domenica 5 maggio 2013

Olivetti, il sogno di un uomo proiettato nel futuro

Ti racconto un libro
Adriano Olivetti, Democrazia senza partiti, Edizioni di Comunità, pp. 80, euro 6

Anna Marendino
Democrazia senza partiti è un saggio di Adriano Olivetti pubblicato dalla casa editrice Edizioni di Comunità per la prima volta nel 1949 e ripubblicato nel 2013 con una illuminante introduzione di Stefano Rodotà.
Olivetti nacque nelle vicinanze di Ivrea l’11 aprile 1901 da padre ebreo e madre valdese, origini che lo portarono a opporsi al regime fascista con momenti di militanza attiva (partecipò con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e altri alla liberazione di Filippo Turati). Fu un protagonista dell’industria italiana e unì alle capacità manageriali un'instancabile sete di ricerca e di sperimentazione su come si potesse armonizzare lo sviluppo industriale con l'affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, dentro e fuori la fabbrica. Fondò, tra le altre cose, la rivista e il movimento di Comunità, con il quale riuscì a essere eletto in Parlamento nel 1958. Nel 1956 fu eletto sindaco di Ivrea. Studioso di urbanistica, diresse il piano regolatore della Valle d'Aosta e fu anche presidente dell'Istituto nazionale di urbanistica. Il 27 febbraio 1960 morì prematuramente durante un viaggio in treno da Milano a Losanna.
Come afferma Rodotà nella prefazione, Democrazia senza partiti non è un manifesto di antipolitica, ma un richiamo a un’identità autentica tra politica, tecnica e valori spirituali. «Questo scritto è una difesa appassionata di una dignità che la politica non può abbandonare e che trova il suo alimento in grandi idealità, in passioni profonde, in opportunità concrete, perché la persona riesca a esprimersi pienamente come cittadino». Non a caso il libro esce nell’immediato dopoguerra, in un periodo di grande fermento politico e culturale che darà vita alle nuove costituzioni, quella italiana del 1948 e quella tedesca del 1949, e che per l’autore rappresenta il momento di conversione al cattolicesimo.

