lunedì 27 gennaio 2014

Giornata della memoria: un treno per Oswiecim

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Foto e testi di Giulia Caminito

Questo è solo uno sguardo. Il mio viaggio in Polonia è nato all’improvviso, in pochi giorni, si è rivelato anche nel suo svolgimento inaspettato. Sono andata ad Auschwitz e Birkenau con tante immagini nella testa, ma non sapendo cosa avrei effettivamente trovato.
La mia è la testimonianza parziale di una ragazza nata negli anni in cui tutto questo è un ricordo o una narrazione, la generazione di chi ha studiato la deportazione, chi ha guardato documentari, letto libri, apprezzato film; di chi non ha mai visto la guerra.  
Piangere non mi è mai stato difficile, provare empatia tanto meno, e questo credevo mi attendesse ai campi, ma c’era dell’altro, che non ho mai sentito altrove.
È l’esperienza dell’impensabile, del punto zero, dell’alfa privativo dell’umanità, che non è bestiale, non è inumana, è assente. L’assenza feroce di qualcosa che noi stessi abbiamo celebrato e creato, l’humanitas, proprio nel cuore dell’Occidente, nei campi arriva a diventare il nulla. Questo vuoto, questa mancanza non ha generato in me il pianto, l’empatia, la disperazione, ma il terrore, lo smarrimento, lo sradicamento dell’universo in cui sono nata e cresciuta. La a-umanità è solo nostra, non può essere di piante e animali, di stelle e di cieli, è roba nostra, fatta da noi, rovescio di una pericolosa e viscida medaglia.


Quel senso che noi ci siamo dati, quando diventa a-senso racchiude un buio che la nostra mente, piena di nozioni e concetti, categorie, idee, immagini, pensieri non può immaginare.
Non lo capiamo. Famiglia, amore, sesso, vita, casa, lavoro, legge, proprietà, amicizia, bene, male, giusto, sbagliato, bravura, fallimento … tutto sbaraccato, tutto portato via, tutto fuori.
Lì non ci si muove a tentoni, perché non c’è più nulla.
La giornata della memoria è un monito a mio avviso non solo per le azioni orribili, immonde, ingiuste, per il dolore, per la compassione, ma per ricordare a tutti noi chi possiamo essere al nostro punto zero.
Non c’erano pazzi scellerati lì, ma uomini a-umani. Di loro io ho paura.
Gli ebrei, i rom, gli omosessuali, gli zingari nudi, privati dei loro averi, chiusi nelle camere a gas, trattati come ciocchi di legno, erano ancora umani anche se resi inumani sotto costrizione, dall’altra parte il vuoto li guardava, e da quel vuoto dobbiamo difenderci ogni giorno. Non solo il 27 gennaio.
Credo che tutti dovrebbero andarci, credo che vada bene così, con le teche, la guida, le cuffie, le scritte, le fotografie, la navetta, la zuppa di cavolo, tutto lì serve.
A me è sicuramente servito a guardare ognuno di voi in modo diverso, ma soprattutto a guardare me stessa.

* * * * * *

Stazione di Oswiecim, il treno ha impiegato tre ore, andando piano.
Ai caselli abbiamo incontrato almeno dieci donne, dietro a tende di pizzo, che scrutavano vagoni.
Occhi sbarrati e bocche orizzontali.
Chissà perché solo donne ai caselli. Chissà perché le tende di pizzo ai caselli.
Dobbiamo prendere un autobus per arrivare al campo, sotto la pensilina siamo in dieci, fuori batte una pioggia fitta. Passano autobus che sembrano furgoncini, alle nostre spalle gli orari, nessuno tarda neanche di un minuto. Ma il nostro è lontano da venire.
Sembra in qualche modo tutto all’indietro, anni sessanta, quando noi qui di certo non saremmo mai venute.
Tiriamo su i cappucci degli impermeabili, saliamo.
Tutto pare come i tram al centro di Cracovia, dove siedono ragazze vestite da spagnole che vendono rose, ma non nei vagoni, sanno dove scendere e solo da lì in poi si incamminano, col cesto di vimini sotto braccio.
L’autista ci indica un punto, non parla e ci fa scendere.
Alla nostra sinistra un immenso parcheggio pieno di pullman, da museo.
Da lì in poi saremo turisti.
Attraversiamo e iniziamo a guardarci intorno, cercando chissà quali segnali, aspettando che monti sotto alle costole già un po’ di tristezza.
Eppure nulla, c’è una tavola calda che serve zuppa di cavolo, ai bagni pubblici si fa la fila, all’angolo si vendono cartoline. Per ora ancora non si piange.
Pensiamo: più avanti, di certo più avanti, si piangerà.
Sediamo, ordiniamo frittelle di patate, unte da asciugare con i fazzoletti.
A quel punto ci mettiamo in fila per il biglietto e ci viene fatto notare che la mattina si entra solo con la guida, il gruppo italiano sta per partire.
Piangeremo in gruppo, e in italiano, non abbiamo molta scelta.


