giovedì 31 ottobre 2013

Ricordando Sylvia Plath. Una poesia

G. Luca Chiovelli


Sylvia Plath (27 ottobre 1932 - 11 febbraio 1963)

Il significato dell'opera di Sylvia Plath è tradizionalmente soffocato dall'ingombrante biografia; eppure, proprio le vicende della vita svolgono al meglio la funzione di commento alle sue creazioni poetiche.
Sylvia nacque a Boston, in un ambiente culturale d’ascendenza europea: il padre, Otto Plath, tedesco, divenne uno stimato entomologo; la madre, Aurelia Schober, figlia di immigrati austriaci, insegnò letteratura; poetessa precoce e studentessa modello, la vita della Plath fu segnata, all'età di otto anni, dalla morte del padre, la figura genitoriale con cui intratterrà un ambiguo rapporto postumo e che tornerà ossessivo in tutta la sua produzione in versi.
La depressione, le cure con l'elettroshock, il difficile rapporto col marito fedifrago, Ted Hughes, curatore sleale delle memorie della moglie (arrivò a distruggere i suoi ultimi diari che, forse, lo mettevano in cattiva luce), e il suicidio, a poco più di trent'anni, contribuirono alla nascita della leggenda Plath che, nell'immaginario pubblicitario, sostituisce con successo la poetessa Sylvia Plath.

I racconti di MVL - Quadriglia


 Simona Baldelli
«Avanti, Cam, controlla meglio». L’addetto al check-in ripassò per la terza volta la lista.
«Mi dispiace Set, sono 18.486». Numero pari quindi. Che, aggiunto ai 14.784.972.623 già presenti, significava che al momento di far le coppie lui sarebbe rimasto fuori.
«Sei sicuro?» Cam gli mostrò l’elenco dei nuovi entrati della settimana: incidenti, malattie, guerre, avvelenamenti, omicidi, suicidi, overdose, annegamenti … tutti i modi e le maniere in cui si possono stirare le zampe. La somma di tutte quelle colonne dava un numero pari.
Perciò, niente quadriglia di Halloween e, per il terzo anno consecutivo, sarebbe stato lo zimbello del limbo. Ciò che gli faceva uscire fumo dal naso, e non solo metaforicamente, non era tanto la punizione, del tutto meritata, essendo stato lui l'autore di un'infinità di marachelle, come far pipì sulla fiammella del boiler del fuoco eterno (spegnendolo con grande scorno di tutta l’azienda) o distribuire sex toys nel girone dei lussuriosi e vagonate di cioccolata fra i golosi (trasformando l’anticamera dell’inferno in un luogo di delizie ben più che paradisiaco), no, quello che gli rodeva davvero era di fare ancora una volta da tappezzeria, mentre tutti gli altri avrebbero ballato, gozzovigliato, goduto, di quella festa davvero indiavolata.

mercoledì 30 ottobre 2013

Salone dell'editoria sociale, una grande rivoluzione per contrastare la grande mutazione

Da domani, 31 ottobre, a domenica 3 novembre, negli spazi di Porta Futuro, a Testaccio, si tiene la quinta edizione del Salone dell'editoria sociale. Tra i partecipanti, il direttore della "Gazeta Wyborcza" Adam Michnik, il sociologo inglese Guy Standing, lo scrittore di lingua russa Andrej Volos  e, tra gli italiani, Guido Crainz, Stefano Rodotà, Walter Siti e pure Monteverdelegge, cui è dedicato un incontro domenica mattina alle 10.30. Qui sotto, il testo di presentazione della rassegna.

Giulio Marcon e Goffredo Fofi

La V edizione del Salone dell’Editoria Sociale ha per titolo “la grande mutazione”. Quella prodotta non solo dai sei anni di crisi economica che ha colpito il mondo dalla fine del 2007, ma da un trentennio di politiche neoliberiste che hanno cambiato la politica, la società, i modelli produttivi, i consumi, i comportamenti e persino l’antropologia di una parte consistente del nostro pianeta.

La “grande mutazione” dell’ultimo trentennio evoca quella “grande trasformazione” che ha raccontato Polanyi nell’omonimo libro descrivendo il passaggio – tra il XVI e il XVII secolo – da una società che incorpora l’economia a un mercato che ingloba la società. Un passaggio analogo è quello della “grande mutazione” che investe gli ultimi decenni e riguarda la trasformazione del paesaggio umano e ambientale di una società asservita al consumo e al cinismo del mercato e dell’interesse privato. E che vede mutare i cittadini in consumatori, l’economia in un grande casinò o centro commerciale, la politica in una ancella degli interessi di finanzieri e speculatori, la cultura in un inutile rito consolatorio.

Ecco perché con questa edizione vogliamo ricordare che la crisi globale che stiamo attraversando non è contingente, né legata solamente al declino dei sistemi produttivi o di uno specifico modello economico. È anche una crisi sociale, ecologica, culturale, antropologica, etica e politica che per essere affrontata ha bisogno di qualcosa di più e di diverso di aggiustamenti o modeste riforme. Ha bisogno di una rivoluzione del modo di pensare, di comportarsi: di rimettere al centro la dimensione etica, dell’esempio, del “ben fare” e di un paradigma differente del rapporto tra economia e politica, ecologia e tecnica, società e individuo. Le decine di incontri, presentazioni di libri e tavole rotonde dell’edizione di quest’anno ci ricordano l’esigenza e l’urgenza di un cambiamento radicale dell’ordine esistente.

