martedì 30 aprile 2013

L'Africa a Villa Pamphili

Una maratona aperta a tutte le età si terrà domenica 5 maggio a Villa Pamphili, dalle 9 alle 19 con partenza da via Vitellia 102, durante la giornata promossa dalle associazioni di Roma XVI con l'Africa. Alla gara di 5 e 3 Km partecipano anche le scuole romane che hanno organizzato le Monteverdiadi (monteverdiadi@libero.it) .
Oltre alla corsa curata dall'Aics, "In festa con l'Africa per il diritto di cittadinanza" (questo il titolo della manifestazione, che è arrivata quest'anno alla sua nona edizione) ospita esposizioni di artigianato africano e vari progetti avviati dalle associazioni di Roma promotrici dell'iniziativa e nel pomeriggio (dalle 16 ale 18) anche un concerto di ritmi, percussioni e danze africane.
Le letture africane di Monteverdelegge dal 2008 a oggi: Il crollo di Chinua Achebe, Palazzo Yacoubian di Ala Al Aswani e Gli Stati Uniti d'Africa di Abdourahman Waberi.

lunedì 29 aprile 2013

Adriano Olivetti, "Democrazia senza partiti"


Pubblichiamo qui l'incipit della presentazione di Stefano Rodotà al volume Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti (Edizioni di Comunità), uno dei testi proposti nel primo incontro di Ti racconto un libro (Plautilla, lunedì 29 aprile 2013).
Stefano Rodotà
Quando, nel 1949, Adriano Olivetti pubblica Democrazia senza partiti, il “moderno principe” si è già fortemente insediato nel sistema politico italiano e ha trovato il suo riconoscimento istituzionale nell’articolo 49 della Costituzione, dove si afferma appunto che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Varrà la pena di tornare su questa formulazione che, considerando il partito dal punto di vista dei cittadini e vedendolo come strumento della loro partecipazione, costruisce un modello assai lontano da quello che, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo conosciuto. Ma, considerando lo scritto di Olivetti, conviene segnalare subito la sua struttura: si apre e si chiude con una esplicita discussione critica dei partiti, mentre la parte centrale si presenta come una sintesi di quanto era già stato scritto, nel 1945, ne L’ordine politico delle comunità. Questa struttura induce a concludere che proprio nei partiti egli vedesse l’insidia maggiore sulla strada del nuovo ordine politico da lui vaticinato. Considerando la nuova stagione della critica dei partiti, è d’obbligo chiedersi quale sia la parentela tra la critica olivettiana, quella precedente (alla quale egli stesso si richiama, citando Minghetti, Gioberti, Rosmini e poi Gobetti) e quella attuale, che assume spesso i modi e le forme dell’antipolitica e approda ai lidi della democrazia plebiscitaria o autoritaria.. Nessuna – vien fatto di rispondere. E tuttavia questa affermazione richiede d’essere in qualche modo argomentata. Le critiche, alle quali si fa riferimento nelle pagine iniziali, in realtà hanno ad oggetto il partito dell’età liberale e le degenerazioni politiche e parlamentari che esso aveva prodotto. Ruggero Bonghi, autore di un saggio su I partiti politici nel Parlamento italiano, aveva scritto nel 1868 (lo stesso torno d’anni in cui scriveva Minghetti): “non un impiego conferito senza raccomandazione di deputati, non una promozione, quasi, accordata senza vista dell’interesse politico (...); non un contratto stipulato dal governo, senza che chi lo stipula fosse presentato da un deputato”.
Parole che sembrano di oggi e che trovano echi in più d’una espressione adoperata da Adriano Olivetti. Ma quel modello di partito, quando Olivetti pubblicava questo saggio, era già stato sostituito dal partito di massa, a proposito del quale in questo scritto non v’è traccia di una ben diversa critica – quella di Mosca e Pareto, di Sorel e Michels. Si può ritenere che questa omissione nascesse da una sfiducia profonda nei confronti del partito in quanto tale, quali che fossero le forme che veniva assumendo. Quella che verrà chiamata “la repubblica dei partiti” gli appariva comunque sospetta fin dal suo apparire. Se, tuttavia, si vuole stabilire quanto quella valutazione pessimistica abbia poi avuto riscontri nella realtà, si dovrebbe tener conto delle molte ricerche che hanno messo in evidenza come nella fase costitutiva della democrazia repubblicana proprio quel sistema dei partiti si sia rivelato come un forte strumento di coesione e di garanzia dei diritti sì che, come scrive in un bel saggio Mariuccia Salvati, “in Italia la crisi della repubblica dei partiti lascia un vuoto che è sia istituzionale che costituzionale: l’ondata di antipolitica, populismo, astensionismo che si inserisce in questo vuoto rischia di minacciare l’intero equilibrio democratico”. Muovendo proprio da questa considerazione, è agevole concludere che la critica ai partiti di Adriano Olivetti non ha nulla a che spartire con le ripulse di questi tempi, perché l’ordine politico delle comunità, nel cui contesto quella critica si svolge, è alieno da pericolosi scivolamenti verso le suggestioni del no alla politica o del rifiuto d’ogni mediazione tra cittadini e governanti, proprio perché le comunità sono la sede dell’elaborazione politica e della mediazione sociale.