Paghiamo il nostro biglietto ed entriamo, provano a consegnarci le cuffie con cui sentire meglio la guida a distanza, ma rifiutiamo le cuffie. Stiamo bene così, se non sentiamo magari leggiamo, magari chiediamo. Ma poi questa storia non la conosciamo già tutti?
Il piazzale di ghiaia e sopra “il lavoro rende liberi”. La guida parla come a messa, da dietro non si sente. Meglio così; ci mettiamo a fissare la scritta. Ce n’è una uguale, ma diversa, al museo d’arte contemporanea di Cracovia, dice “l’arte rende liberi”, attorniata da lucine colorate.
L’arte rende liberi, al neon. E ora c’è quella vera di ferro, riportata da poco, forse, la guida lo dice, ma da dietro non si sente. Tutto sommato va bene così.


Entriamo, ci sono le mense e si inizia a camminare. Ci sono almeno altri venti gruppi, tutti con guida e auricolari, tutti vicini perché non ci si può allontanare.
Prima tappa, seconda tappa, facciamo foto, poi lei parla, non si sente quasi nulla, leggiamo targhe in inglese, cose che in parte già sappiamo. Ci aspettiamo di piangere, e invece niente.
Appaiono gli edifici dai mattoncini rossi, porte nere, pavimenti in cemento.

Ognuno è diventato un piccolo compartimento del museo: si vede dove stavano i sacchi a terra, si vede dove ci si lavava sommariamente, si vedono la iuta, le sedie, la paglia, le grate, le scale, i corridoi, le fotografie. Ogni stanza è piena di gente, si passa a turno per osservare cosa c’è dalle feritoie e gli affacci nelle stanze.
Orinatoi vuoti, divise vuote, ciotole vuote. Non c’è più nessuno.
Altri edifici, altre immagini, altre targhe. Fuori piove, dentro ci sono stufe mai usate.
Ci pare ci sia troppa gente lì, gente che non c’entra nulla, gente con le cuffie. Noi.
Arriva la mostra degli oggetti, centinai di cappelli, occhiali da vista, denti, scalpi, tazze, piatti, valigie, centinai di scarpe, anzi corridoi di scarpe e noi camminiamo con le nostre ai piedi e ci chiediamo: quando si piange qui?
Nessuno lo fa, né noi né gli altri.
E attorno abbiamo oggetti di chissà chi, oggetti rubati, oggetti morti, oggetti una volta comprati e venduti, poi bruciati e ora qui tutti insieme.
Le pozzanghere fuori sono diventate laghi, ci accostiamo alle carceri.

Ci sono le celle dove stare in piedi. Due, tre, quattro giorni in piedi e sotto uno sportello da cui passavano il cibo all’altezza dei piedi, unica fonte d’aria che chissà ogni quanto veniva aperta.
Il gruppo s’è disperso o abbiamo voluto perderlo. Nelle celle siamo sole.
Noi e quattro muri dove stare in piedi. Cerchiamo graffi e scritte, parole. Sono solo muri, oltre una grata qualcuno ha messo una candela e una rosa rossa, come quelle sul tram.
Una sola candela per tutti; che poi questi tutti quanti saranno?
Abbiamo visto i cappelli, le valigie, gli occhiali. Ma loro dove sono?

Rimbomba il suono sulle pareti, ci diciamo che Cristo Santo quattro giorni o anche un solo giorno là dentro è peggio di tutto. Eppure no, non è peggio di tutto. Ci manca ancora da vedere. Ci sono posti dove non esiste uno sportello da cui passare il cibo. Ci sono posti dove non esiste il cibo e neanche la cella. Ma noi non li abbiamo visti, continuiamo a camminare.
Andiamo lungo il muro delle esecuzioni, sempre mattoncini rossi, sbarre alle finestre, c’è spazio dove far cadere e raccogliere. Le celle in piedi restano la cosa peggiore. L’unica candela.
Niente, il gruppo è perduto, siamo con tutti quelli che non hanno voluto le cuffie, sei, ognuno parla una lingua diversa. C’è un ragazzo in carrozzella.
Attraversiamo il filo spinato, due, tre file di filo spinato, corridoi interi, cartelli minacciosi e vediamo una bassa casupola con un comignolo bello grande.
Non ci serve un cartello per capire. Entriamo, altre rose, altre candele, zone transennate, ci accorgiamo che sono arrivate le unghiate sui muri. Solchi e macchie di bruciato.

Ora dovremmo sentire qualcosa, qualcosa deve arrivare, non si può stare impassibile davanti alle tracce, quei graffi dicono che qualcuno non voleva morire.
Eppure lì ci sono rose e candele, e fa fresco e le persone stanno in silenzio.
Non ce la facciamo proprio a capire.
La visita deve finire, non si può stare per sempre lì e provare a sentire. Non c’è tempo.
Fuori sale il vento, le pozzanghere sono torbide, fanno da specchio ai mattoni rossi.
Una navetta ci aspetta, perché noi non arriveremo in treno.

