lunedì 7 ottobre 2013

Esserci o non esserci, ovvero la scienza della coscienza


Undicesima edizione per BergamoScienza, che dal 4 al 20 ottobre ospita scienziati di fama internazionale, tra i quali i Premi Nobel per la Fisica Claude Cohen-Tannoudji (1997) e Frank Wilczek (2004) e per la Medicina e Fisiologia Jack W. Szoztak (2009). Qui abbiamo il piacere di anticipare una sintesi dell'intervento che Neil Levy, tra i maggiori esperti di neuroetica, terrà il 18 ottobre su un tema cruciale e tuttavia relativamente inesplorato: la coscienza.
 
Neil Levy
A volte la gente fa delle cose incredibili mentre si trova in uno stato di apparente incoscienza. Vi sono parecchi resoconti attendibili riguardanti sonnambuli che avrebbero eseguito azioni complesse come inviare email o soggetti che avrebbero addirittura guidato la macchina dopo aver perso i sensi per una crisi convulsiva. In quegli stati capita persino di commettere azioni criminali: la cronaca riferisce di persone accusate di crimini efferati (dalla violenza carnale all’omicidio) che sosterrebbero di averli compiuti in stato di incoscienza. In alcuni casi tali argomentazioni difensive sono state effettivamente accolte, contribuendo all’assoluzione degli imputati.
È giusto? La perdita di coscienza costituisce davvero una scusante? Di primo acchito risponderemmo probabilmente quasi tutti di sì, ma le nostre certezze inizierebbero forse a incrinarsi se qualcuno ci spiegasse quanto possono essere complesse le nostre azioni inconsce. Ad esempio, Ken Parks (assolto dall’accusa di aver ucciso la suocera per aver commesso il fatto in stato di sonnambulismo) ha guidato per oltre 20 chilometri in condizioni di apparente incoscienza. Potremmo essere tentati a scagionare qualcuno che ha agito in stato di incoscienza perché non aveva controllo sul proprio operato – tanto che alcuni tribunali, uniformandosi a questa posizione, hanno emesso un verdetto di assoluzione nei confronti di imputati sonnambuli – ma proviamo a pensare a quanto controllo occorre per guidare un’auto per 20 chilometri o per inviare un’email…
Forse, dopo esserci resi conto di quanto in questi casi possa essere complesso il comportamento umano, dovremmo riesaminare la questione per decidere se l’assenza di coscienza rappresenti davvero un’attenuante.
Per valutare con tutti i crismi se vada ritenuto responsabile chi compie determinati atti in stato di incoscienza, dobbiamo affidarci alla cosiddetta “scienza della coscienza”. Sebbene moltissimi aspetti della coscienza rimangano ancora un mistero per la scienza, ci siamo ormai fatti qualche idea sul ruolo che essa svolge nel comportamento umano. Un’attenta sperimentazione ha dimostrato infatti che gli esseri umani sono in grado di elaborare e reagire a informazioni senza esserne consci. È possibile dimostrare, ad esempio, che le persone reagiscono a immagini che non hanno realmente ‘visto’ in quanto passate troppo velocemente sullo schermo per essere percepite coscientemente; eppure il fatto che non fossero consce del passaggio di un fotogramma contenente un’immagine agghiacciante non impedirà loro di esibire segni di paura. Ma possiamo altresì dimostrare che le informazioni vengono elaborate da una porzione molto più estesa del cervello nel momento in cui un soggetto ne ha coscienza.
Esiste un gruppo di fibre nervose particolarmente lunghe, gli assoni, che solamente nello stato di coscienza collegano aree cerebrali alquanto distanti fra loro. Nel momento in cui vengono elaborate dagli assoni, le informazioni risultano contemporaneamente disponibili a meccanismi cerebrali diversi. Si tratta di una constatazione molto importante perché i meccanismi cerebrali possono operare in maniera assai autonoma gli uni dagli altri. Ad esempio, se si acquisisce un’abitudine, le porzioni del cervello messe in gioco da quell’automatismo possono operare in modo da indurre il comportamento corrispondente, anche quando non se ne è coscienti e persino quando il compimento di quella azione è inappropriato. Anche se non sono contemporaneamente attivi e consapevoli tutti i sistemi cerebrali che costituiscono la nostra mente, può bastare una piccola area del cervello a innescare un comportamento, volontario o involontario che sia.