domenica 28 aprile 2013

Un mischiadischi a Capo Verde


Ti racconto un libro
Marco Boccitto, Capo Verde. Un luogo a parte
pp. 192, euro 12,90

Maria Teresa Carbone
I sempre più numerosi portoghesi che cercano di sfuggire alla crisi emigrando in Mozambico non hanno probabilmente letto quel libro curioso, a metà tra romanzo e pamphlet, che è Gli Stati Uniti d'Africa di Abdourahman Waberi, in cui le sorti economiche del pianeta sono capovolte e a correre disperati verso i ricchi lidi africani sono gli europei ridotti alla fame. Eppure, da mesi si assiste a un movimento inverso a quello che ha caratterizzato gli scorsi decenni, e se i giovani diplomati e laureati di Lisbona – speranzosi di trovare a Maputo opportunità di lavoro impensabili oggi in patria – non viaggiano su vecchi barconi, è indubbio che la Tap, la compagnia aerea portoghese, ha visto moltiplicarsi nell'ultimo anno i passeggeri diretti verso la capitale mozambicana. Lo riferisce un articolo sul  “Jornal de Negócios”, i cui autori, Celso Filipe e Maria João Babo, riportano dati ancora più significativi: secondo il ministro del lavoro del Mozambico, nel 2011 risiedevano nel paese 4.355 portoghesi, mentre oggi si parla di circa 25.000 persone, molte delle quali probabilmente dovranno ripartire perché, nota Diogo Gomes de Araújo, presidente esecutivo della banca di sviluppo statale Sofid, Maputo “è sempre più cara” e qui come altrove “la vita è dura per i disoccupati”.
Paradossale destino per quello che fu il primo impero coloniale a formarsi e l'ultimo a sgretolarsi, dopo lotte lunghe e sanguinose, nella prima metà degli anni Settanta, in parte anticipando, in parte in coincidenza con la Rivoluzione dei garofani del '74. Una storia tortuosa e frammentata, quella delle diverse (ex) colonie del Portogallo, ognuna delle quali fa storia a sé e all'interno della quale il caso di certo più singolare è quello dell'arcipelago africano di Capo Verde: Un luogo a parte, come lo definisce il titolo di un libro in cui Marco Boccitto, giornalista e conduttore radiofonico, è riuscito a calare con una rara miscela di divertimento e di erudizione la sua esperienza di “mischiadischi itinerante”, dedito ad ascoltare e a far ascoltare musica “da una prospettiva spudoratamente afrocentrica” (Exòrma).

venerdì 26 aprile 2013

"I miei genitori", un dialogo con Nicola Lagioia

Giovedì 11 aprile Nicola Lagioia ha partecipato da Plautilla a un incontro, che ha preso spunto dal suo racconto I miei genitori, appena uscito per Einaudi solo in formato digitale. Ecco alcuni momenti della conversazione.

I miei genitori è uscito in ebook all'interno di una nuova collana di Einaudi, I Quanti, destinata appunto solo al supporto digitale. Il racconto è stato scritto su commissione?
No, Einaudi mi ha semplicemente chiesto un testo breve da inserire fra quelli che avrebbero inaugurato la collana e io ho  proposto questo, che era già pronto. Era comunque inedito, così come quello di Tiziano Scarpa, che è uscito in contemporanea, mentre gli altri titoli della collana, di taglio saggistico, erano già usciti su carta. In effetti, questa collana di ebook è un po' un esperimento: l'editoria digitale in Italia copre ancora una parte minuscola del mercato, meno dell'un per cento, mentre negli Stati Uniti sembra corrisponda già a più di un quarto del settore editoriale. Così le case  editrici italiane vogliono fare qualcosa, ma senza rischiare troppo.

Quando è stato scritto il racconto? 
Io sono un autore di romanzi, ma tutte le volte che pubblico un nuovo libro, dopo il periodo dedicato alla sua promozione, scrivo qualche racconto. Si tratta, in alcuni casi, di "false partenze": credo di avere trovato lo spunto per un romanzo, butto giù magari trenta o quaranta pagine e poi mi accorgo che è impossibile andare avanti. Anche ne I miei genitori c'è l'embrione di un romanzo che poi non si è sviluppato: l'ho scritto dopo Riportando tutto a casa e mi piaceva l'idea di ritornare negli stessi luoghi, ma in un periodo precedente, dagli anni Ottanta all'inizio degli anni Settanta.