Pensiamo che le celle e i graffi sono stati orribili, le stanghette degli occhiali, i capelli arruffati e senza radici, le stufe mai accese, la paglia a terra. Orribile. Lo sanno tutti, lo sapevamo anche prima.
Però c’erano gli edifici, c’erano le prigioni, c’era la parvenza di un carcere, lo spauracchio.
C’erano tracce e aloni, macchie, fotografie alle pareti di persone dai capelli rasati, uomini donne, compresi quelli che sorridevano per il riflesso tipico della fotografia, che quando te la scattano devi sorridere, perché sei in posa; e loro erano in posa denutriti e pelati, senza trucco e senza vestiti.
Troppi, che non si distinguono più e noi siamo una carovana di turisti che fanno foto: io, lei, la signora col cappello impermeabile, il ragazzo dalla felpa verde, noi, loro, le fotografie, le cuffie e quelle lacrime che non scendono a nessuno. Cosa siamo venuti a fare.
Il lavoro che rende liberi, il campo di lavoro, fin lì è orribile, ma può diventare assurdo?

Al secondo campo si entra da un cancello, ora tira vento, perché non ci sono gli edifici, non c’è la tavola calda, non ci sono i mattoncini, né le celle, né le stanze, né nulla. Lì non c’è nulla.
Un enorme prato brullo, con delle stalle e un treno fermo su rotaie che non portano da nessuna parte. Fine del viaggio.
C’è chi poggia la macchina fotografica sui binari verso l’ingresso, lì c’è una prospettiva davvero suggestiva. Rabbrividiamo.
Ritroviamo il gruppo iniziale, ma la guida è cambiata, c’è un ragazzo più giovane, che racconta senza microfono e la voce si sente sempre meno, quindi non sappiamo tante cose, di nuovo.
In lontananza si intravede un monumento bianco, passano gruppi di studenti con il capo coperto, le bandiere sulle spalle, la stella.
Siedono in circolo e parlano, davanti a loro le macerie crollate di una casupola col comignolo.
Ce ne erano tante, nessuna è rimasta in piedi. Qua c’era tanto, tanto da far tacere, uno, due tre, quattro comignoli, e poi le stalle.
Lunghe stalle, mezze sono crollate, mezze erano di legno, erano stalle di legno nel nulla della campagna polacca. Ora è agosto e fa già freddo, attraversare tutto il campo è faticoso.
Noi siamo turisti affaticati ad agosto, piove e tira vento. Le foto dalle rotaie hanno una prospettiva migliore.
Tutto è sparito, dentro ci sono scompartimenti in legno, nelle stalle.
Tre piani di legno, con la paglia, il pavimento di terra battuta, le pietre alle pareti, non sono rosse.
Stavano in dieci su ogni ripiano, immobili. Scheletri.
Guardiamo il ripiano e ci pare impossibile, lì al massimo si sta in quattro, è chiaro, dieci in che senso? Erano su un fianco, erano coricati, erano bambini, erano donne minute, ma neanche loro, neanche dieci bambini alti mezzo metro entrano là dentro.
Quindi quanti erano? Contiamo bene, perché questo ripiano è piccolo, troppo piccolo.
Dieci su ogni livello, trenta per scompartimento. Nella stalla.
Perché?
Fa buio lì dentro, non ci sono neanche le finte stufe che nessuno accendeva.
Legno, paglia, terra e nulla.
E non viene da piangere, perché non si riesce a immaginare quella stalla piena.
Cosa siamo venuti a fare, tutti noi e quel ragazzo che parla, le macchine fotografiche?
Poi come li hanno portati via? Nelle carriole. Facevano carriole che bruciavano come legna da ardere. E la paglia e i loro umori e il cibo e le ossa e i capelli e i denti e le vene e i loro pensieri.
A cosa pensavano tutti loro, chi portava la carriola, chi vedeva la carriola, chi gettava la carriola? Avanti il prossimo, avanti, poggialo lì, buttalo qua, piegalo così, lancialo laggiù, rompilo, schiaccialo, è arrivato il suo turno.
Cosa pensavano?
Si vedevano gli occhi, li vedevano o no? Cosa vedevano in quella stalla?
Al buio quei cento, duecento, trecento, occhi, chiusi, aperti, a lacrimare, a vedere.
Parlavano? Di che parlavano fuori e dentro, la notte, a meno dieci gradi, al caldo.
Di cosa parlava l’ultimo, quello infilato all’interno.
L’ultimo dei dieci, proprio lui, infilato in trenta centimetri di legno.
Chi non aveva la forza neanche per contare in quanti stavano su quella paglia.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci.
Siamo nudi e lì non c’è nulla.
Non si riesce. Troppo assurdo.
A Oswiecim non c’è nulla.
A Oswiecim ci siamo noi.

1 commento:

  1. grazie per questa testimonianza. quando è tutto troppo folle la mente lo rifiuta..e congela le emozioni. ci si sente devastati.

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