sabato 31 dicembre 2011

Una silenziosa partecipazione

Al termine dell’ultimo incontro su "Furore" di Steinbeck tenutosi al DSM di via Colautti, Maria Teresa Carbone fece notare come una buona parte del secondo anello dei partecipanti fosse rimasta un po’ in silenzio.
Personalmente avrei voluto candidamente ammettere i motivi che mi avevano visto un po’ defilato, come anche nella precedente discussione su “Ragazzi di vita” di Pasolini ed in particolare sul primo capitolo dedicato al “Ferrobedo’”.
Anche allora, al termine dell’incontro, sempre Maria Teresa aveva posto l’attenzione sul fatto che c’erano molte persone dallo sguardo attento, ma silenziose, che tutto sembravano, meno che non avessero nulla da dire.
Così nell’ultima occasione alla quale ho partecipato (l’incontro su Steinbeck) solo quando il gruppo si era già velocemente dissolto, alzai la mano per provare a raccontare il perché delle mie partecipazioni silenziose.
Ormai però, si era fatto tardi. Il brusio degli scambi reciproci di fine dibattito aveva già preso il sopravvento, così mi dissi che l’occasione per parlare di certo non sarebbe mancata.
Ormai mi sentivo parte integrante di quel nuovo progetto e l’idea di partecipare ad altri gruppi di lettura già bastava a farmi star bene.
In quel preciso istante, però, ho pensato che mi sarebbe piaciuto poter raccontare nel modo a me più congeniale il perché delle mie partecipazioni ai gruppi come ascoltatore silente.
Non per questo, però, disattento. Anzi.
In entrambe le occasioni dei gruppi di lettura, sono tornato a casa portando con me una piacevolissima sensazione di arricchimento che generalmente provo leggendo un buon libro o guardando un bel film (l’ultimo dei quali era stato proprio “Furore” di J. Ford al Circolo delle Quinte).
Sono rimasto completamente rapito e affascinato da tutti quegli interventi così chiari e puntuali, sebbene spesso discordanti.
Intrigato dalle capacità critiche e analitiche di gran parte dei partecipanti. Tutti a loro modo hanno portato il loro contributo e hanno dato spunti per osservare la stessa opera da molteplici punti di vista, arricchendone inevitabilmente la discussione a riguardo e fornendo ulteriori possibilità di approfondimento dell’argomento in oggetto.

Ho avuto problemi di balbuzie in passato e questo mi ha sempre tenuto alla larga da discorsi a platee più grandi di quanto non potessero essere quelle di una ristretta cerchia di amici veri.
E se balbuzie non era, si tramutava in una modalità di espressione sempre molto precipitosa (dovuta ai molti concetti che avrei voluto esprimere e alla bassa soglia di attenzione che mi sembrava avvertire intorno), il che rendeva difficilmente comprensibile ciò che dicevo.
Tutto questo mi portava ad evitare a priori situazioni durante le quali avrebbero potuto chiedere anche solo un breve parere a riguardo di un qualsiasi argomento.
L’arrivo di due figlie, che ora hanno una quattro e l’altra due anni e mezzo, il leggere loro le favole dovendo inevitabilmente scandire ogni singola parola, per far si che suonassero loro più chiare possibile, mi ha aiutato a superare l’insopportabile ghigliottina del tempo propria di chi ascolta con superficialità.
Loro pendono dalle mie labbra: una sensazione fantastica!

Così, quando un giorno ho letto la locandina “Centomila persone leggono un libro”che parlava di un incontro all'Istituto Federico Caffè, non ho avuto nessun tentennamento.
Mi sono immediatamente detto che quella occasione non me la sarei lasciata sfuggire.
Da quel primo incontro, ai due successivi a via Colautti (su Pasolini e Steinbeck) e alla proiezione di "Furore" al Circolo delle Quinte e finanche a quello di una domenica piovosa al bar Desideri (anche se quello era principalmente rivolto ai coordinatori del gruppo), ho scoperto un modo nuovo di stare
insieme e condividere.

Conoscersi, come spesso ho sentito dire, non soltanto perché ci si incontra al supermercato, ma perché si legge uno stesso libro, si guarda insieme lo stesso film, condividendo tutte le sensazioni e le emozioni che questo genere di opere lasciano scaturire.
Sono stati proprio quegli interventi di cui parlavo prima, a suonare come musica per le mie orecchie.
Credo che un gruppo di lettura debba fondarsi soprattutto sul confronto delle opinioni come sulla loro discordanza.
Questi ingredienti sono la sua vera forza, il suo fine ultimo.
Arricchimento e scambio continuo.