martedì 29 ottobre 2013

Una rilettura di Cent'anni di solitudine


Maria Vayola
Parlare di Cent'anni di solitudine incute timore, sia per la grandezza del libro che per le innumerevoli parole che sono state  spese per commentarlo e recensirlo.
Io l'ho letto per la seconda volta dopo molto tempo e credo che gli anni che si sono accumulati mi abbiano permesso di apprezzarlo ancora di più.
Marquez usa le parole come frammenti di pietre preziose da incastonare per formare un gioiello elaborato e fantasmagorico che abbaglia per la sua lucentezza, illanguidisce per la sua sensualità e confonde per la sua la sua potenza.
Il tempo scorre su un binario circolare in cui i personaggi vivono la propria esistenza segnati dalla reiterazione degli eventi: passioni, guerre, morte, calamità naturali, tragedie umane, l'inevitabile alternarsi di periodi buoni e cattivi.  
L’impasto narrativo è complesso, ricco di personaggi che si ripetono nei nomi e si confondono come le vicende che vivono; la coopresenza dei morti con i vivi, il rinnovarsi di passioni sfrenate che si alternano alla rinuncia di qualsiasi passione danno l’idea di un cerchio che si chiude per ricominciare non all’infinito ma fino alla consunzione e distruzione del cerchio stesso, come tutte le esistenze individuali vanno verso la vecchiaia e la morte.
Nella sua circolarità il tempo perde la sua dimensione, senza la linearità della progressione temporale, coloro che lo animano si ritrovano a vivere, in un unico immanente momento, tutto il loro passato e futuro, come il liquido agitato in una bottiglia mescola gli elementi che lo compongono.
Nel liquido è tutta la storia di Macondo, città partorita dalla inestinguibile e immaginifica fantasia di Marquez, dagli albori alle fine, con tutti i personaggi che la abitano, e che si propone come il simbolo della vita stessa e della solitudine che inevitabilmente la accompagna. Una solitudine che non è solo individuale ma che ha a  che fare con la incapacità dell’essere umano a costruire una storia personale e sociale che sia immune dall'ingordigia del potere e dalla sopraffazione; una solitudine cosmica per l'impossibilità di comprendere e accettare l'ignoto di ogni esistenza. 
E pure Macondo potrebbe essere allegoria dell’inizio della umanità, una sorta di Eden in cui il peccato originale è quello di non riuscire a vivere in sintonia con i propri simili e con la natura, e della sua fine, Macondo stessa scomparirà sferzata dalla pioggia e dal vento.
Umidità e aridità si alternano come condizioni climatiche, quasi sempre eccessive, e come metafore degli umori fisici e mentali dei personaggi.

Gadda poliglotta nella voce di Gifuni


Stasera, martedì 29 ottobre, per la rassegna "Le vie dei festival", va in scena al Teatro Vascello Gadda e il teatro. Un atto sacrale di conoscenza, lezione/spettacolo di e con Fabrizio Gifuni. Da tempo Gifuni esplora  il mondo dell'autore della Cognizione del dolore. Di questa lunga indagine fa parte anche la lettura integrale del "Pasticciaccio brutto" uscita qualche mese fa per Emons, di cui proponiamo qui sotto la recensione di Andrea Cortellessa (uscita sul numero 24 di Alfabeta2).

Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
letto da Fabrizio Gifuni
Emons Audiolibri, cd mp3, 13h 34’, € 18.90

Andrea Cortellessa
«Colleghi di alta statura» definì una volta, Gianfranco Contini, Gadda e Joyce. Ma – al di là della considerazione, inconfutabile, della rispettiva altezza entro le letterature che hanno avuto la ventura di fregiarsi di simili campioni – una quantità di voci critiche illustri hanno tentato di definire tale superiore colleganza (a partire da Contini stesso: che li accomunava nella cifra d’un «manierismo espressionistico» capace di mostruosamente miscelare «elementi linguistici disparati, maneggiati con estrema sapienza, volta a rendere, con effetti di grottesco enorme […], il caos d’una cultura e d’un mondo in crisi»). Un vettore di ricerca comune va senz’altro indicato nella componente orale: nella colossale partitura vocale (e ovviamente plurivoca, oltre che plurilinguistica; e insomma, epica) cui i due autori giungono col rispettivo opus ultimum, Finnegans Wake e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Forse proprio in quanto memore del terrore esaltato che i frammenti del Work in progress avevano fatto serpeggiare negli anni Venti e Trenta, nel 1957 all’apparire del Pasticciaccio – e dell’impegnativo paragone – il sempre cauteloso Gadda si schermì, nei confronti degli «esperimenti intellettualistici e disperati» del collega.

mvl mostre: Homeless, volti come mappe stropicciate dall'uso

Patrizia Vincenzoni
Ci sono incontri che cambiano la vita e, in alcuni casi, le prospettive artistiche. La foto rubata a una ragazza senzatetto raggomitolata in un sacco a pelo e la scelta immediatamente successiva di Lee Jeffries di restare a parlare con lei, hanno determinato il senso della ricerca e il soggetto della narrazione fotografica  dell'autore. Homeless, i senza-casa, gli esclusi che ha incontrato in varie città del mondo, in mostra al Museo di Roma in Trastevere, piazza Sant'Egidio 1/b, è il risultato del suo lavoro.  Cinquanta  foto  fra uomini, donne e bambini, volti occhi mani che dialogano, silenziosi, con lo spettatore. 

Non c'è retorica né pietismo nella denuncia implicita delle immagini che hanno il punto di forza  nello sguardo dei soggetti ritratti, attraversato da sentimenti che la presenza di Jeffries ha saputo evocare cogliere e restituire.  Lo sguardo di questa umanità che 'vive' nelle strade del mondo sopravvivendo a se stessa ci interroga ma, allo stesso tempo, non sembra aspettare risposte: l'abitudine alla devastazione che ha scavato volti e corpi, operata dall'isolamento e dalla  disidentità personale e sociale, rimanda a una presenza illuminata solo per il tempo dello scatto, quasi un'epifania che sacralizza il momento e rende l'esperienza  incontrovertibile, unica. 

