob. 
Il primo lo organizzano le Biblioteche di Roma  nel centro commerciale Euroma 2: l'appuntamento è per venerdì 28 febbraio alle 16.30, ma evidentemente chi ha avuto l'idea non è tanto sicuro del risultato. Ci sarà davvero la folla necessaria perché le signore e i signori intenti allo shopping pre-finesettimanale si accorgano che è in corso un flash mob? Nell'incertezza la responsabile, Rita Petroselli, cerca figuranti disponibili a partecipare. E si rivolge direttamente a loro con un bel "tu" accattivante, ma nel quale si sente vibrare la paura del fallimento: "Sarà divertente e piacevole averti per 3 minuti tra i nostri sostenitori. Poiché il video dell'evento che durerà poco più di 3 minuti sarà pubblicato in rete, per partecipare è d'obligo firmare una liberatoria. Più saremo, più daremo respiro ai servizi delle biblioteche".
Passa un giorno,  ed ecco un nuovo flash mob. Questa volta è la viterbese Fondazione Caffeina a lanciarlo. ll titolo è "Il primo marzo compriamo un libro", e con questo è detto tutto. Ma per sicurezza gli organizzatori precisano che tante librerie hanno aderito al flash mob (evidentemente non molto flash, visto che dura un giorno intero) e che l'iniziativa è nata dal basso "per sensibilizzare sul tema cultura". Proprio così: "sensibilizzare sul tema cultura".
Ora, sia chiaro: noi ci auguriamo che il primo marzo, e tutti i giorni dell'anno, le librerie siano affollate, così come (e ancora di più) ci auguriamo che il numero delle persone in possesso delle Biblioteche di Roma, e non solo, si decuplichi. Ma di fronte ai flash mob almeno un po' riluttiamo: perché pensiamo che questo sia, per dirla garbatamente, una presa in giro, e per di più una presa in giro controproducente. 
Chi legge sa benissimo che la lettura è tutto il contrario del flash mob: richiede tempo e concentrazione e almeno all'inizio un po' di sforzo. E anche chi non legge lo sa, e forse proprio per questo non legge. Perché non ha voglia di impegnarsi, o perché si impegna in altre attività per lui o lei altrettanto intense e appaganti. (L'altro giorno ho incontrato un simpatico tecnico di laboratorio che, mi ha detto, non legge mai: "Preferisco andare a pesca. Sto sulla riva del mare, osservo le canne, i movimenti dell'acqua. Mi sento vivo e attento come lo è lei quando è immersa nella lettura di un libro").
Questo dovremmo dire alle ragazze e ai ragazzi: che la lettura è un esercizio o, come ha scritto Alan Bennett, un muscolo, e in quanto tale va esercitato, perché i risultati potranno essere stupefacenti. Che come in tutte le cose della vita il percorso può essere lineare o tortuoso. Che si procede anche a suon di tentativi falliti.
Comprare un libro, con buona pace di editori e librai, non equivale a leggerlo (e comunque è molto probabile che chi entrerà in libreria il primo marzo sarà già sufficientemente sensibilizzato "al tema cultura"). Pensare che basti un video di tre minuti girato in un centro commerciale per dare respiro alle biblioteche è solo la prova della crisi (di soldi e purtroppo anche di idee) delle biblioteche.  
Altro che flash mob, qui ci vorrebbe come minimo un bell'Occupy, con tanto di figuranti inclusi.

martedì 25 febbraio 2014

"La biblioteca di Gould", armamentario per scrittori in cerca di ispirazione


Ti racconto un libro: 
Bernard Quiriny, La biblioteca di Gould 
L'Orma, pp. 192, euro 16,50
traduzione di Lorenza Di Lella
a cura di Giuseppe Girimonti Greco