Il titolo del racconto, I miei genitori, lascia pensare che l'io narrante sia un figlio, i cui ricordi familiari occupano il centro del testo. In realtà, però, questa figura non appare.
Ho scelto un titolo volutamente ambiguo: nel racconto infatti compaiono due bambini o meglio, ce n'è uno solo, il figlio del protagonista, a cui del resto si accenna appena. Il secondo bambino non solo non compare, ma viene evocato semplicemente come una potenzialità, nel momento in cui Gioia fa il test di gravidanza. Eppure per molti lettori proprio lui è l'ipotetico io narrante del racconto. Per me invece è l'altro ragazzino, il figlio di Antonio e di sua moglie, ricoverata in un reparto oncologico, ma non mi dispiace il fatto che ci sia questo margine di dubbio.

Uno dei temi del racconto sembra essere il rapporto fra le figure dei due protagonisti, che sembrano incapaci di prendere vere decisioni e la natura che li circonda, molto più potente di loro, come in un "sogno di mezza estate". 
E' proprio così: l'intero racconto si svolge nell'arco di una notte d'estate, durante la quale Antonio e Gioia  si muovono come pupazzi,  possedendo pensieri e sentimenti, ma in realtà lasciandosi trascinare da quello che sta accadendo loro. Quando una persona è innamorata, è in certo senso posseduta da questo sentimento più grande di lei.  E questo Shakespeare lo ha saputo descrivere come nessun altro, con i suoi innamorati che si rincorrono nel bosco fatato, senza vedersi e senza mai capire quello che succede. 

Ci sono scrittori secondo i quali i personaggi vivono di vita propria, guidando la mano dell'autore. Antonio e Gioia appartengono a questa "famiglia"?
Beh, sarebbe bello se  a un certo punto lo scrittore potesse mettere il pilota automatico e procedere senza sforzi, ma almeno per me non è così. Posso dire però che quando un personaggio è sufficientemente delineato, la gamma di scelte dei suoi possibili comportamenti si restringe naturalmente. Forse anche per questo preferisco scrivere romanzi perché in un romanzo tutto è molto più concentrato, puntato verso l'interno, mentre il racconto si apre verso l'esterno. Questo ovviamente non implica una scala di valori: si tratta di forme diverse, che si aprono entrambe alla possibilità di scrivere capolavori, come dimostrano gli splendidi racconti di Cechov o, nei nostri tempi, di Alice Munro. 


L’arte della viva voce

(alcuni suggerimenti pratici per la lettura ad alta voce di un testo letterario)

Paolo Morelli
  1. Forse da che esiste il mondo, tutti possiedono un orecchio abile, pronto ad accogliere la malìa nascosta nelle parole, solo da pochi decenni esso sembra otturato. L’orecchio per le parole della letteratura non dipende dal sapere culturale, bensì dalla tendenza naturale alla socialità.
  2. Per liberare l’orecchio dalla sua recente occlusione non c’è altro mezzo che la pratica della lettura ad alta voce e dell’ascolto.
  3. La lettura ad alta voce di testi letterari è da considerare al pari di un atto di teurgia, volto a suscitare in chi ascolta echi di riconoscimenti profondi. È pure un’arte curativa che può essere esercitata su sé stessi.
  4. La lettura ad alta voce di testi letterari è una pratica efficace che tutti possono coltivare, tranne gli attori, in quanto essi fin da principio sbagliano l’approccio, tagliandosi fuori da ogni possibile prodigio.
  5. Per leggere ad alta voce è necessario ripristinare l’attenzione all’atto di respirazione. La cura della pratica respiratoria dovrebbe essere insegnata ai piccoli prima dell’alfabeto, o meglio ricordata, perché diventare consapevoli del proprio respiro è per un neonato il primo gesto di autonomia culturale. Anche un buon lettore gliela ricorderà.