Personalmente negli ultimi anni, sebbene con qualche pausa significativa, ho avuto periodi durante i quali soltanto l'idea di prendere in mano un libro, mi creava una sorta di reticenza.
Partecipare ai gruppi di lettura credo che possa rivelarsi per me un'ottima medicina, non solo per tornare a leggere, ma per farlo con uno spirito nuovo ed una nuova attenzione.
Diciamo che per ora, durante gli incontri, preferisco bearmi ascoltando le esposizioni altrui.
Credo che lo scopo di questa ammirevole iniziativa sia anche quella di
allargare il gruppo e magari, perché no, forgiare lettori con una nuova e prima d'ora sconosciuta capacità critica.
Questa sensazione mi basta per sentirmi in qualche modo legittimato come ospite e silente ascoltatore.
Un principio per poter prendere parte ad incontri, che fino a solo pochi anni fa, avrei ritenuto come qualcosa che non avrebbe mai potuto appartenermi.
Occasioni che oggi, invece, soddisfano un bisogno che si sta facendo di volta in volta più impellente: quello di "sapere".
Sono sicuro che ottimizzando il tempo libero e ricercando una nuova costanza nella lettura, io possa fare molto nel colmare quello che oggi avverto come un gap significativo.
Il fatto che io non avverta questa mancanza come motivo di discriminazione è già un buon punto di partenza, per chi come me si è sempre tenuto alla larga da iniziative così interessanti.
Come diceva Gaber, libertà è partecipazione.

Non posso che chiudere con un sentito grazie a tutti i partecipanti alle iniziative di Monteverdelegge.

Cordialmente,

Fabio Cenciarelli


lunedì 21 novembre 2011

Il viaggio oltre la frontiera: passaggi nel tempo e nella letteratura

Scorrendo le pagine di Furore (1939, prima ed.– Bompiani 2011, pp. 474) ho scoperto che il suo autore, John Steinbeck, ha vinto il Nobel per la letteratura nel ’62. Nello stesso secolo questo prestigioso riconoscimento è andato ad altri suoi connazionali: Sinclair Lewis (’30), O’Neill (’36), Pearl S. Buck (’38), Faulkner (’49), Hemingway (’54). Sei premi Nobel in poco più di trent’anni e in parallelo con le pubblicazioni di autori come Caldwell, Fante, Dos Passos, Capote, Mailer, Scott Fitzgerald e, poco oltre, Bellow, Salinger, Chandler,Henry e Arthur Miller. . . Tutti insieme – e chissà quanti ne dimentico - sono nomi da capogiro, le loro opere costituiscono l’anima letteraria statunitense della prima metà del ‘900. Con le loro narrazioni hanno riempito l’immaginario di tutti coloro che hanno conosciuto gli Stati Uniti grazie a pagine dense di ‘realismo’, prima di poter vedere in tv o al cinema sprazzi di vita reale nel ‘Grande Paese’, meta di sogni, ambizioni, desideri, di grandi successi e di penosi fallimenti.
Monteverdelegge ha scelto The Grapes of Wrath (alla lettera, "I frutti dell’ira") per ricordare il racconto di un memorabile viaggio dall’Est all’Ovest USA, epicamente rappresentato nel 1940 dall’omonimo film di John Ford, vincitore di due Oscar. Ma qui desidero ricordarlo anche come la descrizione di un passaggio: dalla depressione alla ricostruzione; dall’economia basata sull’agricoltura diffusa a quella concepita nei contesti urbani; dalla miseria locale a quella su scala nazionale e così via. “Se nel romanzo tipico degli anni ’20 – scrive W. Leuchtenburg in Roosevelt e il New Deal – l’eroe va alla stazione ferroviaria della cittadina di provincia per salire sul treno che dovrà portarlo alla metropoli piena di promesse, nel romanzo tipico degli anni ’30 egli è lasciato solo su una strada di grande comunicazione a chiedere un passaggio per una destinazione sconosciuta”.
Da qui prende corpo quel viaggio nell’intimo, nell’autocoscienza e nel dubbio che si affianca al viaggio vero e proprio on the road, celebrato da grandi autori americani, testimoni del vagabondaggio su strada e nella psiche come Kerouac, Bukowski, Ginsberg, Burroughs e altri. A distanza di un paio di decenni, scrittori così apparentemente lontani da quelli della generazione di Steinbeck – nato in California nel 1902 e morto a New York nel ’68 – hanno in comune con essi non solo l’amore per la strada ma anche quello per la natura. Ed ecco apparire subito nel nostro immaginario americano le grandi nuvole spostate dal vento, le nubi rosse di polvere e quelle grigie cariche di pioggia, oppure i rigagnoli d’acqua che solcano la terra arida e con il fango disegnano le orme e le tracce di tanti passaggi ripetuti nel tempo.
G.M.

sabato 19 novembre 2011

Erodoto illumina il presente

KAPUSCINSKI, In viaggio con Erodoto - qualche flash di sguincio

Ho amato per molte ragioni questo libro, e ho immediata voglia di rileggerlo, come se una sola lettura non fosse che un troppo veloce “sorvolare” sulle sue molteplici implicazioni, e l’ho subito regalato, e subito ne ho parlato con molti amici.