In molte fotografie le mani sono in primo piano, connettendosi ai rimandi dei volti, amplificando il linguaggio del corpo: coprono, supportano, mostrano, pregano, diventano ramificazioni di una disperazione e di una desolazione senza ritorno.  I  volti addensano espressioni i cui segni  li rendono simili a  mappe stropicciate e scurite dall'uso, le  rughe solcano i visi somiglianti a  letti di fiumi ormai prosciugati da anni.  Gli occhi non affondano del tutto nell'abbandono, cercano punti di luce o mandano  essi stessi bagliori di sguardo che vi si oppongono in qualche modo. Jeffries ha affermato che la sofferenza  e la spiritualità sono sinonimi e che il suo scopo è far appello al senso di fede e all'umanità degli spettatori.  Crediamo vi sia riuscito.

lunedì 28 ottobre 2013

mvl teatro: Le Vie dei Festival portano ancora al Vascello


Maria Cristina Reggio

Fino a qualche anno fa, ogni autunno, si potevano vedere a Roma, in un breve arco di tempo, alcune  vere "chicche", ovvero  gli spettacoli più interessanti che avevano attraversato i festival estivi di teatro in Italia. Si poteva, ma ora, al tempo dei tagli discriminanti, non si può più, così come tante piccole perle gustose, negli anni della crisi, non si possono più assaporare. « Quest’anno Le Vie dei Festival non sarà un festival dei festival - diceva alla conferenza stampa di presentazione Natalia Di Iorio, ideatrice e direttore artistico dal 1994 - a causa dei duri tagli e del trattamento mortificante che la mia associazione, Cadmo, e altre associazioni romane hanno subito dal Comune. Per non rinunciare completamente all’appuntamento, ho chiamato a raccolta gli artisti con cui lavoro da trent'anni. Amici che aderiscono al Festival con generosità, solo per sostenere la mia battaglia contro l’ingiustizia di cui siamo vittime. [...] Ho scoperto solo allora, (il 3 ottobre, n.d.r.)  che le Vie dei Festival, come le altre associazioni, ha subito un taglio di contributo del 50% - spiega la Di Iorio - quando le associazioni che hanno svolto attività da luglio a settembre hanno visto in molti casi confermata la cifra della precedente annualità o hanno subìto una riduzione massima tra il 10 e il 15 per cento».
 
Il Comune, insomma, come sostiene la Di Iorio, ha confermato i contributi alle associazioni che presentavano un programma appositamente articolato durante i mesi estivi, mettendo nel surgelatore il resto, mediante il sistema dei tagli di contributo del 50%.  Ed è così che un incontro tanto atteso come le Vie dei Festival, che dal 1994 offre uno sguardo sulle ultime ricerche italiane e internazionali in campo teatrale, e che ogni anno dimagrisce  sempre più, fino alla quasi totale consunzione, ha compiuto questʼanno un  vero miracolo: infatti  il sipario dellʼamato Teatro Vascello ha aperto i battenti per il festival dal 16 ottobre  al 1° dicembre, nonostante la crisi e le forti limitazioni di budget, con un  calendario davvero rutilante e variegato perché, più o meno ogni giorno cʼè un nuovo spettacolo, con interventi di decine di artisti che hanno risposto con generosità allʼappello di Natalia Di Iorio. Difficile elencarli tutti, pressoché impossibile sceglierne pochi  da consigliare, perché ognuno - c'è anche una sezione dedicata al Teatro ragazzi - che partecipa a questa "festa" merita una attenzione particolare: da Toni Servillo a Carlo Cecchi e Nicola Piovani, a Fabrizio Gifuni, Maurizio Donadoni, Sonia Bergamasco, la compagnia Scimone e Sframeli, Enzo Moscato, Sandro Lombardi, Enrico Iannelli e Tony Laudadio, mentre del programma iniziale della manifestazione  restano solo Mimmo Borrelli, Nicola Russo e il Circus Klezmer.
Per consentire a ciascuno di fare la sua scelta, si allega il link con il fitto programma: http://www.teatrovascello.it/2013_14/schede/vie_dei_festival.htm
Comunque stasera c'è una grande prova di tecnica attoriale di Fabrizio Gifuni con la sua lezione spettacolo Gadda  e il teatro, un atto sacrale di conoscenza, da non perdere.

 

Bibliomania e bibliofollia / 4 - Robert Musil, Il bibliotecario che non leggeva libri

Lo straordinario estratto da L’uomo senza qualità, di Robert Musil, mette a fuoco il problema che ha afflitto con progressiva forza l’uomo moderno: il controllo del sapere da lei stessa prodotto. Se, prima della stampa, e della diffusione del libro a livello sempre più capillare, era ancora pensabile un universo in cui poter comprimere l’intera conoscenza del mondo (la biblioteca), in seguito tale sogno si è infranto contro la mole incommensurabile dei prodotti intellettuali (cartacei e sonori; ora digitali e sempre più immateriali).
Il catalogo e il database furono e sono tuttora la sola arma a disposizione dell’intellettuale per domare la selvaggia proliferazione della conoscenza. Catalogo che rischia, però, nella propria onnicomprensività, di sostituirsi proprio all’oggetto catalogato, al libro, e, quindi, al suo contenuto ovvero alla conoscenza stessa. Gianfranco Contini lamenterà, nella sua Storia della letteratura italiana: “La rappresentazione caricaturale … del dotto che sa tutto della bibliografia su un autore, ma non legge (o perlomeno non rilegge, o non legge compiutamente) l’autore stesso … è il modello negativo da proporre subito al rifiuto …”.
Nella letteratura moderna, peraltro, non manca la vertigine della lista, per dirla con Umberto Eco: da Borges a Joyce. Vertigine o libidine, poiché la lista o il database illudono, infatti, di poter trattenere lo scibile entro i limiti della pensabilità. L’Ulisse di Joyce, l’opera di Balzac e Zola, dei russi ottocenteschi, l’idealismo filosofico tedesco, le stesse duemila pagine de L’uomo senza qualità, sono gli ultimi, titanici tentativi in tal senso. E i bibliotecari di Musil, nella loro meschinità, non fanno eccezione.
Fermare il tempo, fissare un’epoca, racchiudere l’essenza dell’uomo, dominare il senso della storia.