giovedì 25 aprile 2013

Nell'estetica di Newton l'edonismo della nuova borghesia

Il primo scatto d’autore di Helmut Newton, un nudo dell’attrice Charlotte Rampling, è così descritto: “La linea sinuosa della schiena, con lo sguardo fisso in camera. Nuda, vestita solo della sua bellezza, tra l'opulenza di un arredamento d'alto antiquariato”. Una notazione preziosa poiché riassume in un guscio di noce tutta l’estetica del fotografo berlinese (e americano d’adozione), turgida di cattivo gusto e altrettanto vincente nell’assecondare il montante edonismo delle nuove classi borghesi.
Non sappiamo se fu cosciente di tale complicità (in tal caso fu uomo assolutamente astuto) o se fu uno dei casi in cui l’esprit du temps riesce a concretarsi nella produzione individuale di un artista di sensibilità superiore. In entrambi i casi va riconosciuto alle sue creazioni un rilievo sociologico e documentario di assoluto livello pur nell’insignificanza artistica.
Fu sicuramente un precursore. Egli nacque nell’ambiente della moda (pubblicò in gran parte su Vogue) e, quindi, della pubblicità; e dalla pubblicità trasse l’unica, ma potentissima linea guida del proprio operare: épater le bourgeois, sbalordire il borghese, la nuova massa. In pochi anni, infatti, a partire dalla metà dei Sessanta, in tutto il mondo occidentale (con ritardi più o meno accentuati fra le varie nazioni), i ceti medi abiurano definitivamente le vecchie ideologie di riferimento (famiglia, stato, religione) sostituendovi un  permissivismo consumista e totalizzante. Il borghese si ritrova quindi libero da reticenze e lacci morali fino a poco tempo prima asseriti da autorità secolari: il nuovo cielo è libero da nubi; ciascuno può osare tutto, purché consumi, ovvio.
Newton attizza le pulsioni del nuovo individuo in libera uscita dall’antico ordine morale sostanzialmente in due modi.

martedì 23 aprile 2013

Barcellona, sant Jordi

Libri, rose e spighe di grano ovunque a Barcellona per la festa di San Giorgio, Sant Jordi, che coincide con l'anniversario della morte di Shakespeare e Cervantes.

domenica 21 aprile 2013

mvl Teatro: Danco, il mondo mediato dal Corpo

Patrizia Vincenzoni
Il rapporto con sé e con il mondo mediato dal Corpo è il filo conduttore dei due atti unici (Donna numero 4 e Nessuno ci guarda) scritti e recitati da Eleonora Danco, in prima nazionale al Teatro Vascello di Roma dal 16 al 21 aprile Nel primo, il cibo è l'elemento che scandisce il contatto con la realtà interna ed esterna in un andirivieni convulso fatto di dialoghi brevi, improvvisi, definitivi nelle domande e risposte che agitano il mondo interiore del personaggio femminile ritratto. È un corpo abitato dal bisogno di controllare i modi e i contenuti relativi all'assunzione di responsabilità che illusoriamente viene attribuita al cibo, alle cose che si mangiano. Un soggetto disincarnato che lotta per non acquisire memorie emotive che danno identità psicocorporea. La convinzione di sentirsi adulta solo attraverso definizioni tratte dal latino, l'evitamento ossessivo di produrre errori tratteggiano un personaggio alienato che intrattiene un dialogo disperato con l'ambiente circostante .
I testi della Danco sono costante ricerca di una comunicazione con il mondo interiore, affondi verso un contatto con l'inconscio inteso come possibilità di rappresentare il soggetto nel suo complesso, di interrogarlo senza fare sconti. Lo spazio scenico, vuoto, ha un confine segnato dalle luci che lo dividono dalla parte buia del palco, quasi a sottolineare la presenza del mondo dell'inconscio che va attraversato per fermare il flusso incontenibile della coscienza che agita parole e paure esistenziali. Sostare così alcuni attimi in quella area 'psichica' del palcoscenico è come sottrarsi alla mancanza di senso del limite, di confini sicuri fra sé e quel mondo sociale e urbano che rimanda questa mancanza attraverso i suoi eccessi di cose, di odori, di cibo da mangiare presente ovunque e sostitutivo impossibile di altre forme di socialità aggregante.

sabato 20 aprile 2013

Come pecore al macello, l'olocausto dimenticato

G. Luca Chiovelli
Di uno degli uomini decisivi dell’Occidente si conosce a malapena la data di nascita (1447 o 1451?); si sa che morì in disgrazia; se ne ignorano persino le fattezze poiché nessun artista ritenne rilevante effigiarlo in vita: il più famoso ritratto, di Ridolfo del Ghirlandaio, è assolutamente infedele se prendiamo per buona la descrizione che del granduomo ci fa il figlio Fernando: “viso lungo, zigomi sporgenti, naso aquilino, capelli bianchi già a trent’anni”. Genovese, fu al soldo dei francesi proprio contro gli spagnoli e i genovesi, poi al soldo degli spagnoli stessi, fu corsaro e commerciante di schiavi africani nonché splendido bugiardo (falsificò la propria genealogia riannodandola a un tal Colo, in realtà Cilo, console romano dell’epoca di Tacito); si sposò in Portogallo, poi si recò in Spagna dove deitalianizzò il proprio nome da Cristoforo Colombo in Cristóbal Colón. Si interessò di cartografia e cosmografia, studiò Aristotele, Marino di Tiro, Tolomeo, Plinio. Navigatore straordinario, mosso da una febbrile ansia di predestinazione dettatagli dalle profezie di Isaia e Esdra, sognava il passaggio breve per le Indie e per l’Asia di Marco Polo, per il Catai e la Cipango dai tetti d’oro (ovvero la Cina e il Giappone).
Il 12 Ottobre 1492 il convertito (dall’Islam) Rodrigo Bermejo de Triana avvistò dalla Pinta l’attuale costa di San Salvador nelle Antille. Lo sbarco vien fatto coincidere storicamente con la nascita dell’evo moderno. In realtà le tre caravelle di Colombo furono le prime cellule tumorali destinate a metastatizzare prima le Antille, poi il Messico, l’America centrale, le Ande, il Brasile, infine il Nord America.