Sono state dette cose interessanti negli interventi dell’incontro di sabato 5 novembre, delle quali amerei ritrovare più numerose tracce sul nostro blog, interventi che forse durante l’incontro sono stati compressi dai limiti temporali, dal numero degli intervenuti, dalla timidezza individuale (molti che forse avevano voglia di dire qualcosa hanno taciuto, e forse finalmente scrivendo trovano un tempo più disteso e un’atmosfera più raccolta per farlo) e così via.

Tra gli ingredienti che nel libro mi hanno emozionato di più, il rapporto che K. ha stabilito con Erodoto e le sue Storie. L’assiduo ricorrere al testo del greco di provincia, insaziabilmente curioso e attento, con lo sguardo pieno di domande e aperto sul mondo, ha generato un’altra infinita serie di domande, attraverso le quali K. ci restituisce una figura dai tratti assai più che abbozzati, e ne fa un padre nobile, un maestro, il suo fratello gemello, a seconda delle circostanze, dei momenti. Un punto di riferimento imprescindibile.

Il testo di Erodoto viene utilizzato di continuo, quasi che fosse una sorta di Bibbia laica, per illuminare il presente, come se solo indagando il passato si potesse guardare il presente vedendolo davvero, e tentare di scoprire le ragioni di ogni uomo, e diventa il filo rosso che collega Congo e Cina, India e Iran.

Quello del libro di K. sembra quasi il viaggio, per antonomasia, e inizia dalle prime fantasie sul “varcare la frontiera”, espressione quanto mai densa di suggestioni, per concludersi con il pellegrinaggio alla città natale di Erodoto, Alicarnasso, omaggio finale a questo greco così consapevole, in maniera assolutamente eccentrica, della fondamentale uguaglianza degli uomini nella diversità delle culture e costumi e apparenze.

giovedì 3 novembre 2011

Kapuscinski, umanità e tolleranza


Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul libro In viaggio con Erodoto, di Ryszard Kapuscinski (Feltrinelli 2005, pp.259), ho pensato subito a quale ‘cappello’ avrei indossato. Quello del viaggiatore appassionato, in cerca di riscontri, analogie e differenze fra le mie opinioni personali e quelle riportate dall’autore su alcuni dei tanti Paesi descritti nel libro? Oppure quello legato ai (lontani) ricordi di studente del liceo classico, con la grammatica greca sul banco e un’antologia di autori del periodo ellenistico nel consunto zaino, già messo a dura prova dal trasporto del tomo I miti greci, di R. Graves (Longanesi 1954, pp.720)? O, ancora, avrei usato più semplicemente il ‘cappello’ del lettore avido di racconti di viaggio, mettendo a confronto lo scrittore e giornalista – ha lavorato per oltre 30 anni come corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca Pap – con stile, dialettica e capacità descrittive dei vari Chatwin, Hemingway, London, Theroux, Terzani, Goethe, ecc.?
Poi, riflettendo sul fatto che il libro ospita un ampio territorio, che va dalla cortina di ferro dell’Est europeo alle rivolte anticolonialiste e religiose asiatiche, africane e mediorientali degli anni ’50-70, mi sono reso conto di aver individuato un fil rouge: l’umanità e la tolleranza.
Pur affiancando i cruenti resoconti di Erodoto della guerra greco-persiana a quelli altrettanto sanguinosi verificatisi di volta in volta in Somalia, Iran, Uganda, Indonesia, Laos… dalle pagine mirabilmente narrate da Kapuscinski emergono un’umanità grandissima e uno spiccato amore per la tolleranza o, se preferite, un’inappellabile condanna dell’intolleranza verso l’altro, il diverso.
Per comprendere meglio l’importanza e il significato di scegliere l’opera di Erodoto come compagna di viaggi, piuttosto che un altro libro o un altro autore, mi sono tornate in mente le parole contenute nel proemio dello storico di Alicarnasso, l’attuale Bodrum, in Turchia:
Questa è l'esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo (. . .) in particolare egli ricerca per quale ragione greci e barbari combatterono tra di loro”.
Perché scoppia una guerra e perché miete tante vittime, indipendentemente dal colore della pelle e dalla professione di fede politica o religiosa? Perché nel cosiddetto Terzo Mondo continuamente si susseguono rivolte democratiche e legittime lotte per l’indipendenza e la libertà, senza che esse sfocino in una pace e in una stabilità durature? Questa e mille altre sembrano essere le domande, probabilmente senza risposta, che hanno accompagnato la lunga ‘ricerca’ di un corrispondente di guerra suo malgrado, un uomo instancabile e mai dimentico delle sue povere origini, vissute sul finire di una guerra che ha martoriato il suo Paese.
Colui che si ritrova quasi per caso a soddisfare un desiderio indicibile – “vorrei tanto varcare una frontiera” – ed entrando per la prima volta, a Roma, in un negozio occidentale, scopre che le commesse rimangono sempre in piedi e dicono “Grazie!” anche ai clienti che non comprano; oppure il timoroso viaggiatore, che si rifiuta di prendere il risciò a New Delhi per rispetto verso le miserie di una moltitudine dignitosa, è lo stesso uomo a cui, nel 2006, pochi mesi prima di morire, l’Università di Udine conferisce una laurea honoris causa in traduzione e mediazione culturale, riconoscendo il lavoro, svolto senza strilli e fanfare, al servizio della pace e della solidarietà umana.
G.M.