domenica 27 ottobre 2013

L'incipit della domenica - Kubla Khan

Dopo il frammento Chi devo scegliere per mio giudice, anche l'incipit della domenica rende omaggio a Samuel Taylor Coleridge, pochi giorni dopo il suo anniversario (il poeta nacque infatti il 21 ottobre del 1772).

Una sera dell’autunno del 1797, Coleridge  si corica presto. È indisposto, forse sotto l’effetto dell’oppio. Si addormenta quasi subito, non prima di aver letto alcune frasi tratte dai Pellegrinaggi del reverendo Samuel Purchas (1575-1626) ricavate da Il Milione di Marco Polo: “Quando l'uomo è partito di questa cittade e cavalca 3 giornate, sí si truova una cittade ch'è chiamata Giandu, la quale fee fare lo Grande Kane che regna, Coblai Kane. E àe fatto fare in questa città uno palagio di marmo e d'altre ricche pietre; le sale e le camere sono tutte dorate e è molto bellissimo marivigliosamente. E atorno a questo palagio è uno muro ch'è grande 15 miglia, e quivi àe fiumi e fontane e prati assai”.
Il sonno di Coleridge durò circa tre ore; in quel limbo egli immaginò, come riferì in seguito egli stesso, circa trecento versi. Destatosi, cercò subito di oggettivarli sulla pagina, ma, dopo averne vergati appena cinquantaquattro, fu interrotto da un visitatore, per motivi di affari. Ritornato alla scrivania si rese conto che tutta la memoria del sogno, sottile come una ragnatela, era strappata: d’essa non rimanevano che immagini sfocate e inservibili.
Kubla Khan rimase un’opera incompiuta, l’incipit d’un possibile poema.

sabato 26 ottobre 2013

Un frammento di Samuel Taylor Coleridge, Chi devo scegliere per mio giudice?

Samuel Taylor Coleridge (21 ottobre 1772-25 luglio 1834) non fu un poeta prolifico. Di lui rimane la collaborazione con William Wordsworth nelle Lyrical ballads, oltre ai capolavori La Ballata del vecchio marinaio, Christabel e l’incompiuto Kubla Khan. Residuano, inoltre, numerosi esperimenti metrici e frammenti che egli elaborava a partire da modelli romantici, soprattutto tedeschi (Coleridge studiò tedesco a Gottinga e tradusse il Wallenstein di Friedrich Schiller e il Faust di Goethe).
Il seguente frammento, di sole sette righe, è il rifacimento di tre distici di Schiller. Coleridge usa i distici schilleriani per scagliarsi contro i critici e ribadire la propria personale visione poetica.
Nelle prime due righe esige un lettore sorgivo (earnest, unbefangensten in Schiller, ossia puro, impregiudicato), onesto, che dimentichi tutto (autore e lettore) per risolversi nel libro, nella parola.
Nei seguenti due versi accusa, invece, i critici troppo freddi per amare, per essere sensibili, per capire il travaglio della creazione (Schiller dirà: “La colpa è facile, creare è difficile”; "Tadeln ist leicht, erschaffen so schwer"); negli ultimi tre definisce la ricompensa somma del poeta: quella, cioè, che vede la parola trovare ricetto nei cuori più benevoli e puri – cuori da cui essa potrà riverberarsi mille volte, intera o a spezzoni, nelle più varie sfumature, in modo da guadagnarsi l’eternità.

Whom should I choose for my Judge? the earnest, impersonal reader,
Who, in the work, forgets me and the world and himself!
Ye who have eyes to detect, and Gall to Chastise the imperfect,
Have you the heart, too, that loves, feels and rewards the Compleat?
What is the meed of thy Song? 'Tis the ceaseless, the thousandfold Echo
Which from the welcoming Hearts of the Pure repeats and prolongs it,
Each with a different Tone, compleat or in musical fragments.

Chi devo scegliere per mio giudice? Il lettore impersonale, non compromesso,
Colui che, nel leggere, dimentica me, e il mondo e se stesso!
Voi che avete occhi per indagare, e la Malizia per punire l'imperfezione,
Avete anche un cuore sensibile, che ama e premia la Completezza?
Qual è la mercede della tua Canzone? È l’Eco, incessante,
Mille volte ripetuta, che dai cuori benevoli si ripete e prolunga,
Ciascuna con un tono diverso, integra o in frammenti musicali.

Calvino e il cinema

Oggi alle 11 nel Salone degli affreschi del Dsm (via Colautti 28-30) riunione del gruppo di lettura dedicato quest'anno ai sensi. Libro condiviso, Sotto il sole giaguaro di Italo Calvino. Per ricordare lo scrittore, di cui il 15 ottobre cadeva il novantesimo anniversario della nascita, proponiamo ampi brani di un articolo sul suo rapporto con il cinema, pubblicato il 30 settembre sulla rivista online Ilciottasilvestri, in occasione di una rassegna di film "calviniani" al Cinema Trevi di Roma.