venerdì 19 aprile 2013

Saviano pulp

Ti racconto un libro
Roberto Saviano, ZeroZeroZero
Feltrinelli, pp. 444, euro 18

Riccardo De Gennaro
Spesso chi scrive lo fa per liberarsi da un'ossessione,  Roberto Saviano per alimentarla. La sua ossessione non è la cocaina, che pure vede ovunque e che - a suo dire - muove il sole e le altre stelle, ma l'esistenza del male e di tutte le forme di distruzione e di autodistruzione collegate. 
Le prime righe, in esergo, che il lettore poteva leggere dopo aver aperto Gomorra erano di Hannah Arendt e dicevano: «Comprendere cosa significa l'atroce, non negarne l'esistenza, affrontare spregiudicatamente la realtà», una sorta di dichiarazione politico-programmatica del suo lavoro prima ancora che Saviano diventasse «Saviano». Con il suo nuovo libro-inchiesta, Zero zero zero, edito non più da Mondadori ma da Feltrinelli (pp. 444, euro 18) e atteso per sette anni dal suo pubblico, Saviano prosegue la sua indagine sulle strade del male, che questa volta lo conducono fuori dai confini nazionali, attraverso innumerevoli diramazioni nei cinque continenti. 
C'è passione, ma anche un eccesso di enfasi e un po' di retorica (più bravo con le anafore che con le metafore) nella scrittura di Saviano, il quale in più punti sembra quasi abbia la tentazione, come per un'attrazione tra poli opposti, di aderire ai modelli negativi che descrive, di giustificare i peggiori criminali (hanno avuto tutti un'infanzia difficile), di cercare in continuazione l'immagine più cruenta, perlomeno più cruenta della precedente (dall'omicidio con il machete al massacro con la motosega, come nel cinema pulp di Tarantino). C'è sempre un metodo più atroce per l'umiliazione e l'eliminazione del nemico rispetto a quello descritto poche righe prima, c'è sempre - come se si trattasse di un torneo dell'orrore, dove in palio ci sono il rispetto, il dominio e l'ergastolo - un boss mafioso (siciliano, calabrese, italo-americano, russo, nigeriano, messicano, colombiano...) in grado di sorpassare gli altri per violenza e crudeltà, fino ai «kaibiles» guatemaltechi nei quali, dopo soli due mesi di addestramento, «tutto ciò che c'è di umano scompare» (poco importa che siano militari e non criminali).

giovedì 18 aprile 2013

Balestrini: Sperimentare sperimentare sperimentare...


Maria Teresa Carbone
Il Gruppo 63 ha cinquant'anni. I giovanotti che circondavano Giuseppe Ungaretti in una fotografia divenuta celebre sono per lo più – quelli che ci sono ancora – distinti signori carichi di onori e di riconoscimenti. Eppure, a leggere certi articoli usciti per la ricorrenza (che sarà celebrata in autunno con un convegno, come con un convegno in autunno tutto è cominciato), viene da pensare che, mezzo secolo dopo, quel “Facciamoli incazzare” di Nanni Balestrini da cui, stando alla testimonianza di Umberto Eco, nacque la decisione di dar vita al Gruppo, rimanga una parola d'ordine esplosiva, come se la spinta iconoclasta di allora non si fosse esaurita.
Possibile? chiedo a Balestrini, che in questi cinquant'anni ha scritto decine di libri tra romanzi e poesie, ha avviato riviste su carta, in rete, in tv, ha coagulato intorno a sé giovani autori e critici, ha sviluppato un'attività sempre più intensa di artista visivo, senza mai sfilarsi il suo manto di soave pigrizia (e senza neppure negarsi qualche capitolo di vita avventurosa).
Come è possibile che ancora oggi, intorno a un'occasione tutto sommato polverosa come un anniversario, il Gruppo 63 abbia il potere di far incazzare?
Forse, per capire, bisogna ricordare che il Gruppo 63 è nato da una spinta incredibilmente forte. In effetti, tutto era cominciato prima, alla fine degli anni '50, con Luciano Anceschi, che aveva avuto il coraggio di chiamare dentro la sua rivista, “il Verri”, una quantità di giovanissimi molto diversi fra loro, ma accomunati da un rifiuto radicale delle generazioni precedenti, ormai fuori dalla storia. In Italia c'erano state enormi trasformazioni economiche e sociali: il paese, da agricolo, era diventato industriale; le migrazioni interne portavano a un rimescolamento di cittadini mai visto; nascevano le metropoli, luoghi dove le persone non si conoscono ma comunicano e mettono a confronto tradizione, cultura, lingua. Del resto, la lingua italiana, quella che parliamo oggi, è nata con l'immigrazione, la scuola dell'obbligo, la tv. A farla breve, una trasformazione così in Italia non c'era stata dai tempi di Roma antica. E noi ci trovavamo nel mezzo di questo cambiamento, e dato che lavoravamo con il linguaggio, non potevamo non vedere che gli scrittori della generazione precedente ignoravano questa società, parlavano di contadini e di villaggi, non avevano idea di cosa fossero le tecnologie e, soprattutto, scrivevano nella lingua di Manzoni. E allora ci siamo detti: che fare? E la risposta è stata: sperimentare.