Leyla Khalil
Quando ho letto in quarta di copertina che Quiriny riprende Borges, Bolaño e Calvino, sono andata letteralmente in estasi. Una cara amica ha tentato di dissuadermi, mettendomi in guardia sul fatto che spesso proprio chi si diverte a citare i grandi finisce poi per deludere. Io, testarda, non le ho dato retta e mi son letta d'un fiato il Quiriny col suo La biblioteca di Gould, edito da L'Orma, tradotto da Lorenza Di Lella e curato da Giuseppe Girimonti Greco. D'un fiato perché è un libro densissimo e senza dubbio bello, divertente, ma al tempo stesso anche un condensato di pezzi grossi della letteratura novecentesca in versione rimacinata. Riprende Jarry, ripesca Queneau, oltre ai tre grandi citati in precedenza. Riprende troppo, cita apertamente Borges e Vila-Matas, non nasconde riferimenti intertestuali, ma poi... Cosa ha di nuovo?
La biblioteca di Gould è una biografia di questo balzano bibliotecario, Gould, raccontato attraverso una decina di città inesistenti, qualche aneddoto sulla sua vita, la descrizione delle sue particolarissime collezioni libresche e di scrittori ossessionati dalla paura di essere dimenticati, da libri scritti e poi rinnegati e via dicendo. Eppure, le città inesistenti richiamano quelle invisibili che già Calvino ci aveva magistralmente narrato, gli Scrittori inesistenti ce li ha già raccontati Volodine, e sono comunque storie che si possono inventare a bizzeffe. Una maniera di “giocar facile”, proiettando un'ucronia nel futuro: basta prendere un “what if”, per dirla all'inglese, e tirare tutte le conseguenze possibili. Il fatto è che basterebbe una sola delle idee di Quiriny per scrivere un romanzo intero. Invece lui non narra, non scrive ma descrive una dopo l'altra queste realtà parallele, affastellando conseguenze di eventi o realtà improbabili, rimpicciolendo la lente fino all'inverosimile, fino a che tutte le realtà che crea sembrano minuscole immagini caleidoscopiche spiate con la lente mentre danno disegni assurdi. In un'ottica di narrativa ottocentesca o comunque mainstream, una sola storia basterebbe a soddisfare la voglia di fantasia del lettore; ma non è questo il fine di Quiriny, evidentemente.

Laboratorio di traduzione: Philip Schultz, "Fallimento"

Vi proponiamo la versione italiana di Failure, la poesia che dà il titolo alla raccolta con cui Philip Schultz ha vinto nel 2008  il premio Pulitzer. La traduzione è stata elaborata nel corso del Laboratorio, che in questo ciclo ha come oggetto appunto i testi del poeta statunitense. Il gruppo si incontra questo pomeriggio alle 18 da Plautilla (via Colautti 28-30). Qui il testo originale, preceduto da una breve nota di Fiorenza Mormile.

 Per pagare il funerale di mio padre

mi feci prestare soldi da gente

cui lui già doveva soldi.

Uno lo chiamò una nullità.

No, dissi io, lui era un fallito.

Nessuno ricorda

Il nome di una nullità, perciò

sono chiamati nullità.

I falliti sono indimenticabili.

Il rabbino che lesse un elogio di rito

su un uomo che non apparteneva

e non credeva in niente

era lui un fallito e una nullità.

Non riuscì a immaginare il figlio

e la moglie del morto

umiliati da ogni sua parola.

A capire che non

credere e non appartenere

a niente richiedeva una sorta

di fede e spavalderia.

Uno zio, che contava sulle dita

gli affari falliti di mio padre-

un parcheggio che allevava oche,

un motel che arriffava lune di miele,

un bowling con Mariachi itineranti-

non riuscì ad amare e onorare suo fratello,

che gli aveva insegnato a fischiare

di nascosto, a rubare mele

con la destra o la sinistra. In realtà,

mio padre era comico.

I suoi orologi pizzicavano, inciampava

nel risvolto dei calzoni e russava

forte al cinema, dove

la stanchezza alla fine

lo vinceva. Lui non credeva a:

risparmio assicurazioni giornali

verdure bene e male fragilità

umana storia o Dio.