Italo Calvino è morto improvvisamente il 20 settembre 1985, nello stesso giorno del terribile terremoto in Messico, proprio lui che era nato - da sanremese emigrante - lì vicino, a Cuba, mamma botanica e papà agronomo. Inoltre stava proprio per recarsi in Messico per sposarsi. Ma la cattolica Mexico City non avrebbe mai concesso l'ok alle nozze con una donna divorziata e dunque si era diretto verso l'isola atlantica dell'amico Che Guevara... Nel trentesimo anniversario della sua scomparsa ci saranno certo, da ora in poi, molte iniziative e manifestazioni per celebrarlo. In Italia e nel mondo (è stato dopo Dante Alighieri il più tradotto dei nostri narratori). Ma quest'anno, nel novantesimo della nascita, non sembra che la prassi intellettuale di Calvino sia molto ricordata. Anche se, recentemente, in due preziosi volumi, Vito Santoro, e prima ancora, nel 1990, Lorenzo Pellizzari si sono accostati a Calvino in maniera differente, partendo dal cinema per arrivare alla letteratura e alla saggistica e svelare il mistero di una scrittura unica, contaminata e multimediale ante litteram. 

venerdì 25 ottobre 2013

C'è chi fugge dalla scuola e chi dall'analfabetismo

Marco Biasio
Il recente rapporto di Save The Children, in seno alla campagna “Allarme Infanzia”, individua, tra gli altri, un dato inquietante, paradossale nella sua enormità: in Italia, la dispersione scolastica (i ragazzi che finiscono solo le scuole medie inferiori) si attesta al 17,6%. Una percentuale molto lontana dagli standard richiesti dall'Unione Europea (sotto il 10%) e dalla maggioranza di altri paesi Ue come Francia (11,6%), Germania (10,5%), Inghilterra (13,5%), persino Grecia (11,4%). Il Ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza, che nello scorso maggio ebbe già modo di definire “emergenza” il quadro statistico nel complesso, ha previsto uno stanziamento ad hoc di 80 milioni di euro, all'interno del nuovo Decreto Scuola, per arginare il fenomeno. 
Chissà cosa ne penserebbe Jackson, 11 anni, keniano, aspirante pilota, che ogni giorno percorre con la sorella minore 30 chilometri nella savana, a zig zag tra giraffe ed elefanti, per raggiungere una baracca di lamiera. E Zahira, che è marocchina, di anni ne ha 12 e, con le amiche Zineb e Noura, tutti i lunedì si inerpica per le strette mulattiere attorno alla catena dell'Atlante, per sfuggire a quell'analfabetismo che era la condizione naturale di sua nonna, nella speranza di diventare un giorno dottore. Anche il tredicenne Samuel, indiano, coltiva l'ambizione di indossare il camice bianco. La sua riabilitazione è fisica ancor prima che scolastica: costretto su una sgangherata sedia a rotelle, spinta dai fratelli minori Gabriel ed Emmanuel, viaggia per un'ora e mezza, il tempo necessario – salvo imprevisti – per coprire la distanza di quattro chilometri che lo separa dall'istituto. 

mercoledì 23 ottobre 2013

I gatti, Baudelaire e la poesia sconfitta (e tre poesie sui gatti, ovviamente)

Balthus, Il gatto nel Mediterraneo
G. Luca Chiovelli


Prima o poi qualcuno si deciderà a raccontare la storia della letteratura moderna come storia di una sconfitta. Una capitolazione progressiva che vede l'artista sempre più emarginato dal ritmo pulsante dei secoli, dagli onori, dai monumenti più duraturi del bronzo, dalle acclamazioni dei re o dei signori, dal ruolo di creatori dello spirito dei popoli.
A quando data l'inizio di questa parabola implacabile?

In un post che parlava di tutt'altro (ma in realtà parlava anche di questo poiché tutto si collega a tutto) abbiamo presentato un brano de Il Novellino, una raccolta duecentesca di brevi apologhi; in esso un giovane interroga due individui. Ecco il primo:



Uno, che aveva il cuore più ardito e la faccia più tranquilla, si fece avanti ...



Ardito, sereno, sicuro del proprio ruolo sociale. È un mercante, molto ricco. Si è fatto strada da solo, ci tiene a precisarlo, non deve nulla a nessuno.
Poi, il secondo:

Una persona d’aspetto nobile che aveva una faccia timorosa e stava più indietro che l’altro. Non così arditamente disse ...

Questo è un re, ma un re timoroso, uno sconfitto. Il Novellino parteggia per il re; il Novellino è legato al Medioevo, alla monarchia feudale, all’elaborazione poetica delle corti, a un mondo libresco e pre-scientifico, legato ancora a una visione simbolica e fiabesca della realtà.

martedì 22 ottobre 2013

Roma è un uomo

Raethia Corsini
Sono una delle tante romane adottive. In questa città eternamente bella e eternamente inamovibile, ci sono arrivata nel 2006 come mi è già capitato di raccontare. Grande amore. Durato, come ogni grande amore, tre anni di passione accecante, seguiti dal risveglio post incantamento, da attese disattese, da piccole illusioni che tali si sono rivelate, da sorprese come tali impreviste ma spesso liete, da liti furibonde, pacificazioni languide e ruffiane, dichiarazioni d'amore sincero e adulto seguite da minacce di separazione all'ultimo coltello o fiammifero, a memoria di gladiatori o del Nerone che fu. La relazione è ancora in corso. Abbiamo superato i fatidici sette anni, ritenuti vox populi il break event point dell'amore. Ora ci guardiamo reciprocamente senza incanti, ma un sentimento via via più profondo si sta facendo strada. Si sta profilando un'intesa che passa attraverso la conoscenza dei reciproci limiti, non più solo attraverso il desiderio di piacersi. Anche perché lei, Roma, è granitica come un bell'uomo che sa di esserlo e non fa il minimo sforzo per com-piacerti. Lui è bello, tutti cadono ai suoi piedi statuari e questo basti anche a te, partner del momento.