lunedì 15 aprile 2013

Ex Press: (Ri)letture a Barcellona

M. T. C.
A Barcellona, in carrer del Rosselló, 158, si è aperta di recente  una libreria dove si vendono volumi di seconda mano a prezzi fissi. Re-Read - questo il nome della libreria, ben diversa nell'aspetto dai tradizionali negozi di libri usati - conta oltre 5.000 titoli: romanzi, testi di storia e di filosofia, volumi per bambini, gialli, scienza, viaggi: “Da Re-Read  – spiega la proprietaria, Mercedes Zendrera – rivendiamo i libri che abbiamo comprato a un prezzo molto contenuto dai clienti: gente che arriva con volumi da vendere, ma anche abitanti della zona che desiderano liberare i propri scaffali. L'idea di base è comunque quella di dare nuova vita ai libri". Per gli acquirenti ogni volume costa 3 euro, un prezzo che cala se i clienti comprano più libri (due libri costano 5 euro e cinque libri 10 euro). In precedenza Zendrera  lavorava alla libreria Baibars, specializzata in lingue e culture e colpita duramente dalla crisi: “Eravamo in troppi, per questo abbiamo deciso di aprire un altro negozio e di trasferire parte del personale al nuovo locale”.  

domenica 14 aprile 2013

Federico Caffè, un'intervista impossibile


I ragazzi e le ragazze della classe 1 C Econ. dell’I.I.S. Federico Caffè hanno intervistato il celebre economista che ha dato il nome alla loro scuola e che scomparve esattamente ventisei anni fa, il 15 aprile 1987. Il file audio è disponibile in  http://www.federicocaffe.com 

Ed ecco il testo dell'intervista impossibile:
D. Buongiorno professor Caffè, posso farle qualche domanda?
R. Si, certo

D.  Per cominciare ci vuole parlare delle sue origini?
R. Sono nato a Pescara il 6 gennaio del 1914. Provengo da una famiglia umile di contadini abruzzesi. Mia madre ha sempre lavorato duramente per mantenermi agli studi, pensate che è arrivata addirittura a vendere un pezzetto di terra per poter sostenere le spese per l'Università a Roma. Le sarò  sempre grato per questa scelta coraggiosa e per aver sempre creduto in me.

D. In che cosa si è laureato e quali sono state le sue prime esperienze professionali?
R. Mi sono laureato nel 1936 in Scienze economiche e commerciali all'Università di Roma. In quella stessa Università ho svolto il ruolo di assistente e, successivamente, ho lavorato per la Banca d'Italia e ho collaborato con diverse case editrici.

D. Lei ha dedicato la sua vita all'insegnamento, che cosa ricorda del suo rapporto con gli studenti?
R. Alcuni dei miei allievi, come Mario Draghi, Ignazio Visco e Giuseppe Ciccarone, hanno raggiunto posizioni di rilievo. Penso di essere stato un maestro severo, esigente, ma sempre attento a non forzare le inclinazioni dei singoli e sempre pronto ad incuriosirmi alle proposte dei miei allievi. Ho cercato di insegnare alle giovani generazioni che il compito dell'intellettuale èquello di rimanere fedele al dubbio sistematico come appropriato antidoto alla riaffermazione intransigente di cui spesso si finisce di essere prigionieri.