I parenti ci evitavano

come la peste. Lasciai la città

ma non riuscii a andare via.

lunedì 24 febbraio 2014

"O Roma! Patria mia, città dell'anima!". De reditu, un viaggio. Prima parte

Copia da La tomba degli Haterii,
ritrovata sulla Casilina
G. Luca Chiovelli

Qui la seconda parte

"O Roma! Patria mia, città dell'anima!"
George Gordon Byron

Le Ferrovie Laziali. Capolinea a lato della Stazione Termini, davanti al teatro Ambra Jovinelli.
Termini-Giardinetti, un viaggio lungo la Via Casilina, l’antica Labicana.
Viaggio al termine d'un Italia sconosciuta e irredimibile.
Il trenino: persino le lamiere trasudano crassume. Appena saliti si nota un tizio, mal rasato, sgarbato, che si spulcia i calzini. Con altri dirimpettai si lamenta d'una certa Rossana. Sono le ultime parole italiane che sentirò. Il treno si gonfia progressivamente di bengalesi, cinesi, slavi, filippini, africani, sudamericani. Gli orientali gigioneggiano tutti con un cellulare: in silenzio, però. Filippine e cinesi sorvegliano i sedili: se costrette all’impiedi, esse, di solito imperscrutabili e senza età come statuette votive, assumono un’aria di sofferente disagio.


Un’africana enorme, alle mie spalle, si duole, pure lei, ma in francese; con un'amica: ne intuisco il controcanto stridulo: entrambe si rimpallano la relazione precisa dei misfatti di un tal Gerard.
Due giapponesi dalla testa enorme come un’anguria discorrono pacatamente: hanno occhiali dalla montatura fine, leggerissima; confermano le frasi l’un dell’altro con brevi ah!, come ad ammettere l’inevitabile, con brevi moti, gentili e consenzienti, dei capoccioni.


Parecchie le donne slave; alcune, più curate, sono accompagnate da maschi pratici e taciturni: gli italiani di trent'anni fa; altre vanno sole, più sciupate, senza trucco, mai sciatte però: tutte vantano lineamenti delicati e finemente cesellati, il profilo perfetto; gli occhi tengono dietro alla durezza del vivere. Non si fanno illusioni, vestono sobriamente: jeans e stivali, maglioni sformati, giacche a vento. Una sorta di divisa sovietica riadattata al tempo attuale dell'esilio capitalista. Gli italiani li si riconosce subito: dalla mezza età in poi fissano il vuoto come a sfogare un'interna disperazione, gli abiti o raccogliticci, o che maldestramente imitano una più alta fattura da griffe pubblicitaria; le palpebre pesanti, la poca cura della persona. Gli anziani piegati, i capelli scarruffati, unti; quelli delle donne mostrano tinte da poco prezzo, già insidiate dalle scoloriture e dalla ricrescita. Gli anziani: trascinano carrelli, buste biodegradabili sformate da scatolame agroalimentare a basso costo, borsette da bancarella; si toccano occhiali economici da farmacia, compulsano ricette mediche, referti clinici in cartelline cartonate; la propaganda del centro privato convenzionato, dai caratteri netti ed esorbitanti, è fitta di rimandi, mail, recapiti, vignette, avatar e acrostici da terzo millennio: fra le mani scarnite di chi non ha nulla da reclamare, se non una morte dignitosa, questa simbologia pubblicitaria si carica della valenza nichilista d’un fregio extraterrestre.
Sepolcro di Marco Virgilio Eurisace, fornaio e della moglie Atistia, presso Porta Maggiore. Silvia Barbetta: "Le cavità circolari regolarmente disposte nella parte superiore ... simboleggiano le impastatrici utilizzate nei forni …”.
Due giovani donne, dal profilo andino, pelle olivastra, capelli raccolti in una crocchia: parlano sommesse, ogni tanto le labbra si aprono mostrando i denti bianchissimi, ma è un attimo di esibizionismo che chiudono subito; riservate e modeste come le italiane immigrate di mezzo secolo fa; abruzzesi, campane, molisane, donne della provincia profonda, proprietarie ancora della lingua d'origine e, quindi, del senso del proprio destino e del proprio passato. 