martedì 18 ottobre 2011

Un libro un quartiere: il progetto


Il progetto “Un libro, un quartiere” è stato ideato dall’associazione culturale Monteverdelegge, attiva nel quartiere romano di Monteverde dal 2008, prendendo spunto dall’iniziativa One City One Book, avviata in diversi paesi per promuovere la lettura e stimolare modelli nuovi di socialità. Esperienza di lettura su scala di comunità, “Un libro un quartiere” prevede che gli abitanti di un intero territorio si accostino, in un dato arco di tempo, a uno stesso libro, alternando lettura individuale e incontri collettivi (gruppi di lettura, attività nelle scuole e nelle biblioteche, reading, proiezioni, itinerari…). Nel concreto, gli abitanti di Monteverde sono invitati a leggere tra ottobre 2011 e maggio 2012 Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. Oltre a essere un classico del ‘900, il testo presenta infatti forti riferimenti, fin dalla prima pagina, all’area – allora marginale – di Monteverde e offre interessanti possibilità di confronti con il presente.
Al progetto, patrocinato dalla Presidenza del Consiglio Provinciale di Roma e dal Municipio Roma XVI, dà il suo sostegno Graziella Chiarcossi, cugina e erede di Pier Paolo Pasolini e partecipano attivamente il Comitato di quartiere Monteverde Quattro Venti, il Dsm Asl Roma D (centro diurno Giovagnoli), il Teatro Vascello e due grandi scuole superiori della zona, il liceo scientifico Morgagni e l’istituto di istruzione superiore Federico Caffè, che contano complessivamente circa duemila studenti e dove la lettura del testo si intreccerà a percorsi di riflessione sul quartiere e sulla figura di Pasolini. In queste scuole sono inoltre previsti gruppi di lettura del libro aperti al pubblico e sono stati presi contatti per iniziative analoghe con le biblioteche comunali e con altri enti culturali attivi nell’area di Monteverde. Si inviteranno inoltre i singoli cittadini a formare gruppi di lettura autonomi (tra amici, al lavoro, nel condominio…).
La presentazione di Un libro un quartiere avrà luogo giovedì 27 ottobre alle 17,30 nell’aula magna dell'istituto scolastico Federico Caffè (via Fonteiana 111), con la partecipazione di Sandro Veronesi

Per informazioni: monteverdelegge@gmail.com

martedì 4 ottobre 2011

Monteverde anno IV: il viaggio

Letta durante l'estate l'Anabasi di Senofonte, (ri)scoperta entusiasmante per alcuni, traumatica per altri (ma proprio l'esposizione ai diversi modi di leggere non è il sale del gruppo?), il prossimo libro in programma, In viaggio con Erodoto di Ryszard Kapuscinski, fa da tramite tra passato e presente. Ne parleremo sabato 5 novembre alle 11, salone degli affreschi (Dsm, via Colautti 28). E per cominciare a pensare alle prossime letture, ecco qualche suggerimento d'autore preso dal "Guardian".

mercoledì 29 giugno 2011

domenica 8 maggio 2011

Verso il termine dell’incontro su Philip Dick e la sua Svastica sul sole – pessimo titolo rispetto all’originale – Stefano (?), uno degli ultimi ad intervenire prima che io andassi via, ha illuminato, probabilmente senza volerlo, con uno squarcio ulteriore, un altro aspetto del libro, quando ha parlato dell’ipotesi che le Torri Gemelle siano venute giù per …?, insomma non per l’azione di terroristi di Al Qaeda, ma per….. C’è stato perfino chi si è spinto a ipotizzare che siano stati i servizi israeliani….gli EBREI, una nuova edizione dei Protocolli dei Savi di Sion!

Questa ipotesi, come molte altre che girano e che hanno molto successo e seguito, a cominciare dallo sbarco sulla Luna, che sarebbe un clamoroso falso, per finire con la morte di Bin Laden che sarebbe avvenuta (cfr. Giulietto Chiesa, come capofila) nel 2007, mentre quella narrata una settimana fa non sarebbe altro che una ignobile azione teatrale, una vera e propria fiction ad uso dei teleutenti/sudditi; questa - e altre consimili ricostruzioni di fatti avvenuti - (ma forse invece solo recitati; e Elvis Presley si aggira di notte in Central Park sotto mentite spoglie…) ci consegna l’idea che non si possa essere certi di niente, che ciò che ci viene narrato non sia vero, che dietro la rappresentazione sia celata chissà quale altra verità.