Proprio questo meccanismo sembra instaurarsi nel sonnambulismo. In tale condizione di sonno vigile, molte delle regioni cerebrali necessarie per la coscienza registrano livelli di attivazione bassissimi, mentre altre risultano più attive. Il soggetto può quindi rispondere a stimoli connessi ad azioni eseguite più volte in passato, stimoli che innescano la sequenza di istruzioni relative a quell’azione. Ciò significa che l’individuo è in grado di preparare un sandwich, inviare un’email, guidare la macchina o suonare uno strumento musicale. Il soggetto compie l’azione senza passarla al vaglio del proprio repertorio di convinzioni e valori, eseguendola senza soffermarsi a considerarne l’eventuale inappropriatezza in quelle circostanze.
Poiché i gesti richiesti per condurre la macchina sono consuetudinari, siamo capaci di guidare anche in assenza di coscienza. Al contrario, per la maggior parte di noi, accoltellare un’altra persona non rientra fra le attività abituali. Se per Ken Parks fosse stato ‘usuale’, dubito che i giudici sarebbero stati altrettanto clementi. Penso che la spiegazione di quell’atto di violenza vada cercata nel fatto che quando si cerca di svegliare un sonnambulo si rischia di scatenare il cosiddetto ‘terrore notturno’ in cui il soggetto ha l’impressione di essere attaccato. Il che spiegherebbe perché abbia afferrato un coltello e pugnalato la suocera, mentre l’assenza di coscienza chiarirebbe perché non sia stato in grado di valutare correttamente quel gesto alla luce del suo abituale repertorio di convinzioni e valori.
Le neuroscienze ci aiutano a capire cosa succede in uno stato di sonnambulismo, mentre la filosofia ci assiste nel lavoro di valutazione. Ritengo che i giudici abbiano avuto ragione ad assolvere Parks. In un certo senso, non è stato lui ad accoltellare la suocera: quel comportamento non è stato il risultato diretto delle convinzioni e dei valori che costituivano la sua personalità. Non essendo cosciente, non era in grado di cogliere il contrasto fra quel gesto cruento e i suoi valori più profondi. Quel comportamento non è stato opera sua, bensì di una piccola parte degli stati mentali che lo costituivano in quel momento. A meno che non si fosse (coscientemente) inculcato delle abitudini violente, è giusto deresponsabilizzarlo per il crimine compiuto.
(traduzione di Ariella Germinario)

 
Neil Levy parteciperà alla XI edizione di BergamoScienza venerdì 18 ottobre alle ore 18 presso il Teatro Donizetti (Città Bassa) con la conferenza Consapevolezza e responsabilità morale.
Levy si occupa di neuroscienze e filosofia, all' Australian Research Council Future Fellow at the Florey Institute of Neuroscience and Mental Health, Melbourne
Levy è   Deputy Director (Research) of the Oxford Centre for Neuroethics. Ha lavorato in ambiti diversi, con un particolare interesse a problematiche di confine tra neuroscienze and psicopatologie. Ha scritto molto su etica e neuroscienze, così come sulle implicazioni filosofiche della ricerca sul cervello. E' autore di sette libri Neuroethics (Cambridge University Press, 2007), Hard Luck (Oxford University Press, 2011) and the forthcoming Consciousness and Moral Responsibility (Oxford University Press). E’ anche caporedattore della rivista Neuroethics.

Nessun commento:

Posta un commento