Mio zio e Alberto Manzi. Non è mai troppo tardi e Orzowei

Raethia Corsini
Nel 1960 in Italia c'erano quattro milioni di analfabeti adulti. Uno di quei quattro milioni era mio zio Peppino, classe 1919. Non proprio del tutto analfabeta: la firma aveva imparato a farla e anche i conti, perché era figlio di bottegai, ma la sua istruzione finiva lì. Aveva cominciato a lavorare da ragazzino e poi  partì soldato nella seconda Grande Guerra mondiale, fu preso prigioniero dai tedeschi, ma alla fine tornò. Molto cambiato. Dentro. Iniziò a inseguire un qualche invisibile filo di libertà. Oltre che nel ballo (era davvero un gran ballerino di tango e paso doble) trovava un po' di leggerezza nella Televisione. La guardava ed evadeva. Con il calcio, i varietà, gli sceneggiati. Sebbene il suo sguardo fosse sempre tristemente segnato dagli orrori visti e dalla rabbia per le torture subìte, le persone che stavano dentro quella scatola lo trascinavano dentro un altro mondo, così allontanava il suono delle granate, che gli rimasero nelle orecchie per tutta la vita in forma di acufeni. La sera, come tanti italiani negli anni Cinquanta, andava al bar del paese e guardava "mamma Rai". Agli inizi degli anni Sessanta, però, la tv la comprò: campeggiava nella grande cucina, dirimpetto al caminetto, sistemata sul "portatelevisore": quando era spenta (20 ore su 24) sua moglie (mia zia) la copriva con un bel telo a fiori, mica si rovinasse. È in quel televisore che il 20 luglio del 1969 assistei con mio zio Peppino allo sbarco sulla Luna. E fu esattamente quella volta lì che lui disse: "Ma che sta succedendo al mondo? Chi credono di prendere in giro? Sta cambiando tutto anche nella televisione; pensare che grazie a lei io ho imparato l'italiano con il maestro Manzi! Queste bischerate  della luna invece...americanate!". A me l'allunaggio piacque e mi piacque anche l'idea che potesse essere vero. Dell'esistenza reale del maestro Manzi, invece, eravamo certi tutti e due anche se io l'avevo visto solo qualche volta e con poco interesse: non ero ancora in età scolare e quando nel '69 andai in seconda elementare, Manzi in tv non c'era più da un anno. Allora, finita la telecronaca lunare del trio Tito Stagno-Jas Gawronsky-Ruggero Orlando, chiesi a mio zio di raccontarmi del maestro d'Italia. Lui, con un raro guizzo di vita negli occhi, si impegnò a trovare gli aggettivi più lusinghieri per Manzi e poi, fiero, descrisse nei dettagli quel che aveva imparato con lui.

domenica 23 febbraio 2014

Le note di Leo/ Un piccolo facilissimo quiz

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica 
al lunedì.

Leonardo Castellucci*
Questa puntata sarà diversa dalle altre. Il mio ruolo si limiterà a svelare (a chi vorrà saperlo) la soluzione a un interrogativo che molti della mia generazioni 
(i ragazzi degli anni'50 e '60 per intenderci) si saranno più volte posto. Ma la soluzione starà a voi. Alla vostra memoria e al vostro orecchio musicale. Alla fine, quando il facile interrogativo sarà risolto vi invito a pensare a come in quel tempo fossero culturalmente utili gli organi della comunicazione di Stato.  

Aggiungo soltanto che il napoletano Pietro Domenico Paradisi, compositore abilissimo a cavallo fra barocco e classicismo, espresse il meglio della sua letteratura in partiture dedicate al clavicembalo e più in generale all'intera gamma delle tastiere. 