E questo modo di procedere coinvolge tutto, i giornali mentono, i politici mentono, gli imprenditori mentono, chi li denuncia mente. Mente il mafioso e chi lo accusa, mente il pentito e il suo giudice. Quali strumenti ho a disposizione per capire dove sta il vero?

Qui non è più questione di relativismo (ognuno ghà le so razòn , Canale Mussolini), non si tratta più del pirandelliano Così è se vi pare o delle molteplici verità di Rashomon, ma della devastante unica vera verità che è tutto finto, tutto. Come salvarsi da questi pensieri paranoici? E’ forse questo il mondo che ci presenta Dick?

Se così fosse, questo sì, sarebbe un vero e proprio incubo.

sabato 16 aprile 2011

Testi di Fabio Teti e di Simona Menicocci

Qui si possono leggere i testi di due dei quattro autori che hanno letto presso EscArgot il 19 dicembre scorso:

Fabio Teti e Simona Menicocci.

Prossimamente compariranno anche i testi di Eleonora Pinzuti e Alessandra Cava.

sabato 9 aprile 2011

10 aprile: Sarah Riggs e Sara Ventroni al Circolo delle Quinte

a Roma, domenica 10 aprile, alle ore 21:00
presso il Circolo delle Quinte, viale Trenta Aprile 4
per il ciclo Italianamericana – Doppia esposizione / Double Exposure
a cura di Maria Teresa Carbone e Franca Rovigatti
– in collaborazione con Monteverdelegge –

reading di

Sarah Riggs

e

Sara Ventroni


*

Nota:
l'ingresso è libero, ma si prega di prenotare con una email agli indirizzi
monteverdelegge@gmail.com e laura.urbani@yahoo.it

martedì 5 aprile 2011

Ishiguro

Aspetto con ansia che qualcuna/o di voi dia conto sul blog dell'incontro di sabato 2 aprile con lo scrittore, incontro al quale avrei partecipato con immenso piacere, perché il libro Non lasciarmi mi ha affascinato per più di una ragione, perché avevo voglia di condividere delle riflessioni e fare delle domande, rimaste naturalmente inevase. Purtroppo non mi è stato possibile.
Mi dicono che il film che ne è stato tratto è bellissimo, e se è vero che il regista è riuscito a rendere l'atmosfera e il senso della narrazione e i personaggi non stento a crederlo.
Trattengo riflessioni e domande, ma se dovesse trascorrere troppo tempo senza che nulla accada, mi vedrò costretta a vomitarle su questo luogo (log). Vorrà dire che mi perdonerete, grazie in anticipo

martedì 15 marzo 2011

Dorina e le altre


Marta Ancona
Questa volta Dorina non si è addormentata. Ha tenuto gli occhi bene aperti. Avessi indovinato il filone giusto, almeno per lei?
Dorina è sempre elegante, curata, col bastone che ne esalta lo stile piuttosto che negarlo, i corti capelli bianchi appena mossi, un sorriso dolce a fior di labbra quando saluta, una collana d’ambra corollario di antica civetteria. Chissà.
Durante tutti i nostri precedenti incontri, appena iniziavo a leggere eccola cadere addormentata, e svegliarsi solo dopo, appena chiuso il libro e spenta la voce, come se il mio narrare non servisse che a conciliarle il sonno. Un cruccio. Un piccolo cruccio. In fin dei conti anche una ninna nanna ha un suo perché, è vero, e tuttavia…..
Questa volta invece no. Ho dovuto notarlo. Ho letto una favola della tradizione toscana, una delle tante varianti della storia di Amore e Psiche, tra le più frequentate durante la mia infanzia: Stretta la foglia larga la via, dite la vostra che ho detto la mia, è il titolo della raccolta.
Ed è così che ho cominciato, e chissà che questa incomprensibile filastrocca non abbia contribuito anch’essa a pescare tra le memorie di Dorina qualche filo da intrecciare, destando, letteralmente, il suo interesse.
E anche le altre del resto mi sono sembrate più coinvolte.
Richiamare l’infanzia e il mito.
Santina, la più giovane, a ridere con la sua risata gutturale e graffiata, il linguaggio quasi incomprensibile, le finali strascicate tipiche di un dialetto meridionale, l’atteggiamento verginale da adolescente e gli improvvisi rossori, a sottolineare i passaggi cruciali dell’azione, la scoperta della bellezza dello sposo a lume di candela, e le prove affrontate dall’eroina. Che storia ci sarà dietro quel riso?

giovedì 10 marzo 2011

Poesia/Poetry: Jennifer Scappettone e Marco Giovenale

Domenica 13 marzo, alle ore 21:00, presso il Circolo delle Quinte, viale Trenta Aprile 4, per il ciclo Italianamerica – Doppia esposizione / Double Exposure, reading di