lunedì 21 ottobre 2013

La più grande biblioteca del mondo dentro il computer di casa

Maria Teresa Carbone
C'è stato un tempo (qualcuno se lo ricorda? diciamo una trentina d'anni fa) in cui comprare musica voleva dire andare in un negozio di dischi e uscirne con sottobraccio uno o più astucci di cartoncino piatti e quadrati, al cui interno era racchiuso – appunto – un disco (a volte due o tre) di vinile, il cosiddetto 33 giri o lp (long playing) o infine album, dal momento che ognuna delle due facciate conteneva di solito un certo numero di brani. Da allora il mercato musicale è stato investito da una rivoluzione dopo l'altra, a partire dal cd (compact disc), presentato all'inizio degli anni Ottanta come un oggetto imperituro e oggi pressoché defunto, giù giù fino alla vendita via internet di singoli brani musicali da scaricare (il modello iTunes) e, infine, all'abbonamento mensile, con ascolto in streaming, il cui esempio di maggiore successo è oggi Spotify. A questo proposito, il direttore economico  della compagnia svedese, Will Page, ha dichiarato pochi giorni fa alla “Stampa” che nei suoi primi sei mesi in Italia Spotify ha registrato 610 milioni di stream. Un risultato notevole, sulla cui durata – come si è visto – sarebbe imprudente scommettere. Sta di fatto però che l'idea di offrire ai consumatori una scelta pressoché illimitata di ascolti in cambio di una cifra mensile relativamente modica (una decina di dollari) ha preso piede anche fuori dal campo musicale.

domenica 20 ottobre 2013

Saramago, uomini ciechi nel mondo

José Saramago, Cecità
traduzione di Rita Desti
Einaudi 2005

Enza Bertoni

Nella tragicità di questo avvenimento paradossale, la cecità improvvisa degli abitanti di una intera città, con un'unica eccezione, ciò che mi colpisce maggiormente è l'indifferenza.Inizialmente tutto ciò che accade può essere percepito come una tragica catastrofe, una momentanea tragica avventura, ma a mano a mano che si va avanti con la lettura ci si accorge che è una cecità che va verso un'altra direzione, che è un viaggio del "vedere" con occhi nuovi, che l'occhio non potrà fermarsi da nessuna parte se non verso un viaggio interiore.
Vedo? No! Da quale parte il mio occhio si avvia ? Da quale spazio, verso dove ? Su quale spazio si focalizza ? Penetra oltre ?
E' questo il messaggio che l'autore, secondo me, ci manda, ci sollecita, andare oltre, vedere oltre.
Il puntuale racconto degli eventi quotidiani, dei bisogni fisiologici, raccontati fino al disgusto di se stessi, la laidezza e lo squallore deturpano questo luogo di dolore.
Questo vagabondare da una camerata all'altra, produce una forma di interiorizzazione, quasi un'oasi di raccoglimento; questi esseri incomunicanti, ma che vogliono favorire contatti. Attraverso le immagini inquietanti che l'autore ci propone, si cerca di appropriarsi di uno spazio diverso. Si avverte la rappresentazione dell'altro quasi come in un sogno, un altro di cui si ha paura.
La cecità diventa occasione di chiusura da un lato e dall'altro verso una solitudine liberatoria, una prigione e contemporaneamente l'imposizione  di altri sensi.
Cecità diventa metafora della vita : l'uomo è un cieco nel mondo, in questo mondo non decifrabile, opaco; un mondo invisibile ci sovrasta, una cecità che spegne tutto, una disperazione, ma che deve sollecitare nuove modalità dell'essere umano, che deve sentire come importante conseguenza quello di svincolarsi sia dalla nostalgia del mondo visivo, sia dal credere che da solo ce la farà.
L'uomo ha sempre bisogno dell'altro per poter sopravvivere.

L'incipit della domenica - Il fu Mattia Pascal

R. Magritte,
La reproduction interdite
Il quadro di René Magritte a lato può indurre qualcuno di voi, il più pigro, a credere che la pubblicazione dell'incipit del Mattia Pascal sia istigata da considerazioni di indole metafisica e psicologica. Invece la scelta letteraria ha, oggi, origini finanziarie.
Come il Pascal muore due volte e altrettante rinasce, con diverso nome, ma eguale personalità, così avviene per le imposte o tasse italiane: uccise a chiacchiere nei comizi televisivi, rinascono con acronimi nuovi di zecca e rinnovato vigore. 
La più famigerata di tutte, anzi, è morta e rinata tre volte (ISI, ICI, IMU, TRISE), in competizione vincente con Mattia Pascal/Adriano Meis. 
Pirandello, la cui vita fu segnata dal memorabile tracollo della solfatara di famiglia (nel 1903, centodieci anni fa) che lo costrinse a sbarcare il lunario umiliandosi con ripetizioni private, approverebbe di sicuro la nostra divagazione, a mezzo tra personale omaggio letterario e scienza delle finanze.

Luigi Pirandello

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. E' ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de' miei concittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete.

Il 'Mal di stomaco', un rompicapo di Archimede antico di 2000 anni (per grandi e piccini)

G. Luca Chiovelli


Presso i Musei Capitolini (31.05.2013 - 12.01.2014) è ancora possibile gustare la mostra Archimede, arte e scienza dell'invenzione, dedicata alla geniale figura del greco di Siracusa, matematico, fisico, ingegnere, esperto militare e maestro, fra gli altri, di Leonardo e Galileo.
Nel post prendiamo in esame una piccolissima parte della sua opera, a metà fra scienza e gioco: lo stomachion è, infatti, allo stesso tempo, uno studio sul calcolo combinatorio e un gioco per bambini conosciuto da tutta l'antichità.