In merito a G.F.Händel non mi pare il caso di aggiungere parole di stringata informazione biografica.

Ecco il quesito: i due brani hanno una relazione? In caso affermativo quale? Vi aspetto tra i commenti, ma vi prego, non usate google o wikipedia. Vi invito a scandagliare la memoria: è più divertente. 
(la risposta corretta sarà pubblicata domenica prossima)

L'incipit della domenica - Gabriele D'Annunzio, Il piacere

Potete trovare Il piacere di Gabriele D'Annunzio, assieme ad altri 7000 volumi, presso la bibliolibreria Plautilla, in Via Colautti 28-30 (orari Lunedì 10-19.00; Martedì-Venerdì 17.00-19.30). 
Ognuno potrà donare i propri libri, prenderli in prestito o scambiarli gratuitamente.

* * * * * 

Gabriele D'Annunzio
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
  Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.

venerdì 21 febbraio 2014

"Amore, non amiamo, come vogliono i ricchi, la miseria ..."

Due povere alla Stazione Termini. Due vecchie donne accerchiate dai loro unici averi: buste di ogni genere, ciarpame vario, posate di plastica, cassette di frutta, coperte luride, una carrozzina. Sono anni che le vedo lì, in un ritaglio di marciapiede al centro della città più famosa del mondo, Roma, capitale della Repubblica Italiana, curve e mute fra migliaia di automobili, furgoni, motorette; decine di migliaia di passanti, milioni di turisti, trombette, ombrelli, schiamazzi, risate; centinaia di vigili, pompieri, poliziotti, carabinieri, assistenti sociali; eppure restano inosservate da tutti come in un incubo postmoderno di James Ballard.
Hanno acceso un focherello; si alza un fumo minuscolo: stanno arrostendo qualcosa.
Sullo sfondo, a sinistra, la statua in bronzo di Giovanni Paolo II, beato e santo, china la testa in una atteggiamento immedicabile di sconfitta.
E questo è il comunista Pablo Neruda, Povertà:

Ahi, non vuoi,
ti spaventa
la povertà,
non vuoi
andare con scarpe rotte al mercato
e tornare col vecchio vestito.
Amore, non amiamo,
come vogliono i ricchi,
la miseria. Noi
la estirperemo come dente maligno
che finora ha morso il cuore dell'uomo.
Ma non voglio
che tu la tema.
Se per mia colpa arriva alla tua casa,
se la povertà scaccia
le tue scarpe dorate,
che non scacci il tuo sorriso che é il pane della mia vita
Se non puoi pagare l'affitto
esci al lavoro con passo orgoglioso,
 e pensa, amore, che ti sto guardando
e uniti siamo la maggior ricchezza
che mai s'è riunita sulla terra (1)

E questo è il cattolico integralista Léon Bloy, da Il sangue del povero:

“Il generale Constant de la Ritournelle-des-Creveurs-de-Caisse, filantropo giurato, offre un pranzo di gala per il suo trecentesimo anniversario. Ci sarà la migliore società. Il Presidente della Repubblica vi porterà il suo ventre e le sue appendici del Culto e della Giustizia. Anche la Marina vi sarà rappresentata col Commercio e con l'Industria, e l’Assistenza Pubblica, in veste scollata di coccodrillo, vi condurrà l’Esercito nel suo carro funebre. Sembrerà di stare a Babilonia.
Al di sotto della tavola scintillante, infinitamente al di sotto, nelle tenebre, c’è un vecchio minatore, un vecchissimo poveraccio nero che non ha conosciuto altro che il carbone. Due o tre volte è stato affumicato dal grisù. Gli è accaduto di restare attaccato per venti giorni a un tozzo di pane, tra un torrente e un incendio, senza una molecola d’aria. Fu un miracolo se vi lasciò soltanto la metà della sua pelle. Questo è il più divertente episodio della sua giovinezza. Un aneddoto per i salotti. È lui che mantiene il piacevole tepore del palazzo … Quando creperà per un incendio, per una frana o per asfissia, senza ceri o sacramenti, lo riporteranno alla luce per interrarlo immediatamente in una fossa più buia e venti altri prenderanno il suo posto … Ci sono pure dei giovani e vigorosi pescatori … Costoro, nel preciso momento in cui i ventri si mettono a tavola, vogheranno al largo, con qualunque tempo. Veglieranno e geleranno perché abbiate il pesce fresco, o beati di questo mondo; e, quando andranno ad aspettarvi nell’altro mondo, trascinativi da un naufragio, il pesce, ingrassato dai loro corpi, sarà più delizioso. E così li mangerete due volte”.