Jennifer Scappettone
e
Marco
Giovenale


Jennifer Scappettone ha pubblicato le raccolte From Dame Quickly (New York: Litmus, 2009), Err-Residence (Milwaukee: Bronze Skull, 2007) e Beauty [Is the New Absurdity] (dusi/e kollectiv, 2007), e, come curatrice, Belladonna Elders Series #5: Poetry, Landscape, Apocalypse (New York: Belladonna, 2009), che raccoglie sue poesie e prosa recenti insieme a nuovi scritti di Etel Adnan e Lyn Hejinian. Ode oggettuale / Thing Ode (Roma: La Camera Verde, 2008) è stato tradotto da Scappettone in dialogo con Marco Giovenale. Sta lavorando a una "archeologia" di paesaggi tossici e un'operetta di finestre 'pop-up' intitolato Uscita 43. Ha tradotto dall’italiano l’opera poetica di Amelia Rosselli, che uscirà con l'University of Chicago Press come Locomotrix: Selected Poetry and Prose of Amelia Rosselli, e ha curato un dossier sulla poesia contemporanea italiana di ricerca per la rivista Aufgabe (2008). È in corso uno studio critico del modernismo e postmodernismo a Venezia intitolato Killing the Moonlight: Modernism in Venice. Ha collaborato con la coreografa Kathy Westwater e l'architetto Seung Jae Lee a una serie di performance/installazioni di cui le prime rappresentazioni, intitolate PARK, hanno avuto luogo a Dance Theater Workshop e a Fresh Kills Park a New York City e a Reed College nel 2010-11. Testi, letture, e video sono raccolti e linkati a http://oikost.com e http://writing.upenn.edu/pennsound/x/Scappettone.php. Scappettone è docente di Letteratura e Creative Writing all’Università di Chicago, ed è attualmente borsista del Premio di Roma all'Accademia Americana di Roma.

Marco Giovenale (1969) vive e lavora a Roma, come editor e traduttore; collabora alla Bibliografia della Lingua e Letteratura Italiana, pubblicata dalla casa editrice Salerno. Il suo libro di poesie più recente è Shelter (Donzelli, 2010).
È redattore di gammm.org, puntocritico.eu, «Or», e di vari spazi web. Collabora alle pagine culturali del «manifesto». Suoi testi in rivista sono comparsi tra l’altro su «il verri», «Poesia», «Nuovi Argomenti», «Rendiconti», «Aufgabe», «Action Poétique», «Nioques», «The new Review of Literature». Altri libri recenti: A gunless tea (Dusie, 2007), La casa esposta (Le Lettere, 2007), Soluzione della materia (La camera verde, 2009), Storia dei minuti (Transeuropa, 2010), Quasi tutti (Polìmata, 2010). Poesie e prose sono antologizzate in Parola plurale (Sossella, 2005), Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2007), nel volume del Premio Antonio Delfini 2009, e nel n.30 (2011) de «L’Illuminista», a c. di V.Ostuni, dedicato ai Poeti degli anni Zero. Con i redattori di gammm è nel volume collettivo Prosa in prosa (Le Lettere, 2009). Per Sossella ha curato nel 2008 la raccolta di Roberto Roversi, Tre poesie e alcune prose. Nel 2010 ha inventato l’aggregatore http://du-champ.blogspot.com, che mappa circa 900 siti e blog di ricerca letteraria, poesia visiva, fotografia, flarf, scritture sperimentali, mail-art, asemic writing.

giovedì 3 marzo 2011

Ishiguro, l'enigma della replica

A colloquio con lo scrittore britannico di origine giapponese, che con il suo ultimo romanzo, Non lasciarmi, da poco uscito per Einaudi, presenta un mondo parallelo dove la clonazione è realtà. Ma le vicende all'apparenza futuribili dei protagonisti consentono all'autore di riflettere su temi che gli sono cari, come la difficoltà di porsi in modo consapevole di fronte al proprio destino nel breve lampo dell'esperienza umana

MARIA TERESA CARBONE

Nella sua entusiastica recensione dell'ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Never Let Me Go - in italiano Non lasciarmi, tradotto da Paola Novarese per Einaudi (pp. 295, euro 17,50) - la scrittrice canadese Margaret Atwood ha tuttavia osservato che probabilmente il libro non è destinato a piacere a tutti, a diventare «everybody's cup of tea». Un modo sintetico per avvertire i lettori che il testo di Ishiguro rischia di scoraggiare coloro che hanno apprezzato il titolo a tutt'oggi più celebre dello scrittore, Quel che resta del giorno (e più ancora il film che ne ha ricavato James Ivory), con la sua malinconica ricostruzione di un'Inghilterra al massimo del suo fulgore. Almeno all'apparenza Non lasciarmi si discosta completamente da quelle atmosfere e porta il lettore in una sorta di realtà parallela: ambientato negli anni Novanta, il romanzo ruota intorno alle vicende di tre giovani - Kathy (voce narrante del libro), Tommy e Ruth - che, allevati in un collegio immerso nella campagna inglese, vanno incontro al loro tristissimo destino. Come l'autore lascia capire gradualmente, infatti, i tre ragazzi sono in realtà cloni, la cui funzione di donatori di organi li assegna a una fine precoce e, almeno entro certi limiti, rassegnata. Pure, al di là delle apparenze, Non lasciarmi rivela più di un punto di contatto con i romanzi precedenti di Ishiguro, dallo stesso Quel che resta del giorno allo splendido Gli inconsolabili. E da queste affinità prende avvio il nostro incontro con lo scrittore, in questi giorni in Italia appunto per la presentazione del romanzo.