Nella parte iniziale e finale il testo è una critica ai partiti politici: Olivetti ritiene che l’Italia proceda nel compromesso, nel trasformismo, nel potere burocratico, nelle grandi promesse e nelle modeste realizzazioni. “Gli uomini rovinano i partiti ed i partiti non aiutano il progresso degli uomini”. Un problema, tuttavia, non inedito per Olivetti: già Marco Minghetti (1818-1886, appartenente alla destra storica) aveva visto nel decentramento amministrativo il primo atto per attenuare gli inconvenienti del regime parlamentare che, come governo di partito, porta a favoreggiare gli amici e opprimere gli avversari. Da allora, però, i tentativi di trovare una soluzione non sono andati nel senso del federalismo, ma verso una concezione autocratica del potere con una conseguente limitazione della libertà e dei diritti della persona, come aveva dimostrato il ventennio fascista.
La critica di Olivetti, sottolinea Rodotà nell’introduzione, si rivolgeva al partito dell’età liberale e alle degenerazioni politiche e parlamentari che esso aveva prodotto. Al momento della scrittura, però, è una tipologia che non esiste più, sostituita dal partito di massa. Inoltre, osserva sempre Rodotà, la repubblica dei partiti, che appare a Olivetti sospetta pur nel suo rifiuto dell’antipolitica, durante la costituente aveva, in effetti, rappresentato un forte strumento di coesione e di garanzia.
Nel duello tra il cattolicesimo, che tende a spostare il dominio politico verso i tecnocrati e le classi meno numerose di professionisti e possidenti, e il comunismo, che vuole instaurare la dittatura di classe, Olivetti ritiene troppo debole anche la terza via, del socialismo democratico, che ai suoi occhi si era tradotto in una pluralità di partiti, subendone di conseguenza la corruzione, così come era accaduto nella chiesa cattolica con la sua divisione in sette. Nella crisi del parlamentarismo e della democrazia, che pur esisteva allora come oggi, la politica secondo Olivetti tendeva alla rappresentanza di gruppi sociali e al corporativismo, ovvero “una cattiva soluzione ad una giusta esigenza”. Evidente la critica anche alle forme organiciste, oggi rappresentate dai movimenti di massa, che, riconoscendo il parlamento e la democrazia non più espressione della realtà sociale, avrebbero voluto chiamare in rappresentanza gli esponenti delle professioni, delle arti e di una serie di categorie sociali comprese le famiglie, giungendo a una forma complessa e disordinata con preoccupante falsificazione del sentimento e della volontà popolare.
Nella parte centrale del testo Olivetti opera una sintesi di quanto aveva scritto nel saggio L’ordine politico delle Comunità.
L'autore ritiene che il progetto di una società unita nella consapevolezza della centralità dei valori dello spirito e della cultura sia ancora incompiuto. Il comunitarismo radicale di Olivetti è ben più esigente delle dosi comunitarie inserite nella costituzione del 1948. La necessità di una nuova società lo spinge a considerare d’intralcio qualsiasi organizzazione dello stato diversa dal modello di comunità, i cui elementi primari sono: ordini politici, sullo stile di quelli religiosi, e una democrazia integrata.
Olivetti individua una nuova idea di sovranità che, sottolineando il primato dello spirito sulla materia, si distacca dall’idea di sovranità come sinonimo di suffragio universale, propria della rivoluzione del 1789. Lo Stato, per l’autore, prende forma e vita dalla Comunità. I centri comunitari, che sono le cellule democratiche, creano insieme le comunità, le comunità lo Stato. Ma Olivetti ha ben chiaro che possibili sono le degenerazioni e tal fine auspica che vi siano regole, dispositivi e istituzioni. Una costruzione complessa, dunque, nella quale ogni valore è inserito nelle giuste proporzioni, un sistema di equilibri analogo a quello dell’architettura, di vitruviana memoria. Il baricentro si sposta, quindi, dalla libertà individuale al rispetto della dignità e vocazione della persona. Autorità come autenticità di mandato: consenso, quindi, ma anche controllo. Limitazione del potere, nel senso montesquieuiano di controllo necessario ad evitare l’abuso. Ordinamento della comunità secondo la vocazione di ognuno in contrapposizione a uno Stato in cui non si favoriscono le migliori tendenze dei singoli. Del resto, come affermava Platone, uno Stato che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di sapienza da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente di degenerare.
La comunità per Olivetti ha poi bisogno di spazi, che consentano un rapporto con la natura in contrasto con la città come agglomerato informe. Il progresso tecnologico non va accettato in modo incondizionato, ma deve essere indirizzato alla costruzione di un mondo materialmente più realizzato e spiritualmente più elevato, ad una società a misura d’uomo.
Pur partendo dall’idea dell’uomo imperfetto, Olivetti auspica un governo dei giusti e ritiene che il movimento comunità abbia funzione temporanea perché una volta annullatosi nelle forme a cui ha dato vita diverrebbe non più necessario. Egli prefigura infatti un disegno di società con uno spostamento dallo Stato a un contesto ispirato dalla provvidenza di Dio, che non implica la sottomissione dello Stato laico all’autorità religiosa ma riconosce lo spirito dei contenuti eterni del vangelo. In questa visione è possibile ritrovare una contemporaneità laica nel recupero della partecipazione dei cittadini alla realizzazione della cosa pubblica, come ben chiarisce l’art. 49 della costituzione. “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Se la democrazia integrata, come comunità concreta a base territoriale con un ordine funzionale, può senz’altro rappresentare una buona suggestione, l’idea di un governo dei giusti appare invece piuttosto debole. Il male, purtroppo, come afferma Franco Cassano nell’illuminante L'umiltà del male, “è molto creativo e raramente ritorna su chi se ne è servito”. E tuttavia la candidatura di Ivrea a sito UNESCO rappresenta tangibilmente il riconoscimento di una esperienza eccezionale, nella quale un grande imprenditore seppe lavorare osservando la società nel suo complesso e impegnandosi in prima persona per la sua trasformazione.

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