(1) Ay no quieres,
te asusta
la pobreza,
no quieres
ir con zapatos rotos al mercado
y volver con el viejo vestido.
Amor, no amamos,
como quieren los ricos,
la miseria. Nosotros
la extirparemos como diente maligno
que hasta ahora ha mordido el corazón del hombre.
Pero no quiero
que la temas.
Si llega por mi culpa a tu morada,
si la pobreza expulsa
tus zapatos dorados,
que no expulse tu risa que es el pan de mi vida.
Si no puedes pagar el alquiler
sal al trabajo con paso orgulloso,
y piensa, amor, que yo te estoy mirando
y somos juntos la mayor riqueza
que jamás se reunió sobre la tierra.

DeLillo e il Punto Omega


Maria Vayola

Se il titolo di un libro in qualche modo ha il compito di sintetizzare o di mettere in risalto il o uno dei fulcri narrativi o significanti prenderò proprio il titolo per iniziare questo mio commento al libro di DeLillo, con l’intento di raggiungere una maggiore comprensione di quello che il libro cerca di comunicarci e premettendo a tutto questa citazione: 
 "E' tutto incastrato, le ore e i minuti, parole e numeri ovunque, le stazioni ferroviarie, gli itinerari degli autobus, i tassametri, le telecamere di sorveglianza. Tutto ruota intorno al tempo, tempo cretino, tempo inferiore, la gente che controlla l'orologio e altri aggeggi, altri sistemi che aiutano a ricordare. E' il tempo che scorre via lentissimamente dalla nostra vita. Le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere tempo alla natura. C'è un eterno conto alla rovescia. Quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E' questo che la letteratura vuole curare. Il poema epico, la favola prima di andare a letto."

giovedì 20 febbraio 2014

"Pur'io li metto così quanno spiccio ..."

Remo (Alberto Sordi) e la “sua signora”, Augusta (Anna Longhi) sono alla Biennale di Venezia 1978: si imbattono in una serie di enormi imbuti rovesciati, una delle tante installazioni artistiche trasgressive presenti alla mostra: e Augusta se ne esce così: “Pur’io li metto così quanno spiccio”.
E ha ragione lei. Oggi, un’altra Augusta, inserviente addetta alle pulizie della Sala Murat di Piazza del Ferrarese, a Bari, si è sbarazzata populisticamente di qualche cartone di ciarpame che, ahi!, costituiva il nerbo materico di una rassegna di arte contemporanea ambiziosamente titolata Display Mediating Landscape.
Pare che gli incidenti di questo tipo proliferino: qualche anno fa un altro figlio della plebe cancellò alcune tracce di sangue (finto) nell’installazione di un tal Umberto Vaschetto, dedicata “allo spinoso tema della Ru486, la pillola abortiva”. Ecco la descrizione della somma provocazione: “L’opera choc rappresenta un feto che tenta di evadere dal corpo materno utilizzando un bisturi. La completa un particolare, un tocco d’artista: una pozzanghera di ‘sangue’ (una vernice rimovibile, la stessa utilizzata dagli attori nelle scene ‘splatter’) sul pavimento, che sembra appena colata dalla ferita sul pancione”.
Qualche anno prima un altro membro della Suburra (un operatore ecologico) s’imbatté nella riproduzione di un cavallo (privo di testa); senza por tempo in mezzo l’acciuffò, consacrandola a più miti pretese: la schiaffò, infatti, nel camion tritarifiuti. Quando gli allibiti galleristi (che l’avevano lasciata per pochi minuti sul marciapiede) si accorsero dell’errore, le Parche avevano tessuto e tagliato il filo di un destino malvagio: l’opera di Maurizio Facheris (Euro 38.000; euro trentottomila) s’era tramutata in coriandoli.
Ma le leggende fioriscono senza fine: un rude muratore s’aggira per la galleria: vede una sbrecciatura; tosto si precipita con stucco a pronta presa e cazzuola: e cancella l’inimitabile e concettosa performance (da Fontana in poi crepe e pertugi son schizzati alle stelle estetiche; e, più importante, economiche).