A prima vista, il fatto che i protagonisti di Non lasciarmi siano dei cloni appare come l'elemento caratterizzante del romanzo. Eppure, a una lettura più attenta, si avverte che la clonazione rappresenta solo un pretesto per mettere in scena questioni che hanno poco a che fare con gli scenari connessi alla ricerca in questo campo.

In effetti l'aspetto scientifico della clonazione non mi interessa granché, così come non mi sento particolarmente coinvolto dai problemi etici che la questione può sollevare. Anzi, la scelta di prendere dei cloni come protagonisti del romanzo è arrivata molto tardi, è stata una delle ultime cose che ho deciso. Avevo cominciato a scrivere questa storia circa quindici anni fa, dopo l'uscita di Quel che resta del giorno. Già allora, al centro della vicenda c'era un gruppo piuttosto misterioso di giovani che vivevano nella campagna inglese; ma in quel primo testo, che ho poi abbandonato per scrivere Gli inconsolabili, il loro destino era in qualche modo legato all'uso delle armi atomiche. In seguito, quando il romanzo è stato pubblicato, ho ripreso a lavorare su quei materiali, ma ancora una volta senza risultato. E finalmente nel 2001, dopo la pubblicazione di Quando eravamo orfani, ho trovato la chiave: ascoltando una mattina alla radio un programma sulla clonazione, mi sono reso conto che se avessi sostituito le armi nucleari con la biotecnologia avrei potuto far funzionare la storia. Ma quello che in realtà mi premeva era presentare un gruppo di persone con una aspettativa di vita ridotta, intorno ai trent'anni, una situazione cioè che potesse diventare una metafora - una sorta di specchio distorto - della condizione umana, del fatto che tutti noi invecchiamo e moriamo, ma tendiamo a eludere questo dato. Oltre tutto, mi sono reso conto che avere dei cloni come protagonisti del romanzo avrebbe portato altri vantaggi, che avrei potuto affrontare in un modo inusuale le vecchie questioni poste nel corso dei secoli in molti testi letterari: cosa è un essere umano? esiste l'anima? qual è lo scopo della nostra vita? Queste domande, che riempiono pagine e pagine di Tolstoj o di Dostoevskij, risultano molto difficili da tradurre per gli scrittori della mia generazione, sembra perfino mancarci il vocabolario adeguato. Se la narrativa e il cinema di oggi, da Houellebecq a Terminator, presentano spesso figure di cloni o di cyborg è proprio per discutere da una prospettiva diversa un tema antico.

D'altra parte, in Non lasciarmi sembrano riaffiorare temi esplorati in Quel che resta del giorno o negli Inconsolabili: in Kathy, come già nel maggiordomo o nel facchino emerge - insieme alla sensazione dolorosa del limite posto dalla sua condizione - anche una forma di orgoglio, quasi una idea di appartenenza a una élite.

La prospettiva che effettivamente accomuna questi personaggi deriva dal tentativo di trovare motivo di orgoglio e di dignità all'interno del ruolo che è stato loro imposto. È difficile per chiunque valutare la propria posizione in un mondo più vasto, tutti noi tendiamo piuttosto a farci un'idea grandiosa del nostro piccolo ambito. Kathy, per esempio, non contesta il sistema in cui è inserita, ma cerca in tutti i modi di essere una buona versione di quello che le è dato essere. E per quanto mi riguarda, io ammiro questo sforzo di vivere in condizioni difficili con dignità. Trovo affascinante esplorare questi personaggi, che sono ribelli in tono minore, e che solo gradualmente, con molta fatica, cambiano posizione.

Tutti i suoi romanzi sono caratterizzati dalla presenza di un io narrante. In che modo è arrivato a scegliere Kathy come «voce» di Non lasciarmi ?

Quando ho scritto il mio secondo romanzo, Un artista del mondo effimero, avevo inizialmente «sbagliato» l'io narrante, e questo ha comportato per me un grosso lavoro supplementare. Da allora, la scelta del narratore è uno dei dati a cui presto maggiore attenzione. Per certi versi potrei dire che sottopongo i miei personaggi a un vero e proprio provino. Nel caso di Non lasciarmi, comunque, la scelta di Kathy è stata relativamente semplice, perché volevo che questa storia ruotasse intorno all'amore e all'amicizia, e Kathy si trovava nella posizione giusta, al centro dell'amore quasi inconsapevole che prova per Tommy e dell'amicizia con Ruth, un'amicizia difficile ma profonda. Anche questo punto per me era molto importante, volevo mostrare come all'interno di un'amicizia due persone possano a volte detestarsi, e persino farsi del male, pur sentendo il legame profondo che le unisce. In Non lasciarmi, come del resto anche in Quel che resta del giorno, l'amore e l'amicizia, e il modo in cui questi sentimenti si inseriscono in una vita che passa troppo velocemente, rappresentano per me l'elemento centrale.