Nel 1204 Costantinopoli fu conquistata e depredata per la prima volta nella sua storia quasi millenaria: da quando, cioè, Costantino il Grande la fondò, nel 330 d. C.


I barbari vennero da Occidente: erano  le truppe della quarta crociata, istigata dal trentaseienne Papa Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni, l’autore del De contemptu mundi, La miseria della condizione umana) con la complicità di Venezia. La spedizione, che non arrivò mai in Terrasanta, si limitò a saccheggiare la capitale dell’Impero che, dopo otto secoli, tramandava e custodiva le conoscenze del mondo classico.

La presa di Costantinopoli si risolse in una spoliazione indiscriminata. I crociati profanarono persino la basilica di Santa Sofia; tesori dell’età romana ed ellenistica andarono perduti per sempre; le biblioteche furono disperse: centinaia di migliaia di volumi, eredità di millenni di scienza e letteratura, svanirono in pochi giorni.

Fra le perdite irreparabili figurano anche i codici di Archimede, uno dei maggiori pensatori di sempre; colui che trovò il valore approssimato del pi greco, formulò i primi rudimenti del calcolo infinitesimale, fu ingegnere (la vite archimedea), fisico (Datemi una leva!), astronomo, studioso di geometria.

A Costantinopoli solo tre libri del siracusano sopravvissero. Due ebbero la sventura di scomparire in Italia, qualche secolo più tardi: il codice A nel 1564, il codice B nel 1311, presso la Biblioteca Pontificia di Viterbo. Il codice C, riscoperto nel 1906, riapparve fisicamente, muffo e malmesso, in un'asta di Christie's, il 29 ottobre 1998. Le pagine del pensatore erano celate in un manoscritto di preghiere medioevali. Il pezzo venne aggiudicato per due milioni di dollari a un facoltoso uomo d’affari che lo donò al Museo D’arte di Baltimora.

Il codice C, redatto proprio a Costantinopoli nel X secolo, contiene sette opere di Archimede; fra esse le poche pagine dello Stomachion di cui, fino allora, si aveva solo un frammento contenuto in un compendio arabo.

La parola stomachion vien fatta derivare da ‘stomachos’, e viene tradotta, più o meno liberamente come ‘irritazione', o ‘mal di stomaco’, o, addirittura, come ‘gioco che fa impazzire’.

sabato 19 ottobre 2013

L'agorà sul pianerottolo (e sull'isola)

Raethia Corsini
Ricordo quando sono venuta a vivere a Roma, otto anni fa. Nel palazzo dove ancora abito decisi di "appropriarmi" del pianerottolo antistante il mio appartamento, per altro unico ad affacciarvisi. Ci installai una libreria che presto riempii di libri di narrativa, guide particolari, illustrati di arte e cultura gastronomica. Scimmiottando quello che avevo visto fare a un'amica di Los Angeles (poi trasferitasi a Bologna) sopra gli scaffali misi un cartello che spiegava: Libera biblioteca del condominio, chi vuole può prendere un libro e tenerselo, oppure riportarlo o portarne un altro. Un invito. Siccome il mio pianerottolo è un passaggio obbligato per accedere alla terrazza condominiale, dove stendiamo al vento e al sole chili di biancheria, notai che per ogni bucato steso, lentamente diminuivano i tomi messi a disposizione. Poi, però, ne arrivavano di nuovi. 
Un giorno un vicino bussò per ringraziarmi entusiasticamente. La Libera biblioteca di condominio è ancora lì e vive ormai in autonomia, alimentata da chi passa, anche con libri in lingua straniera. Un anno fa, un altro condomino della mia stessa scala ha seguito l'esempio, specializzandosi in dvd e cd. Insomma il virus si è insinuato. Esattamente quello che volevo. Incredibile, ma tra le tante recriminazioni e vere e proprie guerre che si scatenano nei condomini, perfino certe volte per uno zerbino troppo invadente, in tutti questi anni nessuno ha avuto da ridire sull'iniziativa da alcuni definita audace. Forse sono finita in un'enclave particolarmente civile, mi sono detta. 

John Berger, instancabile indagatore delle topografie del male

John Berger, Contro i nuovi tiranni
a cura di Maria Nadotti
Neri Pozza 2013, pp. 249, euro 14,90

Paola Splendore

Quanto mai opportuna un’antologia come questa a cura di Maria Nadotti, per presentare – soprattutto ai più giovani – una figura poliedrica di scrittore e intellettuale fra le più interessanti del nostro tempo. Berger scrive con altrettanta acutezza di arte, politica, letteratura e attualità; e lo fa con lo sguardo dell’artista, la parola del narratore e l’impegno del testimone.
I materiali raccolti nel volume – soprattutto saggi ma anche stralci da romanzi, poesie, lettere, diari, resoconti di inchieste, appelli militanti ecc. – coprono un arco di sessant’anni, dal 1958 al 2012. Non sono presentati in ordine cronologico né tematico, ma secondo un ordito che rivela via via la straordinaria vivacità e tenuta di questo autore che ancora oggi,
a quasi novant’anni, ha voglia di scrivere, viaggiare, testimoniare, inviarci i suoi messaggi dal mondo.
Quando nel 1972, dopo l’assegnazione del Booker Prize al romanzo G., Berger decise di trasferirsi in un villaggio di contadini dell’Alta Savoia, dove vive tuttora, volle esprimere il rifiuto dell’establishment letterario inglese, nei confronti del quale era stato comunque sempre un outsider. A Quincy, Berger comincia a fare il contadino, a occuparsi di fienagioni, di api e vitelli, ma continuando a scrivere, a disegnare, a partecipare a suo modo alle vicende del mondo.

venerdì 18 ottobre 2013

mvl teatro: i rinascimenti della crudeltà


Maria Cristina Reggio
Di fronte a un quiz sul legame tra follia, teatro e crudeltà, a uno spettatore diligentemente informato sulle storie del teatro del secolo passato, si accende immediatamente la lampadina del "caso Artaud", l’attore regista e poeta che urlava, anche nei suoi scritti, la sua insoddisfazione di fronte al teatro sentimental-borghese, reclamando una necessaria immersione nei riti antichi e tribali, vicini, ma soprattutto lontani.   Ma se ieri sera al Teatro Eliseo, dove  Jan Fabre riallestiva The Power of Theatrical Madness, uno spettacolo messo in scena nel 1984, il malcapitato spettatore diligente avesse risposto in questo modo alla sadica interrogazione sarebbe stato immediatamente denudato e percosso fino al pianto.