Bonvissuto, "Dentro" un paese svuotato di senso

G. Luca Chiovelli
Il carcere (il tema del più interessante dei tre racconti del libro: Il giardino delle arance amare) è, da sempre, una delle metafore più stringenti della condizione umana e degli inappagati aneliti dell’esistenza. Gramsci, Wilde, Dostoevskij, Settembrini, Salamov, Primo Levi, Pellico, Hikmet, François Villon scrissero dalla prigione; e Dante, Machiavelli, Seneca, Cavalcanti, Cicerone, Catullo lontano dalla patria. Fra i numerosissimi. Infatti, in modo apparentemente contradditorio, il carcere diviene anche luogo di poesia poiché l’esilio dalla socialità, e il silenzio dal clamore del secolo, spingono irresistibilmente sia all’inventario drammatico della propria esistenza sia ad una considerazione spietata e cristallina dell’esistenza umana – considerazione altrimenti impossibile se coinvolti nel flusso quotidiano delle amicizie, degli amori, delle conoscenze, degli obblighi. La limitatezza della prigione, quindi, con le sue tetre ripetizioni e i miserevoli espedienti per la sopravvivenza, finisce per stimolare una sorta di ripensamento stoico, filtrato da una nuova sensibilità purgatoriale, su sé stessi e sulla condizione umana in generale. Non a caso i due racconti del libro di Bonvissuto che seguono (Il compagno di banco e Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta) sono episodi minimi del passato, ma di densa nostalgia; la brutalità dell’esperienza carceraria ha, perciò, individuato e poi raffinato quei momenti della vita che ciascuno di noi, preso nei tumulti e nella vorticosi mediocrità d’ogni giorno, tende a smarrire, a ridimensionare, a derubricare a sbiadite istantanee fotografiche. Non sappiamo se tutto ciò corrisponda all’effettiva biografia di Bonvissuto; ciò che importa è che egli ha legato i tre racconti in una consequenzialità psicologica ed esistenziale ineccepibile e, visti gli illustri precedenti, classica. L’unico limite dell’autore, che delinea una prosa senza scarti, è l’incapacità ad elevare il discorso a riflessione universale e tragica, ristando nell’indugio di una dimensione particolare e privata.

Ma attenzione: egli può vantare una peculiarità che nessuno possiede; ha scritto quel primo racconto sul carcere oggi, e in Italia.

mercoledì 10 aprile 2013

Ritorno a "Cuore di tenebra"

Gi. Ch.
Prima di un film e di una colonna sonora (celeberrimi), Cuore di tenebra fu un resoconto, impareggiabile e definitivo, sul nichilismo europeo e sulla devoluzione spirituale dell’uomo occidentale. Conrad ci guida verso il nostro cuore di tenebra secondo una via crucis scandita progressivamente da una prosa precisa, implacabile e, nel contempo, letterariamente ricchissima: in essa convivono per miracolo sia il registro prezioso che l’andamento narrativo.
Il libro (il diario d’una spedizione africana verso una stazione coloniale interna retta da Walter Kurtz) è una gigantesca chiamata in correità (nel tempo e nello spazio) dell’intera koiné europea: nel tempo, poiché il narratore, Marlow, associa nel capitalismo di rapina sia i conquistatori romani dell’Inghilterra che i colonizzatori africani di quasi due millenni dopo; nello spazio, perché nessuno può dirsi escluso: la Società delle Colonie ha sede a Bruxelles; Kurtz è mezzo francese mezzo inglese; l’aiutante di Kurtz russo; Marlow è inglese e si imbarca su di un piroscafo francese e, prima di inoltrarsi nella giungla, incontra danesi, svedesi, olandesi, di nuovo francesi, scozzesi.
L’uomo europeo (e perciò mondiale, globalizzato) è ormai agito non da una divinità furibonda e lurca di sangue, ma “da un demone flaccido, bugiardo, miope, di una follia rapace e spietata”, da “un’ottusa rapacità”; la prefigurazione è quella dell’homo novus attuale, deprivato empaticamente, sordo ai richiami della cultura passata, tenuto in piedi esclusivamente dalla propria voracità criminale di cui peraltro ignora la pulsione profonda e l’utilità (situare la sede di questo virus proprio a Bruxelles è un tocco profetico di prim’ordine).