In questo romanzo, però, anche l'arte - alla quale i piccoli cloni vengono incoraggiati - sembra giocare una parte importante.

All'interno della scuola frequentata dai protagonisti del libro vige il principio - molto comune del resto - secondo il quale l'arte sarebbe una prova della nostra umanità più profonda, e dunque anche della possibilità per i cloni di avere un'«anima». Ma l'arte, e in generale l'idea di lasciare una traccia dietro di sé, rappresenta soprattutto uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per attenuare l'idea della morte - e questo è tanto più evidente per i personaggi di Non lasciarmi, cui è negata la possibilità di avere figli. Al tempo stesso, però, ho cercato di sottolineare all'interno del libro il vecchio tema, presente nelle fiabe e nei miti, secondo il quale soltanto l'amore può addolcire la morte, o addirittura può cambiarne le regole, che l'amore insomma è più forte della morte: è un'idea sciocca, naturalmente, ma è un'idea a cui mi piacerebbe credere.

Perché ha scelto di ambientare una vicenda apparentemente «futuribile» ai nostri giorni, e anzi, per l'esattezza, negli anni Novanta?

Se avessi ambientato il romanzo nel futuro, avrei corso il rischio che la storia suonasse come un monito o una profezia. Mi premeva invece che i lettori sentissero come il mondo descritto sia solo un riflesso singolare della vita che conduciamo oggi. Ma la mia scelta è stata condizionata anche da ragioni estetiche: i paesaggi futuristici e le ambientazioni alla Blade Runner non mi interessano, e non avevo voglia di sprecare tempo e energie per immaginare le automobili o i distributori automatici del futuro. Mi piaceva invece creare una strana versione dell'Inghilterra, basata sull'Inghilterra che conosco, ma al tempo stesso molto diversa, quasi l'opposto del paese che avevo descritto in Quel che resta del giorno: là grandioso e magnifico, qui tetro e grigio, come se i colori fossero stati eliminati o attenuati. I campi vuoti e i cieli coperti, come si vedono nelle cittadine costiere d'inverno, si accordavano bene alla sensazione generale che volevo dare alla storia, inserendo l'amore e l'amicizia su uno sfondo malinconico.

Proprio in questi giorni è uscito in Italia il film di James Ivory La contessa bianca, di cui lei ha firmato la sceneggiatura. Come si è sviluppato il suo rapporto con il cinema?

In realtà, all'inizio della mia carriera, avevo già scritto un paio di sceneggiature. E anche dopo, quando sono diventato romanziere a tempo pieno, ho continuato a occuparmi di cinema per passione, mettendo insieme fra l'altro una raccolta molto ampia di dvd e di video. Così la proposta di scrivere la sceneggiatura per La contessa bianca (e già un paio d'anni fa per The Saddest Music in the World, del cineasta canadese Guy Maddin) mi ha attirato molto. Oltre tutto, come romanziere, lavoro completamente da solo, una situazione che per certi versi apprezzo, ma che con il passare del tempo presenta anche qualche rischio, perché la mancanza di un confronto ostacola la possibilità di una crescita personale. Anche per questo, però, trovo che la scrittura narrativa e quella cinematografica appartengano a due mondi diversi: un po' perché una sceneggiatura non è mai una «cosa finita» ma viene concepita pensando ai suoi destinatari, un po' perché è necessario pensare in termini di immagini e non di parole. Esiste poi una terza differenza, che mi tocca in modo particolare: nel cinema la cinepresa si trova per forza di cose al di fuori dell'azione. Insomma, nel cinema non c'è io narrante.

(dal "manifesto", 17 febbraio 2006)

martedì 18 gennaio 2011

Francis Ford Coppola: da "Peggy Sue" a "Un'altra giovinezza"

E' di certo un azzardo affiancare due film così diversi come Peggy Sue si è sposata (che abbiamo visto in dicembre) e Un'altra giovinezza (in programmazione giovedì 20 gennaio), che in comune sembrano avere solo il nome del regista, Francis Ford Coppola. Ma non trattano entrambi in certo senso del rapporto - mai del tutto risolto - con il proprio passato e con il proprio futuro?
Per un rapido approfondimento su Peggy Sue, ecco la recensione di Roberto Escobar uscita nel febbraio 1987 sul "Sole 24 ore". Su Un'altra giovinezza, invece, oltre alla scheda di Wikipedia, una carrellata di critiche dal sito Spietati e la pagina dedicata al film da MyMovies, che comprende diversi approfondimenti (fra cui la recensione di Lietta Tornabuoni sulla "Stampa" del 21 ottobre 2007).