mercoledì 19 febbraio 2014

Intervallo RAI (le buone cose di un tempo)


Roma, Via di Torre Spaccata, Promenade
Roma, Torrevecchia, Cloaca Optima Maxima
Roma, Primavalle, Via Pietro Bembo, Graffito politico (anni Novanta)
Roma, Via Walter Tobagi, Passeggiata archeologica
Roma, Via Boccea, Ingorgo (Boccea Prospekt)
Roma, Tor Tre Teste, Graffito politico (anni Duemila)

martedì 18 febbraio 2014

Io sto con John Elkann (una traduzione nababbo-plebeo)

Aloha!
G. Luca Chiovelli

Un nababbo, John Elkann, recentemente ha dichiarato:
"I giovani hanno poca ambizione per cercare lavoro ... Il lavoro c'è ma i giovani non sono così determinati a cercarlo ... ci sono tantissimi lavori nel settore alberghiero, c’e’ tantissima domanda di lavoro ma c’e’ poca offerta perché’ i giovani o stanno bene a casa o non hanno ambizione ...".
Tutti hanno inteso la frase così:
"I giovani hanno poca ambizione per cercare lavoro ... Il lavoro c'è ma i giovani non sono così determinati a cercarlo ... ci sono tantissimi lavori nel settore alberghiero, c’e’ tantissima domanda di lavoro ma c’e’ poca offerta perché’ i giovani o stanno bene a casa o non hanno ambizione ..."
E giù commenti, note, postille, morali.
Tutte sbagliate o incongrue.
Invece di render chiaro un concetto lo si ammorba di formule perbeniste, piu o meno in buonafede. I media dei padroni, la quasi totalità, coprono il tutto con il politically correct: simulano due oppositori, Elkann sì-Elkann no, e la par condicio: fanno finta di darsele come Pulcinella e il diavolo alla fiera dei burattini del Gianicolo: atteggiano voci e gesti a una soffice diatriba, poi, obliterato il badge simile a una Gold Amex, filano assieme al ristorante a gustare dell'ottimo filetto. La gente abbocca e dimentica.
I settori antagonisti indulgono, invece, al patetico: cicalano, blaterano ed estendono fondi indignati sospesi fra il tritume pauperista e un velleitarismo senza scampo. Tanto pensano: non contiamo niente, non ci impipa nessuno, timbriano veloci questo cartellino maledetto che la pizza si fredda (e la birra si scalda).
E allora?
Il mio debol parere questo: basta demonizzare. Occorre, au contraire, benedire.
Dovremmo essere sommamente grati a John Elkann per questo scampolo di verità.
Egli, infatti, dice la verità.

lunedì 17 febbraio 2014

Fermate di autobus in periferie turistiche

Ecco dove sono finiti i nostri avi poeti, pensatori, filosofi e navigatori 
(leggere attentamente l'elenco delle fermate di ogni linea)
buon viaggio


domenica 16 febbraio 2014

I flipper. Una lirica di Al Bano Carrisi. Nostalgia canaglia, ovvero come stravincere le elezioni