Alla ricerca del lettore perduto

Come è difficile convincere chi non apre un libro neanche a pagarlo, che leggere può essere, anzi è, un'esperienza meravigliosa, una portentosa macchina del tempo e dello spazio, che ti consente di ascoltare voci lontane migliaia di anni o di chilometri, come se fossero accanto a te, dentro di te! Da tanti anni in Italia benintenzionati angeli della lettura si sgolano a ripetere che  "leggere è uno spettacolo ricchissimo", "non è mai tempo perso",  "è un'avventura del pensiero" (cfr. il video di YouTube che raccoglie, a cura di Miria Savioli e Francesca Vannucchi, le campagne audio-video di promozione della lettura dal 1985 al 2010). Ma i caparbi non-lettori resistono, fiutano l'inganno, non si lasciano incantare dalle espressioni ilari dei lettori-promotori che in questi spot saltellano sui prati con il loro bel volume in mano. Sanno benissimo, i non-lettori, che leggere richiede tempo e anche una certa fatica, soprattutto all'inizio, e che ti impedisce (almeno finché sei immerso nella lettura) di fare tante altre cose: una passeggiata con il/la fidanzato/a, una seduta in palestra, la visione di un bel film con gli amici...

Piccolo elogio della traduzione di saggistica


Da oggi a domenica si tiene a Urbino l'undicesima edizione delle Giornate della traduzione letteraria. Abbiamo il piacere di anticipare qui il discorso di ringraziamento di Adtiana Bottini, traduttrice di Charles Simic, V. S. Naipaul, James Hillman e Robert Darnton, che ha vinto il Premio Zanichelli/Giornate della Traduzione Letteraria 2013.
Adriana Bottini
Pur essendomi cimentata anche nella traduzione di testi di narrativa, è alla saggistica che devo i miei inizi di traduttrice, e la traduzione di saggistica rimane il campo che trovo più congeniale e che mi attira oggi con la medesima ingenua motivazione di quando ho cominciato: mi piace l’idea di contribuire con le mie parole a diffondere pensieri che meritano di essere pensati. E ho avuto la fortuna di tradurre nel corso degli anni autori di valore. Sperando di non apparire pomposa, vorrei dunque tratteggiare un mio piccolo Elogio della traduzione di saggistica, che riserva a mio avviso piaceri non meno profondi.

Per esempio offre molte occasioni per quella che è stata descritta come “escogitazione etimologica”: cioè formare / riformare / deformare una parola di uso comune trasformandola in un’altra vicina etimologicamente ma nello stesso tempo portatrice di una sfumatura diversa. Mi viene in mente per esempio la parola “svelatezza”, con cui è stato tradotto un concetto cardine di Heidegger: la parola non compare in alcun dizionario della lingua italiana, ma quella forzatura si è resa necessaria per significare appieno il concetto.

Poi c’è il sentimento caloroso del prendersi cura della lingua dell’autore. Poiché non è detto che un pensatore sia anche uno scrittore, tocca a noi portare a forma compiuta un materiale linguistico non sempre del tutto padroneggiato. Per esempio, specialmente negli scritti autobiografici, può succedere che l’autore si immedesimi troppo nella sua emozione anziché nel racconto dell’emozione: noi dobbiamo allora fornire quella distanza che lui non sa frapporre. Oppure al contrario, dobbiamo aggiungere quella espressività che intuiamo nelle sue intenzioni: come degli attori, che sottolineano con gesti e inflessioni appropriate le parole del copione.

giovedì 17 ottobre 2013

Portelli, l'importanza di un racconto "sbagliato"

Micol Drago
E’ stato un pomeriggio di racconti, quello che il 3 ottobre i lettori di Monteverdelegge hanno passato con Alessandro Portelli. Al centro della lunga tavola della biblioteca Plautilla, c’era un gustoso libro da assaporare, Storie orali (Donzelli, 2013), una raccolta di saggi teorici e di ricerca sul campo che spaziano dalla Terni delle industrie al Kentucky dei miracoli, dalla seconda guerra mondiale alla globalizzazione, dalla memoria al mito fino alla letteratura.
Al principio (della chiacchierata con i lettori monteverdini, come del percorso di ricerca di Portelli) fu il rock… E’ stata infatti la passione per la musica, che conduce negli anni sessanta l'allora giovanissimo studioso a scoprire l’America e la storia orale. 
Nel movimento per i diritti civili la musica è fondamentale, gli spirituals diventano canti di liberazione; ma anche in Italia la canzone popolare è  molto spesso canzone di protesta. Proprio andando in giro a raccogliere le canzoni del movimento operaio ternano, Portelli comincia a rendersi conto che i cantori ex-partigiani e operai non si limitano a cantare, sono anche bravissimi a raccontare. Ma c’è un’altra cosa di cui presto Portelli si rende conto: che spesso i racconti sono “sbagliati”, come spiega nel famoso saggio “L’uccisione di Luigi Trastulli” (contenuto in Storie orali).