domenica 7 aprile 2013

Il Padrone del corpo

Maria Cristina Reggio
Orazio, Pluto, Diabete e Bombolo, Pippo e il dottor Max, la dottoressa Uraza: sono i personaggi di un fumetto? No, siamo in un romanzo, e si è nel pieno di una narrazione tragica e dolorosa, in un territorio che ricorda la quieta violenza del Processo di Kafka e che anticipa le dedaliche architetture di Ballard e del suo Condominio. Soprattutto, l'atmosfera del Padrone di Parise è segnata da una violenza sul corpo tanto inaudita, quanto simile alla realtà quotidiana e i personaggi fanno pensare più a dramatis personae teatrali, ciascuno con una propria funzione, piuttosto che a persone dotate di una propria psicologia, come ci si aspetterebbe da un romanzo. Entrano in scena, ciascuno con la propria maschera che Parise ci descrive nei dettagli fisici, nel colore, nelle ombre e sfumature, per poi sparire fuori scena e non mostrarsi mai più. Sono descritti con una tecnica narrativa visuale che davvero fa pensare all'esagerazione dei dettagli tipica del fumetto, e per questo portano in un immaginario pop-art. Ma se di pop si può parlare, non viene in mente quello americano, autenticamente superficiale e colorato come le pubblicità, ma, piuttosto, ai mondi artistici pop italiani e romani, dotati di una lettura profondamente critica dell'immaginario neo-industriale di quel tempo e che, con tutta probabilità, Parise, fidanzato con l'artista Giosetta Fioroni, frequentava e osservava attentamente nelle gallerie della Capitale.  Paradossalmente, quindi, i suoi epigoni si possono cercare, oggi, non tanto nella letteratura, quanto, piuttosto, nell'arte e nel teatro di ricerca, e il pensiero va al duo italiano Ricci-Forte e al loro teatro popolato di crudeli personaggi di favole e fumetti, totalmente dediti al consumo di una autolesionistica violenza che, distruggendo gli oggetti-feticci offerti oggi dalle industrie super-globalizzate, si arrendono anch'essi alla loro condizione di esseri umani, "offesi", deprivati dell'unica proprietà a cui l'uomo ha davvero diritto: quella di sé e del proprio corpo. 

martedì 2 aprile 2013

Il senso della lettura

Luciana De Mello
Non c’è modo di approssimarsi al linguaggio senza un vissuto dell’angoscia, questo timore primitivo senza causa precisa che, sin dai primi tentativi della parola, segna in noi una separazione, una percezione di ciò che si è perso, del fatto che non si raggiungerà mai nulla di significativo. È l’unico ponte che, contemporaneamente, ci riconcilia con ciò che abita nell’aldilà e dentro noi stessi. Il linguaggio parlato, quello dei corpi, il linguaggio delle cose del mondo, il linguaggio del silenzio, il linguaggio come possibilità e limite allo stesso tempo, che fa sorgere da sé lo strumento necessario per apprenderlo e decifrarlo: la lettura. Sarà per questo che El sentido de la lectura ("Il senso della lettura") di Angela Pradelli è preceduto da La ricerca del linguaggio, perché l'autrice sa che per affrontare pienamente le dimensioni della lettura doveva prima installarsi nella complessa macchina del linguaggio e della sua scrittura. (...) El sentido de la lectura di Angela Pradelli è un libro che fa una lettura della lettura e lo fa da un luogo “alephico”1 . Lì è contenuta l’esperienza del leggere con tutte le sue forme, le domande, le paure, la rivelazione di un modo di guardare il mondo che tutti qualche volta abbiamo vissuto e che ci ha illuminati per sempre. Che cosa è leggere, chi legge in me quando leggo, chi insegna in me quando insegno? Queste sono le domande essenziali che si pone Pradelli in questo secondo libro di riflessioni circa l’atto di leggere, dell’incontro con la propria lingua, con gli altri, con la vita che ci circonda, con il passato che minaccia. Ed è giustamente questo ciò che trasforma in un libro personale per chi lo legge, perché la storia della propria lettura è condensata lì, in quei racconti degli altri. Per questo, se ne “La ricerca del linguaggio” Pradelli cominciava esplorando l’atto del parlare, qui va direttamente all’istante dell’osservazione, del silenzio necessario per poter percepire e cercare di comprendere, con il proprio corpo, la vita che parla attraverso di noi. È in questo punto dove si condensa la poetica del libro, poiché El sentido de la lectura potrebbe benissimo essere nulla di più che un lungo poema in prosa, per questa maniera di dire l’indicibile ed a piena voce, dove altri raccontano, a richiesta dell’autrice, una scena personale vincolata con la lettura, che sia stata significativa per il resto del cammino. In questo modo Pradelli intende l’atto di leggere, possibile solamente come un atto collettivo, dove l’asse del testo è nella destinazione alla quale giungerà, una volta che i sensi sanno costruiti attraverso l’esperienza umana di decifrare il proprio mondo: “la lettura permette a qualcuno di connettersi con l’altro, ma è in se stesso il luogo dove il lettore troverà l’attrezzatura per questo abbordaggio. Nel testo dell’altro il lettore riconosce segni, impronte e solchi, ma sono piste che deve completare con un contenuto proprio. Un lettore, per non soccombere nel mare che l’altro è – il corpo o il testo dell’altro – costruisce con gli strumenti della sua soggettività, cerca nella complessità dei suoi pezzi gli attrezzi emozionali, intellettuali e da lì apprende i tratti dell’altro e li rende significativi, gli dà un senso”. (...)

1 Da “El Aleph”, di J.L. Borges, l’Aleph è un punto nello spazio che contiene tutti gli altri punti, n.d.t. 

(stralci da El rey Leer, "Pagina12", 24 marzo 2013;  traduzione di Paolo Nicolò)