G. Luca Chiovelli

I FLIPPER.
Il giorno del diluvio, 31 gennaio 2014, impossibilitato a guadare la via di Boccea (l'ex Via Cornelia della Repubblica Romana), mi rifugiai presso il centro commerciale Panorama che, come un castello signorile del Basso Medioevo, domina la strada stessa.
Qui, in un cantuccio riservato ai giochi d'azzardo, individuai dei reperti entusiasmanti. Nientemeno che tre flipper d'annata. Il costo/partita era di 50 centesimi, a fronte delle cinquanta lire di quarant'anni fa (una rivalutazione del 1900%, se non erro), ma il fascino restava intatto. I bersagli da abbattere, le buche che rimandano la palla, gli avvallamenti traditori, le combinazioni che accendono gli specials, il suono caratteristico dei respingenti, l'impazzimento delle luci, lo schiocco improvviso che segnala i bonus ... E soprattutto la maestria erotica da applicare alla partita: gli scossoni leggeri per deviare a nostro vantaggio le traiettorie, i colpi secchi da coitus more ferarum per ammaestrare la pallina verso anditi lucrosi, il dolcissimo dosaggio dell'espulsore ....
I flipper furono reputati giochi d'azzardo per anni. Si trovano, assieme a slot machines e gratta e vinci nel posto giusto. Alcune frange minoritarie del PCI (il partito, non il computer) ritenevano d'azzardo anche la televisione a colori: oggi di queste cose si può ridere (e si ride del flipper come perdizione), ma chissà, forse avevano ragione loro, visto che gli innocui flipper campeggiano accanto ai moderni strumenti del vizio pubblico: le sublimazioni del videopoker, ribattezzate in modi diversi per aggirare leggi complici e per pelare i gonzi di qualche centone ulteriore.
I flipper, la nostalgia .... un empito comune e irresistibile fra gli ultraquarantenni d’oggi ... Massimo Dapporto e la pubblicità della lira .... gli sceneggiati degli anni settanta ... le riesumazioni Rai ... il feticismo del pop-rock d’antan ... gli infiniti spettacoli da sagra paesana in cui I Watussi e Tintarella di luna spopolano ... quando c'era lui caro lei ... le balere … I giovani, invece, immersi in un eterno presente, loro non rimpiangono nulla: non per l'ovvia spiegazione che non c'erano e non hanno fatto in tempo a provare rimpianti e rimorsi .... a loro basta l'oggi … istupiditi, senza speranza … 
Ma agli italianuzzi above 40, che hanno ancora un passato, a vedere queste cose si molce il corazón ... e perché accade?

Le note di Leo/Don Ottavio: "non ho bene s'ella non l'ha"

Un appuntamento con la musica, per traghettarci dalla domenica 
al lunedì.


L'incontro di Don Giovanni con l'ospite di pietra - Max Slevogt (1868–1932)
Leonardo Castellucci*
Lettura personalissima, non necessariamente giusta, certo relativa, spero non sgradita, del Don Giovanni di Mozart/Da Ponte (il librettista), sotto le influenze dei riti "sanvalentineschi". 

Premessa 
La questione è delicatissima e assolutamente ribaltabile. In questo caso l'innamorato senza paracadute è un uomo, ma potrebbe essere il contrario. Il tema è se intendere o meno l'amore come possibilità, o dare voce sempre e solo a noi stessi. Aria di Don Ottavio. "Dalla sua pace/ la mia dipende;/Quel che a lei piace vita mi rende/quel che le incresce/morte mi dà/Se ella sospira/sospiro anch'io/è mia quell'ira/quel pianto è mio/e non ho bene/ s'ella non l'ha...."
Che noia, eh?
A pensarci, in quest'aria di dolcissima e rassegnata sconfitta, Da Ponte mette in bocca a Don Ottavio parole solo in apparenza senza forza: quelle di un uomo dedito al proprio amore, di un essere apparentemente passivo, cieco davanti alla realtà e assolutamente privo di orgoglio: per tutta l'opera si intuisce che quest'amore non è corrisposto, ma confermato per status matrimoniale.